LA giuria composta da Stefania Groppo, insegnate - Nicola Maglione, presidente dell'associazione Penna d'Autore - Giorgio Milanese, poeta - Donatella Garitta, giornalista e presieduta da Maria Antonietta Ricci, presidente della federazione tra le associazioni Prader Willi ha stilato la seguente graduatoria:
Sezione narrativa -
Primo classificato: Silvano Fecchio col racconto «1901 – Solo cinque giorni»
Secondo classificato: Bruno Bianco col racconto «Donne di Langa»
Terzo classificato: Sonsogno Massimiliano col racconto «Alexander»
Sezione poesia -
Primo classificato: Campello Anna Maria con la poesia «Come polvere di stelle»
Secondo classificato: Claudio Bellini con la poesia «Ester»
Terzo classificato: Sonia Pavanello con la poesia «Rughe del tempo»
Tutto ebbe inizio un mattino di settembre del 1984, mentre trascorrevo i miei ultimi giorni di ferie in Friuli. Ho detto: ebbe inizio, anche se questa incredibile vicenda aveva avuto origine molti anni prima.
Io stavo tornando al mio appartamento di vacanza, dopo una corsa in mountain-bike, quando incrociai Lorenzo, il geometra, mio buon amico. Aveva un'espressione seria e gli occhi spiritati, era anche lui in bicicletta e ansimava trafelato, nonostante stesse percorrendo la strada in discesa.
“Stai sbuffando troppo, devi allenarti di più, pigrone” gli dissi facendogli segno di fermarsi.
Lui rallentò strusciando con un piede sull'asfalto, ma non si fermò.
“Non posso fermarmi, ho fretta, devo andare! Sono stato a telefonare ai Carabinieri... è successa una cosa terribile!” mi urlò.
“Ma che cosa è successo?” gli gridai mentre aveva ripreso a correre.
“È nella casa dove stiamo lavorando... è terribile!”
Girai la bici e mi misi a rincorrerlo.
In questi piccoli paesi non succede mai niente, cosa diavolo poteva essere di tanto grave, pensai mentre pedalavo in fretta.
Ad un certo punto voltammo ad angolo, giù per una stradina laterale molto ombrosa, perchè fiancheggiata da altri arbusti e più avanti ci trovammo improvvisamente davanti a quella casa, in mezzo a un vasto prato. Era costruita interamente con i sassi dei torrenti, come usavano fare, in quelle zone, fino ai primi del secolo.
Fuori, sullo spiazzo, c'erano alcuni muratori, due di loro stavano seduti su delle travi e fumavano la pipia; appena ci videro si alzarono in piedi.
“Allora? Hai telefonato?” chiesero a Lorenzo.
“Sì... hanno detto di non toccare niente e che arriveranno fra poco” rispose lui ansando.
Adagiai a terra la mia bicicletta.
“Ma cos'è successo qui? Avete tutti un'aria stravolta”, dissi attirando gli sguardi.
Lorenzo sul momento non rispose: io e lui eravamo coetanei e amici di vecchia data e ciò mi consentiva di insistere.
“Beh? Allora?”
“Allora, se vuoi, va a vedere tu stesso, guarda nel sottoscala... io non vengo, non torno lì dentro”.
Cominciai a sentirmi inquieto e ricordo che alzando lo sguardo sulla porta d'entrata, vidi scolpita sull'architrave una data: 1901.
A quel punto non potevo tirarmi indietro e quando oltrepassai la soglia, avvertii un leggero brivido.
All'interno la luce filtrava abbondantemente da due finestre della cucina che illuminavano anche un breve corridoio più avanti, alla fine del quale c'era una scala di pietra che portava al piano di sopra. Camminando lentamente arrivai a i piedi di quella scala, che prendeva luce da un'altra piccola finestra proprio di fronte e qui, esitando, mi sporsi di lato per poter vedere cosa c'era lì sotto e ciò che intravidi mi raggelò.
Il sottoscala era chiuso da un muro di mattoni, che gli operai avevano in parte demolito e da quello squarcio, una luce radente illuminava un cadavere mummificato.
Era seduto su una sedia, in posizione quasi eretta perché tenuto su da una corda, che gli era stata legata attorno al busto e allo schienale. Le braccia, ridotte a scheletro, erano penzoloni e la testa era reclinata in avanti, mentre il viso appariva seminascosto da lunghi capelli, che sicuramente avevano continuato a crescere anche dopo la morte. Il vestito sembrava un semplice grembiule di colore scuro, indefinito. Ai piedi non calzava scarpe e su tutto quel corpo c'era una polvere grigiastra simile a cenere. Uscii all'aperto visibilmente scosso e respirai a fondo più volte per mitigare la sensazione di nausea, mentre la jeep dei Carabinieri comparve all'inizio della stradina. Lorenzo mi guardava pensieroso, forse convinto che avrei vomitato: “Hai visto che spettacolo? Cosa ne pensi?”.
“Credo sia una donna” risposi quasi a fatica “in quel sottoscala doveva filtrare dell'aria e il cadavere si è mummificato... ma chi può essere?”
Lui scosse il capo: “Ce lo siamo chiesto tutti e non abbiamo la più pallida idea, però sono sicuro che tutto questo dev'essere avvenuto quando non eravamo ancora nati”.
Il maresciallo dei Carabinieri ci salutò, fece qualche domanda e subito dopo entrò nella casa assieme a Lorenzo, che stavolta non poté rifiutarsi di accompagnarlo; altri due Carabinieri e invece attesero fuori. Trascorsero sì e no dieci minuti, dopodichè Lorenzo tornò fuori stravolto più di prima.
Il maresciallo, con una faccia tesa, lo seguì a breve e senza dire niente andò alla camionetta dove chiamò con la radio il comando di Udine. Sentimmo che illustrava il rinvenimento e chiedeva l'intervento degli specialisti della sezione investigativa. Dopo un po' cominciò a piovere fitto e allora andai via, proprio mentre verbalizzavano le deposizioni di Lorenzo e degli operai. Poco prima delle due del pomeriggio, arrivarono degli investigatori dal capoluogo, con due automobili scure, belle lucide e i lampeggianti blue. Ormai la notizia si era diffusa per i paesi intorno e nonostante la pioggia c'era tanta gente che assisteva incuriosita e commentava l'accaduto.
I commenti che sentivo erano i più disparati e non mancavano di fantasia, però c'era una domanda insistente e comune a tutti: ma chi poteva essere quella morta?
