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COME UN DIARIO

di Giannone Giacomo

Anno: 2019
ISBN: 978-88-6932-195-5
Prezzo: 10.00 €

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Dalla prefazione di Franco Favata:
È pensabile che Giacomo Giannone, accingendosi a preparare questa nuova silloge poetica, abbia avvertito, come stimolo dominante e leitmotiv ispiratore, il senso dell’incessante trascorrere dei giorni. Lo stillicidio, lento e inesorabile, dei tanti momenti della vita si configura infatti come l’ordito unificante della raccolta che ripropone alcune composizioni datate perché lontane nel tempo accanto alle tante altre della più recente produzione dell’autore. Selezionate, le prime fra le più care alla sua sensibilità, segnate queste ultime da quotidiana amarezza, acuta e sofferta.
Giacomo Giannone - poeta ormai ottuagenario, dal ricco curriculum e dai molti riconoscimenti - sa bene che il tempo è un dio beffardo che corre e vola lasciandosi alle spalle una scia nebulosa di frammenti a cui l’uomo, di tanto in tanto, ama volgere lo sguardo per rintracciare le orme lasciate sul sentiero del proprio cammino e rivivere come ricordi.
Il poeta raccoglie nel cavo delle mani il flusso delle emozioni vissute e trascorse e, in una ricerca retrospettiva, trattiene le pepite più preziose.
I limpidi versi del Giannone hanno sovente il delicato, quasi trasparente, colore di pennellate sobrie, ma comunque capaci di evocare immagini dei luoghi del cuore, o di conferire contorni e spessore, quasi ritratti in bianco e nero, ai volti di persone care mai oscurate dall’oblio.
Nella quiete di una sera che scende su un borgo bastano, per esempio, “ i rintocchi di antica campana/rintocchi fievoli e lenti…” per richiamare “un remoto passato” e fare affiorare l’immagine della “casa del nonno/il sommacco/la vigna l’ulivo/e il campanile della S. Maria delle Grazie” (Richiamo). E ancora: “…la fulgida luce/abbagliante” della sua mente suscita il ricordo della “trazzera tortuosa/la vigna/l’ulivo la casa/il ficus frondoso” (Eppure non è notte). In certe tenere circostanze poi basta una flebile voce per suscitare emozioni intense o richiamare i sereni giorni dell’infanzia rimpianti con animo punto dalla commozione: “La casa di tufo/la pila di pietra/il giardino fiorito/la carrucola del pozzo” (La flebile voce).
Quando poi “le palpebre si chiudono/il respiro si fa pesante”, allora “si sentono/colpi di martello/su suole di scarpe rotte”: è il segno che “lui ripara aggiusta cuce/rattoppa /infila la lesina/ tira lo spago cerato” (Lui ripara cuce e rattoppa). E non manca, benevolmente ironico, il ritratto della nonna Nardina che “rapita/gioisce/del nuovo scialle multicolore/regalo della sorella amata” (Nonna Nardina).
“Narrata”, invece, con cipiglio quasi epico la figura di nonno Santo: prestante, coraggioso, tenace lavoratore, andato via dopo avere ascoltato “l’ultimo sibilo di vento”. Robusto e forte, riusciva a fermare “con le mani il mulo baio/imbizzarrito”, capace di sollevare “le ruote del carretto/ dalle pozze” e a dirigerle “con agile spinta/nell’asciutto/la mota sul petto e sulle spalle”. La partenza del saggio grande vecchio lasciò tutti increduli e smarriti: “Certo ti cercheremo ancora/ per chiederti sollievo protezione” (L’ultimo sibilo del vento).
Di ben altra natura la linfa che traspare dai versi dedicati a Angela: la ricca umanità del poeta ascolta con sincera compassione il tormentoso rimpianto della giovane donna condannata tutta la vita su una sedia a rotelle, trafitta da un male inesorabile: “Io nella mia sedia sto seduta/incerta”, mentre “sulla panchina sedute/coppie di innamorati si baciano”. Inseguendo invano un amore che, purtroppo, mai arriverà, Angela sa che è vano “pensare desiderare sperare” (Angela).
