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S'IO FOSSI LUCE

di Mignosi Picone Maria Elena

Anno: 2021
ISBN: 978-88-6932-258-7
Prezzo: 12.00 €

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In questa raccolta di poesie, S’io fossi luce, Maria Elena Mignosi rilancia tutta la peculiarità della sua parola trasparente. Nessun virtuosismo lessicale, nessun compiacimento musicale. Solo la sostanza, concreta, dei sentimenti che chiunque proverebbe se si trovasse a vivere le stesse cose che l’Autrice racconta nelle sue poesie. L’idea che dà il titolo alla raccolta è suggestiva: l’Autrice immagina di essere la Luce che vorrebbe vedere nelle persone e nelle cose del mondo, quasi spazientita per il fatto che ve ne sia troppo poca. O, meglio, lamentando – o forse ringraziando – che ve ne sia quel tanto che basta per desiderare che ve ne sia ancor di più. 
Il mondo, infatti, è un chiaroscuro, una miscela di gioie e dolori, e non c’è gioia che non si porti dietro la penombra di un dolore, né dolore che non preluda a una tregua, a un sollievo che possa, se non eliminare il dolore stesso, almeno sospenderlo.I temi che, nelle varie poesie, riproducono questa oscillazione e questo chiaroscuro, sono quelli che l’Autrice ha sondato, con profondità di pensiero e delicatezza di animo, nelle altre sue numerose opere, sia in poesia sia in prosa. Sono i temi di Dio, dell’amore, del tempo e della morte.  È innegabile, tuttavia, come questa volta vi sia un tema prioritario, che guida in filigrana la riflessione su tutti gli altri, ed è quello della morte. ma non della morte in generale, ma della morte della sorella dell’Autrice, Antonella. La commovente vibrazione con cui sono descritti i propri sentimenti di fronte alla morte dell’amata sorella, rende impossibile non sentirsi partecipi della stessa emozione. Nelle poesie dedicate alla sorella si trova certamente la chiave di tutta la poetica di Maria Elena Mignosi. Se la morte delle persone che si amano è così dolorosa, ci sarà qualcosa di immenso che essa nasconde. Ma nelle poesie dell’Autrice scopriamo che la morte dell’altro è peggiore della propria stessa morte.  Facciamo esperienza della morte quando qualcuno che faceva parte della nostra vita viene meno per sempre. Ed è per questo che spesso temo più la sua morte che la mia. San Bernardo ha affermato: mortem meorum horreo: “ho orrore al pensiero della morte dei miei”. Ne deriva che la mia morte non è mai soltanto “mia”, ma è sempre anche la morte di coloro che, vedendomi morire, si sentiranno a loro volta morire. Né la tua morte è semplicemente la “tua”, poiché sarà sempre anche quella di chi, vedendoti morire, si sentirà a sua volta morire. La morte della persona amata, in effetti, esprime la contraddizione, lacerante, di un legame che si spezza proprio nel momento in cui si rinsalda. Ci accorgiamo di quanto l’altro fosse prezioso, infatti, quando ormai non c’è più. Il nostro legame con lui diventa più forte, dunque, proprio quando si spezza. E questo acuisce il senso di privazione e di perdita. Perdere qualcuno a cui si è legati è doloroso. Ma ancora più doloroso è accorgersi di quanto si fosse profondamente legati a lui solo quando lo si perde. L’altro non è mai così presente come quando viene a mancare. Insomma, pur essendo simboleggiata dall’oscurità, la morte, una volta avvenuta, illumina retrospettivamente la vita. Solo quando il prossimo è avvolto dall’oscurità della morte, infatti, lo vediamo nella giusta luce. Spezzando il legame che avevamo con lui, la morte lo rende ancora più solido e luminoso. Il punto veramente cruciale che l’Autrice sublima nella propria poesia è allora la “morte del prossimo”, dal latino proxĭmus, che è il superlativo di prope, e cioè “vicino”. “Prossimo” significa dunque “il più vicino”. La morte del prossimo è insomma la morte delle persone a me più vicine, alle quali voglio bene e che amo come me stesso e, talvolta, più di me stesso.  Con la morte del mio prossimo, a ben pensarci, il mio mondo crolla più che con la mia morte: in fondo dopo la mia morte il mondo continuerà in mia assenza, ma quello che continua dopo la morte del mio prossimo non è più lo stesso mondo, ma un cumulo di macerie, lo spettacolo di una rovina permanente. Potremmo sopportare forse un funerale, ma non il ritorno nella casa vuota, in cui i vestiti e gli oggetti personali di chi è scomparso, i punti della casa in cui amava sostare, evocheranno il vuoto di un “mai-più”, che dopo lunghi anni di convivenza sembrerà ancora più doloroso che dopo pochi giorni di vita insieme. Qui un maglione, là, ormai scaduto da tempo, un documento di identità, lì un astuccio delle penne, e, fra le cose peggiori, un anello, degli occhiali, e cioè oggetti che facevano parte del corpo dell’amato. Ben più doloroso del funerale di una persona amata è, per esempio, ritrovare su un mobiletto i suoi occhiali. Ma la luce trionfa. Non però con la violenza abbagliante e invadente che non rispetta il mistero. È esperienza comune che chi rimane senta ancora, anche se in modo confuso, la presenza della persona ormai scomparsa. Occorre prendere sul serio questa sensazione, a tal punto che se qualcuno, a causa della morte della persona amata, si rassegnasse davvero al suo annullamento e dunque alla propria definitiva separazione da lei, commetterebbe un tradimento nei suoi confronti. La memoria poetica che Maria Elena Mignosi dedica alla sorella è in quest’ottica un atto di fedeltà nei confronti di un mistero. Il mistero di un’oscurità che non è mai buio totale, ma sempre penombra che lascia intravedere una luce. Che nella fede religiosa dell’Autrice è la luce stessa di Dio, grembo accogliente che tutto salva. Anche nell’apparente rovina della morte. 
Luciano Sesta