Quell'autunno fu cupo, nebbioso, seguito poi da un inverno particolarmente gelido e il mistero del cadavere mummificato rinvenuto in quella casa, non riuscirono a svelarlo.
Dalla città dove risiedo, lessi giornalmente le notizie di cronaca di quei paesi, abbonandomi a un giornale locale, ma di quel fatto non trovai scritto mai niente e dopo mesi, il risultato fu sostanzialmente zero. Alcune telefonate a Lorenzo confermarono che non era stato chiarito nulla, oltre le constatazioni effettuate ancora le prime settimane d' indagine.
Le perizie effettuate in quei giorni avevano permesso di stabilire che il corpo apparteneva a una donna abbastanza giovane, deceduta per lo sfondamento del cranio, dovuto a un violento colpo, che le era stato inferto con un oggetto contundente.
Quell'omicidio, perché di questo si trattava, fu fatto risalire a circa cinquant'anni prima e evidentemente, pensai io, non interessava più a nessuno, se non quale argomento di conversazione e di macabra curiosità.
Sicuramente fu curiosità anche la mia, che mi spinse, ai primi di giugno dell'ottantacinque, a prendermi una settimana di ferie per tornare al paese.
Lassù rividi quella vecchia casa e notai che i lavori di ristrutturazione non erano stati ripresi dopo che furono interrotti quella volta. I nuovi proprietari, da ciò che si sapeva, cercavano di venderla, evidentemente senza successo.
Il primo giorno della mia permanenza non feci assolutamente nulla, tranne pensare e correre in bicicletta per le stradine dei campi. Invece il secondo giorno di buon'ora, mi recai alla stazione dei Carabinieri che aveva sede in un paese vicino, dove il maresciallo, molto gentilmente, s'intrattenne con me a parlare del caso.
Naturalmente non accennò una parola riguardo alle indagini tutt'ora in corso, delle quali si occupava lui assieme alla sezione investigativa di Udine.
Disse che quella casa apparteneva, fino a pochi anni prima, a un certo Osvaldo M., nato nel 1902 e ultimogenito di altri due fratelli, che erano morti al fronte nel corso della prima guerra mondiale.
Alcuni anni dopo, i suoi genitori morirono anch'essi per le conseguenze dell'influenza spagnola del 1918.
Osvaldo in seguito si sposò e nel 1929 emigrò con la moglie in Olanda, dove si stabilì lavorando dapprima come muratore e successivamente acquisendo un'impresa edile per proprio conto.
Tutto qui, praticamente la storia era questa.
Alle mie domande, il maresciallo aggiunse che Osvaldo tornò al paese solo per brevi periodi di vacanza, dopo che rimase vedovo all'inizio degli anni '70. Lui morì in Olanda nel 1979 e quella casa l'ebbe poi in eredità un lontano parente, il quale, qualche anno fa, la vendette a gente forestiera.
La storia dunque finiva qui, il maresciallo non disse altro, però aveva capito fin dall'inizio che ignorava chi era il cadavere rinvenuto in quella vecchia casa.
Il terzo giorno andai all'ufficio anagrafe del Municipio, con l'intenzione di effettuare qualche ricerca, ma inaspettatamente rimasi deluso, in quanto mi dissero che tutti i registri, dal 1880 al 1917 erano poco attendibili perché erano stati distrutti da una granata austriaca durante la ritirata di Caporetto. Il tutto fu poi riscritto praticamente a “memoria” e consultando l'archivio parrocchiale, che riportava le nascite, i battesimi, i matrimoni e le morti.
Quindi il pomeriggio suonai alla Canonica e qui, alla mia richiesta di consultare i registri, il Parroco non si dimostrò entusiasta. Storse il naso, ma non arrivò a negarmi il favore, anche se, per tutto il tempo, restò sempre nella stanza senza perdermi d'occhio, evidentemente gelosissimo di quel suo archivio.
Trovai la data del matrimonio di Osvaldo: una domenica d'aprile del 1926 e appresi che sua moglie si chiamava Caterina D., nata e vissuta in un paese a pochi chilometri.
Quel volume era magnifico, ben rilegato e scritto con bella grafia, con inchiostro color seppia e riportava anche interessanti notizie riguardanti la comunità parrocchiale.
Andai via soddisfatto; certo erano notizie di pubblico dominio, ma proprio su quelle pagine mi erano venute delle idee e se avevo un po' di fortuna...
Il mattino del quarto giorno, m'informai su chi fossero le persone più vecchie del paese e poi andai a parlare con loro.
Il primo della lista era un certo Beppino, un simpatico ultra ottantenne, che viveva con un figlio e la nuora; però purtroppo, da quel colloquio non ricavai gran che. Quel vecchietto aveva un aspetto arzillo, invece la sua mente non lo era altrettanto. Lui ricordava poco e male e continuava a chiedermi, a bassa voce, se avevo un sigaro toscano da dargli di nascosto, perché non volevano che fumasse.
Inconcludente fu anche l'incontro successivo con una certa Celestina, pure lei ottuagenaria, la quale comunque disse una cosa, che al momento sottovalutai e cioè che Osvaldo era un bell'uomo e corteggiava le donne anche dopo sposato.
Praticamente senza storia fu anche il colloquio con un'altra vecchietta di nome Rosa, con la variante che ripeté alcune volte, che ero un bel giovanotto e che ero stato gentile a andarla a trovare.
Del mosaico che cercavo di comporre, non riuscii a aggiungere nessun tassello e l'intera composizione continuava a rimanermi nebulosa. A quel punto cominciai a perdere le speranze: non avrei ricavato nulla parlando con i vecchi. Sicuramente anche i Carabinieri avevano battuto la stessa pista e dall'epoca dei fatti era trascorso molto tempo, forse troppo: oltre cinquant'anni e i ricordi si erano affievoliti se non azzerati, mentre io avevo bisogno di notizie certe. Perciò il quinto giorno, fu solo per scrupolo e non per convinzione che andai in un paese vicino, per parlare con Amalia.
Come mi avevano detto, lei viveva da circa un anno in una casa di riposo. La trovai in giardino, seduta su una panchina da sola e dopo un po', non senza sorpresa, mi resi conto che avevo avuto un colpo di fortuna: lei ricordava bene.
L'artrite le aveva artigliato le gambe, però il cervello, come constatai, era ancora pronto e lucido e così Amalia, una dolce vecchietta rimasta sola al mondo, fu la mia carta vincente, fu la chiave con la quale potei aprire la serratura di quel caso misterioso. Seduti sulla panchina parlammo per più di un'ora e non ci fu una sola domanda alla quale lei non seppe rispondere.