Densi, senza facili languori, sono i versi dedicati alla città dove Giannone visse per tanti lustri sereni e di cui ama richiamare i fasti e le nobili vestigia con “aliti come respiro/fiato di mare” e sono “chicche d’amore/chicche di gloria/chicche di storia”. Ecco “La cattedrale Santa Caterina/San Pietro San Francesco…Piazza Mokarta/l’Arco Normanno/la fontana il cefalo/la palma frondosa” (Aliti fiati respiri).
Inattesi, ahimé, giunsero i giorni crudeli. Oscuri presagi, ansie dubbiose, attese e responsi, illusioni stroncate, segni palesi: il “perfido morbo”, oscuro e tenace, si era presentato, aveva preso dimora. I versi più recenti non possono più evocare affettuose nostalgie lontane, ma – riservati e discreti, quasi pudichi - hanno la mesta cadenza di sfoghi amari, chiaro segno dell’intimo assillo per le quotidiane sofferenze di riflesso vissute sulla persona al poeta tanto cara.
E’ l’odissea di uno strazio quotidiano, quasi un personale calvario vissuto attraverso lo sforzo di percepire ogni sia pur piccolo segnale che possa rappresentare una tenue speranza, nella consapevolezza tuttavia di un decorso ineluttabile.
In tal modo i versi di Giannone - dalla resa formale schietta ed elegante attraverso un laborioso lavoro di cesello e dalla cifra stilistica allusiva e mai criptica – raccontano, con accorata e vigile partecipazione, la vicenda di un progressivo affievolirsi di una coscienza che diventa, di giorno in giorno, sempre meno vigile e reattiva. Sono il segno di una sconfitta impotente di chi ad altro rimedio non riesce e non può ricorrere se non offrendo la propria costante dolorosa vicinanza e l’ascolto vigile e premuroso. Scrive il poeta: “Si fruga nell’animo/spesso/con attenzione/si cerca, si vuole / una risposta/ al tuo essere, al tuo vivere / e si rimane allora/sospesi” (Si fruga nell’animo). E ancora alla ricerca di una effimera consolazione annota: “La vita è un percorso/lento, accidentato, / rosa da un tarl o/ cocciuto, non manifesto / se non nutri/ideali/nel tuo cammino” (Si fruga nell’animo). Sempre costante è la “pena infinita” che addolora, ecco: “l’infido morbo/che insidia la mente/e strisciante la svuota” (L’infido morbo). Tante illusioni di un tempo sono crollate, dissolte al vento. La soavità di un sogno lontano si è infranta, perché, ricorda il poeta, “venne il rallo/rauco gracchiò/infausto annuncio/di avverso destino/venne la luna/e rapì la memoria/arrivò il sole/e la mente incendiò/tutto fu cenere” (Io tu la casa). E quando “muore ogni speranza/arriva la demenza” e al poeta, come sconfitto, non resta che provare “pena infinita per lei/che mi sta vicino/donna affabile /…ora incerta indifesa/vittima di un male malefico/distruttivo” (Dolorosa inesistenza).
Chiedere aiuto alla vodka o al nebbiolo può essere una soluzione idonea a recare sollievo all’anima ferita e lenire un’acuta afflizione? Esercizio vano, effimera fuga, sfogo inutile.
Intanto uno dopo l’altro volano i foglietti del calendario, il tempo vola via. I giorni scorrono, inesorabili, atroci. E sono tutti qui: i giorni della struggente nostalgia e i giorni della partecipe sofferenza che si richiamano e si intrecciano. Tutti giorni che trovano un legame sottile nella lucida coscienza dell’io poetante e si configurano come un accorato florilegio dell’animo, idealmente cadenzato come un diario.
Cesena, 2019