Il pomeriggio, bighellonai a lungo per la campagna; l'indomani mattina sarei ripartito, mia moglie mi reclamava al telefono e il lavoro anche; in un certo senso la mia missione era terminata, ma prima di andarmene qualcosa mi spinse a dare un ultimo sguardo dentro quella casa.
L'ingresso era transennato e tutto attorno erano cresciuti folti cespugli d'erbacce. Riuscii a entrare con qualche difficoltà; attraversai la cucina, arrivai in fondo al corridoio, fino ai piedi della scala.
La luce stava diminuendo, ormai mancava poco al tramonto, comunque i resti di quel piccolo muro si distinguevano ancora bene, erano davanti a me; passai le dita fra mattone e mattone per sentire con i polpastrelli la consistenza di quella vecchia malta.
Osvaldo aveva lavorato bene, in fretta ma bene e non c'erano dubbi, si vedeva che era stato del mestiere.
“Ma che fai qui? Sei tornato nel luogo del delitto?” Ebbi un sussulto e d'istinto mi voltai di scatto, benché quella voce l'avessi riconosciuta immediatamente. vidi Lorenzo dietro di me, a qualche metro e sorrideva.
“Accidenti, mi hai fatto prendere un colpo, non ti avevo sentito”.
“Su dalla strada ho intravisto la tua macchina qui fuori, così sono venuto giù a vedere... allora sei riuscito a svelare il mistero della casa della mummia?”
Mi pulii le mani con il fazzoletto, c'era una punta d'ironia nel suo tono. “Adesso la chiamano così”
“Già e lo credo che i proprietari cerchino di disfarsene”.
“Usciamo da questo posto, comincia a darmi un senso di oppressione” ripresi. All'aperto il sole stava declinando dietro le colline, ancora pochi minuti e sarebbe scomparso del tutto. La luce rossastra del tramonto, illuminava il paesaggio, proiettando bagliori e lunghe ombre intorno a noi. Lorenzo mi guardava con aria interrogativa, come attendendo che dicessi qualcosa.
“Ti racconto una storia” gli dissi sedendomi sul cofano della mia auto “ho impiegato cinque giorni per venirne a capo e devo anche ringraziare la fortuna”.
“Allora avevo intuito giusto, sei dunque riuscito a svelare il mistero?”
“Ti ripeto, la mia è solo una storia e sono partito dal principio che in questi paesi tutti si conoscono e così è sempre stato, anzi una volta ancora di più. Quindi era normale sapere degli affari degli altri e viceversa, perciò era impossibile che la sparizione di una persona del luogo potesse passare nell'indifferenza generale, a meno che...” Lorenzo ascoltava attento, sembrava affascinato dal mio racconto.
“A meno che?” ripeté lui. Io continuai: “A meno che non ci fosse una sostituzione di persona, così ben architettata che i paesani non fossero in grado di rendersene conto. Questo è stato un omicidio crudelmente premeditato, con sostituzione di persona e il tutto ha funzionato talmente bene che è durato fino a quando i tuoi operai non hanno sfondato quel muro. Questa storia cominciò quando Osvaldo si sposò con Caterina nel 1926; quell'uomo non aveva avuto una vita facile, aveva perso i due fratelli in guerra e dopo appena qualche anno perse anche i genitori per un'epidemia. Il suo matrimonio si guastò quasi subito, probabilmente perché Caterina non rimaneva incinta; il non avere figli, specialmente per le famiglie contadine di quei tempi, era una vera disgrazia. Lui sicuramente accusava lei di essere sterile e di averlo ingannato, in seguito, invece, dovette accorgersi che era esattamente il contrario. Osvaldo era un bell'uomo, non aveva difficoltà ad amoreggiare con altre donne e ad esserne ricambiato. Ebbe una relazione con una ragazza forestiera di nome Maria, che faceva l'inserviente nell'albergo “Leon d'Oro” del paese vicino. Si innamorarono l'uno dell'altra e qui finisce la prima parte della storia. Il seguito è un allucinante crescendo, perché Osvaldo convince la moglie che sarebbe meglio per loro emigrare in Olanda, paese che lui conosce bene, in quanto vi aveva lavorato per diversi anni come muratore stagionale.
Richiede i passaporti, fa tutto in regola, fa tutto alla luce del sole con fredda determinazione. Intanto Maria si licenzia dall'albergo e se ne va in un posto concordato con Osvaldo.
Una sera lui uccide la moglie con un colpo di maglio alla testa, poi occulta il cadavere nel sottoscala e in poche ore tira su il muro. Per lui è facile, è del mestiere e ha predisposto ogni cosa da tempo; poi in piena notte lascia il paese. Sicuramente prende un treno a Udine dove precedentemente aveva depositato i bagagli e dove s'incontra con Maria, alla quale fa assumere l'identità della moglie Caterina. Forse le due donne si somigliavano, forse la descrizione sul passaporto concordava in molti punti, forse a quei tempi la polizia di frontiera badava poco a quei straccioni di emigranti. Sta di fatto che i due arrivano in Olanda e vi si stabiliscono. Maria diventa quindi Caterina, moglie di Osvaldo e entrambi ormai hanno poco da temere; lei era una ragazza orfana, non aveva genitori o fratelli che potessero cercarla. Lei non rientrerà mai più in Italia e morirà in Olanda nel '74. Dalla loro unione non nacquero figli, perché Osvaldo era sterile... questa, amico mio, è tutta la storia”.
Lorenzo rimase assorto, sembrava riflettere; alla fine volse lo sguardo su quella casa. “Questo spiega perché Osvaldo non tornò mai al paese in compagnia della falsa moglie: non poteva scoprirsi”.
“Proprio così” dissi io “non poteva tornare con lei. Lui venne qui alcune volte e sempre per pochi giorni, soltanto dopo che era rimasto vedovo. Ma mi chiedo come abbia potuto, con il cadavere di Caterina, la vera moglie, oltre quel muro”.
Restammo tutti e due in silenzio; Lorenzo mi pareva colpito da ciò che gli avevo raccontato. Guardò l'orologio come a farmi capire che doveva andare.
“Questa storia la racconterai ai Carabinieri?” mi chiese.
Scossi il capo dicendo “Pensi servirebbe a qualcosa? Ormai sono trascorsi tanti anni e i protagonisti non ci sono più... non c'è più nessuno che debba pagare per questo delitto”.
“Potrebbe servire a dare almeno un nome a quella poveretta, sepolta in cimitero” disse lui.
“Se vuoi, racconta tu questa storia al maresciallo, io domani mattina devo partire”.
Ci salutammo con una stretta di mano mentre si era fatto buio e quel luogo aveva assunto un aspetto ancora più tetro.
Salii in macchina e facendo manovra, i fari illuminarono per un istante la porta della casa e quell'architrave di pietra dov'era scolpito 1901.
- Non è una donna di Langa -
Giulia era stata accolta così dalle donne della cascina del Poggio; dopo nemmeno un mese che si era sposata con il figlio più giovane della famiglia, loro l’avevano già segnata. Troppo magra e esile, troppo piacente e aggraziata, troppo timida e debole per essere una donna di Langa; il giudizio delle mogli degli altri cinque figli era inappellabile e definitivo. Poi nell’autunno era successa la tragedia; il marito era entrato nella botte dove bolliva il mosto e non ne era più uscito, almeno non con le sue gambe; quando lo tirarono fuori i gas della fermentazione lo avevano già soffocato e Giulia in pochi mesi era passata da nubile a coniugata a vedova.
- Già era inutile prima; adesso non so proprio a cosa può ancora servire. -
- Poi finisce che si trova un altro marito e ci tocca dividere la terra con un forestiero. -
- Vi dico io cosa bisogna fare; compriamole la parte che era di Sandro, la liquidiamo e ci leviamo il fastidio. -
- Giulia non è una donna di Langa. -
Sandro non era ancora stato seppellito e già fratelli e cognate si preoccupavano della terra. La cascina del Poggio era enorme, una delle più grosse della zona, terra di Langa, da consumarti di fatica per venirne sempre in poco, per arricchire i mediatori che ti compravano tutto, fino all’ultimo chicco di grano, fino all’ultimo grappolo d’uva, fino all’ultimo carro di fieno, ma sempre all’ultimo momento. Arrivavano sempre alla fine, quando non trovavi più nessun altro e allora per non rimetterci tutto, davi ogni cosa all’unico mediatore che si presentava; anche se lo sapevi che tra loro si mettevano d’accordo, si spartivano le cascine e alla fine il prezzo lo facevano sempre loro. Così la sera dopo il funerale i cinque cognati buttarono sul tavolo davanti a Giulia un numero di lire grande abbastanza che nessuno potesse mai dire che l’avevano fregata, ma allo stesso tempo piccolo abbastanza perché i fregati non fossero loro.
Da quel momento Giulia andò a vivere in quel piccolo pezzo del casale che le era rimasto e se ne stava fuori da tutti i riti della famiglia, lontano dai lavori delle donne della famiglia.
- Non è una donna di Langa - dicevano le cognate quando dovevano cucinare per gli uomini, quando c’erano quei lavori di campagna che facevano soltanto le donne, quando piegavano la schiena per lavare le lenzuola. E lei non sgobbava mai in mezzo a loro; lei a casa non c’era mai e loro non sapevano mai dove fosse.
Intanto dal paese qualche giovane e qualche ragazza avevano già iniziato ad andarsene.
“Cercano gente in quella fabbrica di Alba” erano le parole che giravano più spesso tra i giovani che vedevano una vita nuova, perché “ad Alba c’è un signore che ha una piccola fabbrica, ma adesso si sta ingrandendo; si è messo a fare una crema speciale di cioccolato e nocciole e dicono che nel giro di qualche anno ci sarà lavoro per tutta la Langa.”
Chi andava raccontava di una vita da sogno, con un orario fisso, uno stipendio sicuro e la domenica in giro per Alba, dove i bar erano quasi più belli di quelli di Bra; tanti non ci credevano perché non poteva essere possibile che ci fosse qualcosa di più bello di Bra e dei suoi bar.
- Figurati, una fabbrica di cioccolata alla nocciola. Che metta su una fabbrica di tagliatelle oppure di bollito; chi vuoi che mangi del cioccolato alla nocciola! -
Ridevano le donne della cascina, adesso che si erano convinte che Giulia fosse andata a lavorare nella fabbrica di Alba, perché stava via tutta la giornata e a volte non tornava nemmeno a casa alla sera.
- Vuole le comodità, la signora! -
- Crede di diventare ricca senza far fatica. -
- Scappate lavoro e sacrificio che arriva Giulia. -
- Non è una donna di Langa. -
Poi passavano i mesi e di Giulia ne sapevano sempre meno; le cognate andavano n giro a chiedere a tutti quelli del paese che erano andati nella fabbrica, ma nessuno aveva mai visto Giulia. Allora iniziarono a girare voci strane, che si fosse messa a fare la vita; qualcuno diceva a Bra, qualcuno diceva ad Alba, qualcuno che avesse iniziato a Bra, ma che poi si fosse spostata ad Alba perché era lì che adesso iniziavano a esserci i soldi. Le cognate riportavano le voci, le ingrandivano, se non sapevano inventavano; ma a mandarle in bestia era che Giulia con loro non parlava, non diceva niente.
- Ma come vuoi campare senza lavorare? -
- Vuoi farci fare brutta figura a tutti? -
- In fondo sei ancora una della famiglia. -
- Non sei una donna di Langa. -
Poi una mattina di ottobre nel cortile arrivò una vecchia 500, di quelle dalle cromature lucide che tutti i bambini uscivano a vederla; era Gino il mediatore, anzi per tutti era il Mediatore e basta. Era il più esperto, il più forte, il più ricco mediatore della zona; non c’era partita di grano, di meliga, di uva, di vino che passasse di mano senza che lui lo sapesse, senza il suo consenso, senza che lui non ne avesse un qualche vantaggio.
- È qui che abita la signora Giulia? - aveva chiesto e non era ancora entrato in casa che già tutti erano usciti in cortile a chiedersi che cosa volesse Gino il mediatore da una come Giulia.
Il mediatore uscì che era mezzogiorno passato e nel cascinale quella mattina non si era combinato niente. Gli uomini non erano andati nei campi e le donne non avevano nemmeno iniziato a cucinare; tutti a discutere, ognuno con la propria convinzione su cosa si stavano dicendo Giulia e Gino il mediatore.
- Allora restiamo d’accordo così signora Giulia. Ci risentiamo presto. - Lo avevano sentito dire uscendo dalla porta e tutti si stupivano di vederlo così gentile, con il cappello in mano, mentre salutava Giulia addirittura con un mezzo inchino; proprio lui che era solito trattare sgarbatamente i contadini, approfittando della sua posizione di forza e sfruttando il loro stato di debolezza.
Ci volle più di una settimana, fatta di discorsi al bar, sul sagrato della chiesa, sulla piazza del mercato e nelle botteghe del paese prima che capissero cos’era successo; i racconti, le voci, le chiacchiere, i sentito-dire, avevano partorito i primi rudimenti di conoscenza, poi trasformati in ipotesi, quindi diventate opinioni e alla fine convertite inesorabilmente in certezze.
Con i soldi della vendita della sua parte, Giulia si era comprata un terreno, di quelli che valevano poco e costavano meno e lì aveva piantato nocciole; sì, alberi di nocciole, alberi che aveva moltiplicato in altri terreni da poco, affittati con accordi di tipo “Tu metti il terreno, io metto le piante”. Aveva anche fatto dei debiti, per comprare altra terra, per mettere nuove piante; gli altri seminavano grano, coltivavano vigne, facevano fieno, mentre lei piantava nocciole, nocciole che non interessavano nessuno. Finché quell’anno il signore della fabbrica di Alba centrò la scommessa; l’Italia intera voleva crema di cioccolato alla nocciola e lui voleva nocciole e le nocciole della zona le aveva solo una persona: Giulia.
Nessuno seppe mai com’era terminata la trattativa di quella mattina ma si diceva che i soldi che Gino il mediatore fece avere a Giulia per tutte le sue nocciole erano tali e tanti che tutti insieme in paese nessuno li avesse mai visti; così Giulia per il paese diventò “la signora delle nocciole”. Alcuni poi le chiesero di vendere i noccioleti, altri si offrirono di lavorarglieli, mentre tutti decisero che il prossimo anno avrebbero piantato alberi di nocciole; e Giulia diceva di sì a tutti, perché era duro lavorare da sola quei terreni, perché i soldi che le offrivano erano tanti, perché sapeva che comunque il suo monopolio non sarebbe durato a lungo. Poi disse di sì anche alle cognate che l’avevano invitata al pranzo della domenica; era stato un buon pranzo, in allegria, con i vecchi, gli uomini, le donne e i bambini. Alla fine Giulia si era alzata, aveva ringraziato e aveva anche accettato di tornare la domenica successiva; sulla porta si era però fermata, aveva fissato tutti e l’aveva buttata lì:
- Voi non siete donne di Langa. -
E con un sorriso, la signora delle nocciole aveva lasciato quella casa.
Quella pungente notte di Mosca, quel Natale, sarebbe stata inospitale per chiunque e, a maggior ragione, per quel piccolo agglomerato di stracci piangenti parcheggiato davanti alla porta di un convento tetro e silenzioso. Il neonato che abitava quell’ammasso di stoffa lisa dal tempo aveva ormai deciso di abbandonarsi al suo triste destino cosicché i suoi lamenti scemavano inesorabilmente verso quello che sarebbe stato un silenzio eterno. Piangeva come se stesse chiamando quella stessa madre che ne aveva decretato la morte, urlava come se la stesse maledicendo, singhiozzava come se stesse chiedendo solo un po’ d’amore, frenava il pianto come se non volesse disturbare un mondo troppo indaffarato per badare a lui.
Una luce apparve alla porta e le labbra del bimbo, livide e violacee, non riuscirono nemmeno ad aprirsi per chiedere aiuto. Due mani calde e morbide lo raccolsero da terra e lo portarono all’interno di quell’oscuro convento, facendogli provare dopo ore di agonia una sensazione di tepore ormai dimenticata.
Una suora, svegliata dai lamenti del neonato, aveva aperto il pesante portone d’ingresso e, con sua enorme sorpresa, si era trovata innanzi quell’esile e infreddolito frutto di un amore sbagliato.
Katerina, così si chiamava la suora che lo aveva salvato, gli mise nome Alexander.
Katerina sorrideva sempre, Alexander le rispondeva allo stesso modo.
Katerina si prendeva cura di lui, Alexander, se solo avesse potuto, avrebbe fatto lo stesso.
I giorni passavano inesorabili e, perse ormai le speranze di ritrovare i genitori del piccolo, il convento si era ormai abituato alla presenza di quel paffuto e sorridente regalo di Dio.
Le suore lo coccolavano giorno e notte, come fosse il figlio che nessuna di loro avrebbe mai potuto avere, ma Alexander sorrideva solo quando era in braccio a Katerina e lei lo sapeva, ma non se ne vantò mai.
I giorni diventarono mesi e i mesi diventarono troppi perché Katerina, che era la più anziana del convento, potesse continuare ad occuparsi di Alexander.
Fu affidato ad una novizia arrivata da poco, ma a lui non piaceva. I suoi unici momenti di festa erano le visite di Katerina, la sua mamma...o almeno la sua attuale valida sostituta.
La neve ricopriva ancora la città e il vento del nord soffiava gelido quando Alexander pronunciò la sua prima parola. - Kate - biascicò con un filo di voce.
Katerina, adagiata sul letto, col piccolo fra le braccia sorrise, poi rise e infine scoppio a piangere come se quel bambino le avesse regalato quell’amore che non aveva mai provato.
La voce che il bambino avesse parlato si diffuse rapidamente e chiunque se lo trovasse fra le braccia cercava, inutilmente, di farlo parlare a comando, ma lui, insensibile alle richieste, conosceva una sola parola: - Kate -.
Ben presto imparò a dire “Katerina” e la gelosia delle altre suore cresceva.
Un giorno, Alexander, stanco di dover aspettare fino a sera per vedere Katerina e approfittando di un momento di distrazione della novizia, decise che avrebbe camminato fino alla camera della sua mamma. In fondo non doveva essere difficile. Riusciva a farlo anche quella cuoca che assomigliava più ad un elefante che ad una donna!
Un passo dopo l’altro, non senza cadere, arrivò a destinazione e bussò, come aveva ormai imparato a fare da tempo: del resto era educazione!
Katerina aprì e si ritrovò davanti il suo piccolo e,quando capì che era arrivato da solo, lo prese e lo strinse tanto forte che Alexander si sentì soffocare.
Risero insieme.
Lei si adagiò sul letto e lui le sussurrò all’orecchio:
- Ti voglio bene -.
Lei sorrise e lui anche.
Lei sospirò e lui anche.
Lei chiuse gli occhi e lui ebbe paura.
- Non preoccuparti - disse Kate, la sua Kate - tra un po’ ci rivedremo. Ora devo andare e, mi raccomando, fai il bravo -.
Alexander non capì, lei lo baciò sulla fronte e richiuse gli occhi.
Katerina si addormentò sorridendo sui freddi cuscini e Alexander si addormentò triste fra le fredde braccia della sua unica mamma.
Senza di lei i giorni si trascinavano apatici e a nulla valsero le premurose cure delle altre suore che, sebbene si impegnassero al meglio, non riuscivano nemmeno a far sorridere il piccolo Alexander, figurarsi farlo parlare.
Passarono otto inverni senza che pronunciasse alcuna parola e poi, un giorno, con una naturalezza incredibile, disse: - Cosa c’è la fuori? - e indicò la finestra.
I presenti tacquero allibiti.
- Cosa c’è la fuori? - disse scandendo ogni sillaba (odiava ripetere le cose due volte).
- Il mondo - rispose stupita Natassia, una ragazza arrivata da poco in convento.
- Cos’è il mondo? - (Non faceva mai domande semplici il giovane Alexander)
Nessuno seppe rispondere e il silenzio di quegli attimi faceva fischiare le orecchie.
- Voglio vederlo - disse perentorio. E tacque.
Non parlò per almeno altri due anni, sebbene medici e professori chiamati da ogni parte della Russia stentassero a capirne le cause.
Passava tutto il suo tempo in biblioteca e nessuno sapeva come avesse imparato a leggere.
Leggeva ogni tipo di trattato, romanzo, favola, atto notarile e poesia che gli capitasse per le mani. In quei due anni imparò alla perfezione ogni libro di quella biblioteca.
Un uggioso pomeriggio di febbraio il dottor Gregorjievic busso all’imponente portone del convento e una suora dall’aria burbera e scocciata lo accompagnò nella sala adibita a studio della madre superiora.
Igor Gregorjievic attendeva, ritto in piedi, l’arrivo dell’anziana suora che dirigeva quella casa di preghiera. Il suo sguardo venne attirato da un quadro raffigurante un vescovo, o un cardinale, con gli occhi diabolici e le mani pesanti e nodose e, proprio mentre si stava avvicinando alla tela per poter meglio vedere quei due occhi così ipnotici, la porta sbattè contro la parete. Una donna entrò.
Le baciò la mano.
Le pieghe della pelle raggrinzita dagli anni, dal freddo e dagli stenti patiti per una vita intera gli solleticarono le labbra.
La suora, nera in volto come il vestito che indossava, si sedette stanca e, abbandonatasi tra la stoffa lisa di una vecchia poltrona polverosa, fissò i suoi penetranti occhi verdi sul dottor Gregorjievic, il più grande luminare che la Russia avesse mai avuto in fatto di psicologia infantile.
La discussione non durò molto: avrebbe dovuto capire il motivo per cui Alexander non parlava e, se fosse stato possibile, avrebbe dovuto aiutarlo a guarire.
- Lo troverà in biblioteca - e richiuse alle sue spalle la porta lasciando Igor nella stanza vuota.
Solo lo schioccare frenetico della pioggia sulla strada.
Un cocchiere sferzò i due candidi cavalli.
Le gocce non si chiedono dove andranno a finire, si lasciano cadere.
I cavalli non si chiedono dove arriveranno, corrono e niente più.
Così se ne stava Alexander: perso nella lettura, smarrito tra le righe di un libro tarlato, intrappolato tra le lettere sbavate dall’umidità, incurante del tempo, dello spazio e, a volte, perfino di se stesso.
Non si accorse nemmeno dell’ingresso di un uomo alto, pallido, con le rughe che gli scavavano il viso smunto e cadaverico.
Non sentì neppure la domanda che più volte il dottore gli rivolse:
- Perché non parli, ragazzo? -
Affondava tra quelle pagine ingiallite come un marinaio inghiottito dalla mareggiata.
- Dovrò visitarti per capire perché non riesci a parlare - riprese.
Volava, fluttuava tra le parole che, come nuvole, disegnavano forme fantastiche nel cielo di carta che stava sfogliando.
- Come ti chiami? -
Ritornò.
Socchiuse gli occhi, come nel tentativo di ricordare qualcosa. Li riaprì e prese a parlare:
“Ti amai, anche se forse ancora non è spento del
tutto l’amore. Ma se per te non è più tormento voglio che nulla ti addolori. Senza speranza, geloso, ti ho amata nel silenzio e soffrivo, teneramente ti ho amata come - Dio voglia - un altro possa amarti”
- Puskin? - chiese stupefatto Gregorjievic.
- Già - e riprese a leggere in silenzio.
- Perché mi hai letto questa poesia? -
- Perché nessuno parla più di cose serie come l’amore. Vogliono tutti che io parli, e nessuno si chiede se io abbia qualcosa da dire. Torni a casa e dica a sua moglie qualcosa di bello, quello che sente nel cuore, o gli ripeta questa poesia -
- Ma come fai a sapere... -
Alexander si alzò, prese il libro sotto braccio e uscì sotto lo sguardo meravigliato del dottore che rimase impietrito al centro della grande sala.
Igor Gregorjievic tornò a casa e, con le parole di quel ragazzo che gli rimbombavano nella testa, entrò in casa e baciò, per la prima volta con quel calore, la moglie Irina.
Incredula, colta di sorpresa da quell’inaspettata esternazione di affetto, non fece in tempo a parlare che già le parole più romantiche che mai avesse sentito uscirono dalle labbra di quel marito che ormai aveva rinunciato ad amare. Si baciarono e trovarono quell’amore che non erano ancora riusciti ad ottenere in quell’inaspettato scontro di labbra scaturito dalle parole di un bambino che più di chiunque altro sembrava conoscere la loro storia.
Nel silenzio della notte il dottor Gregorjievic ringraziò Alexander per averlo guarito.
Nel silenzio della notte Alexander ringraziò il dottor Gregorjievic per essersi lasciato guarire.
Il sole bussò alle finestre della camera di Alexander. Si affacciò e decise che quel giorno avrebbe conosciuto il mondo, tutto.
Salutò tutti quelli che lo avevano ricolmato di affetto in quei quindici anni, portò una rosa sulla lapide di Katerina, promettendo che sarebbe tornato.
Un giorno.
Forse.
Nessuno sentì la sua voce.
Uscì di fretta dal portone d’ingresso che lo aveva sentito piangere per una intera nottata, che si era aperto per accoglierlo, che gli aveva regalato Katerina. Passò una mano sul freddo legno che aveva visto chi lo aveva abbandonato e nel cigolio di quei cardini vecchi e arrugginiti riconobbe il pianto di quella fredda notte di un Natale ormai lontano.
Il mondo iniziava esattamente dove quella che fino ad allora era stata la sua casa finiva e, quel chiostro che gli sembrava tanto vasto, all’improvviso non gli sembrò altro che una semplice virgola in un romanzo di Tolstoj.
Camminava per le strade del centro con quello stupore fanciullesco che ormai la frenesia degli adulti aveva soppiantato, trasformandoli in meccaniche figure senz’anima. Il freddo dell’inverno russo sembrava essere sceso nei loro cuori, il sole di quel mattino sembrava aver accecato i loro occhi e, se il vento avesse potuto gelare a mezz’aria i pensieri, Alexander avrebbe scoperto le cose malvagie che ancora non conosceva del mondo.
Un’anziana signora passeggiava per il parco imbiancato di neve lanciando briciole di pane a un gruppo di piccioni infreddoliti, si sedette su di una panchina adagiandovi prima con meticolosa precisione il giornale appena acquistato all’edicola.
Un ragazzo la guardava, nascosto dietro a un albero distante qualche decina di metri e stava per andarsene, quando Alexander gli si parò davanti.
- Vada da lei! - disse.
- Io non la conosco - rispose cercando di andarsene.
- Nemmeno io la conosco - replicò afferrandolo per un braccio - ma non lo ritengo un buon argomento di conversazione -.
Senza saperne il motivo, Vladimir, così si chiamava il ragazzo, sentì di potersi fidare di quel ragazzino e gli sembrò di conoscerlo da sempre, come se fosse stato da sempre il suo migliore amico.
- Vada da lei! Sono sicuro che capirà -.
- E cosa le dovrei dire, secondo te? -
Gli sembrava strano dare del tu ad un perfetto sconosciuto.
- Hai troppe domande nel cuore. Per una volta non cercare domande inutili, ma risposte. E la tua risposta è su quella panchina, nella malinconia di quella donna che aspetta solo che tu le parli -.
- Perché dovrebbe parlarmi? -
Alexander si allontanò a testa bassa, nascondendo le piccole mani nel pesante cappotto.
- Perché non dovrebbe? - rispose. (Gli piaceva rispondere ad una domanda con un’altra domanda)
Vladimir si avviò piano verso quella panchina che gli era sembrata tanto lontana e la donna, appena lo vide, quasi svenne e senza trattenere tutta la gioia che ormai li inondava si strinsero. Alla donna cadde la borsa.
Alexander si voltò indietro giusto in tempo per vedere quell’abbraccio tra madre e figlio che lui tanto sognava e desiderava, ma che sapeva non avrebbe mai trovato.
Le voci che andavano creandosi su Alexander diventavano ogni giorno più inverosimili, ma la verità non era poi così lontana dalle leggende che lo circondavano di una fiabesca aura di mistero. Si raccontava che guarisse i malati, come un nuovo messia tornato a redimere il mondo dal male. Si diceva che nel profondo dei suoi occhi, tristi, si potesse vedere il paradiso e che le sue parole suonassero vellutate come i cori degli angeli e degli arcangeli del cielo.
Alexander vagava per il mondo alla ricerca di qualcosa per cui valesse la pena di vivere e il segreto dei doni che tanto stupivano la gente era che vedeva in ogni altro uomo un valido motivo per vivere, forse addirittura per morire.
Camminava per le vie polverose delle gradi città e per i sentieri lastricati di ghiaccio delle campagne con la stessa naturalezza e lo stesso sguardo pensieroso, come se davanti ai suoi occhi il panorama non mutasse, come se il paesaggio fosse un’immobile diapositiva.
Non parlava molto.
E se si impara a non parlare a sproposito non è affatto complicato.
Vedeva, guardava, osservava, sentiva, ascoltava, prestava attenzione perfino ad ogni foglia che, lenta, svolazzando, lasciava il suo ramo per vedere il mondo da un’altra prospettiva, migliore o peggiore non importava.
Inverno, primavera,estate,autunno.
La sequenza delle stagioni non cambiava, da migliaia di anni, e Alexander aveva già visto trascorrere decine di primavere, e altrettante estati, e altrettanti inverni...
L’autunno non gli piaceva, allora cercava riparo in qualche bettola e per alcuni mesi nessuno sapeva dove Alexander fosse nascosto. Correva voce che tornasse ad amministrare il paradiso o che fosse in qualche terra desolata intento a salvare la vita ad intere popolazioni.
Stava solo riposando.
Camminava per i marciapiedi di una città semideserta quando vide un uomo.
Il cappello gli ricopriva la folta capigliatura e per mano, una bambina trotterellava, cercando di divincolarsi dalla morsa stretta e protettiva del giovane padre.
Vasiliji, così si chiamava quell’uomo dallo sguardo triste e preoccupato, trasse di tasca delle monete e le posò fra gli stracci sozzi di un mendicante che elemosinava sul ciglio della strada. Il mendicante lo ringraziò e presto, con quei pochi spiccioli, avrebbe messo fine, almeno per un giorno, ai morsi della fame che lo attanagliavano.
Stefanyia, mentre gli passava innanzi, lo fissò con gli occhi sgranati domandandosi chi fosse, ma soprattutto perché suo padre avesse compiuto quel gesto.
Quando, ringraziando Vasiliji, l’uomo al bordo della strada sorrise, la bimba capì.
Un sorriso vale tre monete.
Decise che lo avrebbe annotato sulle pagine della sua memoria e strizzò gli occhi, come per fissarlo più nitidamente nei suoi pensieri.
Un sorriso vale tre monete.
Papà non sorrideva mai.
Alexander si tolse il cappotto che una anziana signora gli aveva regalato tempo addietro per qualche miracolo che forse aveva fatto, o forse no, o forse non gli interessava neppure saperlo. Già, perché sapeva di avere poteri straordinari, ma non se ne vantava mai. Non ne parlava mai.
La calda pelliccia di quel cappotto finì sulle spalle del mendicante che ora non avrebbe patito nemmeno il freddo. Stefanyia pensò che doveva aver fatto un gran bel sorriso. Alexander incrociò lo sguardo con la piccola e lei, inconsciamente, sorrise.
- Devo offrirti una buona cioccolata calda - disse Alexander.
- Come? - rispose Stefanyia piena di stupore.
Vasiliji non sapeva cosa dire. Non sapeva il motivo, ma non voleva cacciarlo.
- Un sorriso come il tuo vale una buona cioccolata, e forse anche qualche caramella - riprese.
- Davvero? -
Alexander , Vasiliji e Stefanyia si sedettero al bancone di un piccolo bar nascosto tra le intricate vie del centro e, mentre la bambina sorseggiava il suo meritato premio, i due uomini parlarono, e parlarono, e parlarono...
Stefanyia si addormentò sul tavolo.
Vasiliji confidò tutti i pesi che aveva sul cuore ad Alexander, che, anche se li conosceva già alla perfezione, non lo disse mai e, anzi, guardava l’uomo che aveva di fronte come se non avesse altro desiderio che di aiutarlo. La bambina teneva il braccio penzoloni e i capelli le ricoprivano il viso.
Il padre scoppiò in lacrime e nascose la testa fra le braccia. Quando si rialzò Alexander era sparito e al posto suo era comparsa...
Stefanyia, destata dalle lacrime del padre, aprì gli occhi e la sorpresa si fece largo nei suoi occhi. La voce sembrava essersi bloccata.
Ebbe solo la forza di urlare:
- Mamma -
Quella parola l’aveva quasi dimenticata, non la diceva da anni.
Gli sembrò di non averla mai detta.
Si presero per mano, come una famiglia, quella famiglia che non erano più da tempo, ma che erano pronti a ricostruire.
Stefanyia mise la mano in tasca e ne tirò fuori un foglio.
“Ho pensato che un sorriso vale molto di più di una cioccolata, vale quanto la mamma che desideravi tanto.
Alexander”
- Papà, quel signore mi ha regalato la mamma perché gli ho sorriso. Prometto che non smetterò mai più di sorridere e tu devi promettere la stessa cosa -
- Certo - disse Vasiliji abbracciando la moglie che aveva ritrovato e passando le dita tra le soffici trecce di Stefanyia.
L’ultima foglia di quell’estate stava agonizzando sul ramo più alto di uno scheletrico albero che si stava preparando come meglio poteva ai rigori dell’inverno. La grigia lapide di Katerina era tutto ciò che restava di lei. Nemmeno un fiore.
Alexander, col naso arrossato dal vento e col volto affondato nella sciarpa, camminava lentamente verso la tomba della sua Kate tenendo stretta in mano una rosa rossa.
Con le lacrime agli occhi la posò sopra alla fredda pietra e, senza nemmeno voltarsi, si allontano.
Nessuno vide mai più Alexander.
Nessuno vide mai più Alexander, perché questa fantastica storia non è mai esistita.
Il piccolo neonato che piangeva fuori dal portone del convento, in quella fredda notte russa, smise di piangere e di respirare prima che Katerina arrivasse.
Così Katerina non morì sorridendo e felice.
Igor Griegorjievic non riconquistò mai l’affetto di sua moglie e non si rivolsero mai più la parola.
Vladimir non rivide mai più sua madre.
Vasiliji dimenticò come si sorrideva e Stefanyia non scoprì mai il valore di un sorriso.
Un mendicante morì di freddo sul ciglio di un marciapiede mentre stringeva tra le dita tre monete.
Nessuna rosa sulla tomba di Kate.
Un soffio di vento.
L’ombra di Alexander che si allontana.
L’ultima foglia è ormai caduta a terra e, se qualcuno solo lo volesse, potrebbe iniziare un’altra storia.
Oppure...
Nello spazio infinito
senza confini inutili,
s'innalzano pensieri
liberi e solitari,
sciolti dall'inquietudine
del vivere d'ggi
effimero e virtuale,
frenetico e crudele.
L'anima si tormento
in cerca di verità nascoste
oltre l'esangue luna
e orizzonti imperscrutabili
per ritrovare l'etica
di un pacifico convivere
da spargere sul mondo
come lieve polvere di stelle.
Vorrei poter carpire
un piccolo raggio di sole
per scaldarmi
nel gelo della solitudine,
per illuminarmi
nel buio di pensieri tristi,
per rallegrarmi
nelle giornate uggiose.
Non lo nasconderei
in avida esclusiva
né lo serberei
soltanto per gli amici,
ma lo dividerei
con chi è in difficoltà
quale elisir d’amore,
essenza d’energia.
Ogni raggio di sole
è simbolo di vita,
brezza di primavera
che penetra nel cuore.
Con il “calore umano”
accende la speranza
e rinfocola fiducia
in un mondo migliore.
La pace si è smarrita.
Se ne cerca il profumo
nei boschi silenziosi,
nel cheto ruscello,
sulle cime immacolate,
nella quiete delle chiese.
Si è dispersa nel vento
la nenia dell’eco
Paceee Paceeee.
Chissà in quali meandri
l’avrà nascosta l’uomo...
Si è persa piano piano
nel buio del rancore,
nell’egoismo cieco
tra il potere
e la violenza.
Difficile è il cammino
per ritrovar la strada
che riconduca presto
l’accordo
e l’armonia.
Ovunque dei segnali,
come filo d’Arianna,
si possono tracciare:
esempi di solidarietà,
di fratellanza e amore.
Quel filo è la speranza
di uscir dal labirinto
tortuoso e senza fine,
prigione della pace,
che tornerà alla luce
in piena libertà.
Ester ha solo i papaveri
come amici
e li pensa anche di notte,
quelle notti che sono più scure,
quando anche le stelle
hanno timore di ferirsi.
Ester conta le attese
che come ragni rigano la gola
di noduli irrisolti
ed i secondi diventano chiodi
dove la ruggine immane comanda.
Ester e le sue gambe
a rotelle,
crisalide rinchiusa nella morsa
della diversità.
Scivola sui vetri
una lacrima fredda come neve,
gelida carezza
di cuore sfregiato.
Oltre la finestra
Ester sogna ancora,
una sedia colma di papaveri
e la corsa di un’ora.
Questi figli che cavalcano anni veloci,
anime di cartapesta svezzate a benzina
e telegiornali intinti nel sangue.
Questi figli che giocano a tatuarsi
le braccia con inesorabili buchi
e viaggiano con i sensi intorpiditi
dentro lune di ghiaccio
e crisalidi scolpite nell’acciaio.
Questi figli che colpiscono alle spalle,
abbagliati da un Dio di filigrana
gettano alle ortiche coscienza e rimorsi.
Sono germogli impauriti
spesso bruciati dalle bugie dei padri,
che si donano alle mode
come capretti da macellare.
Questi figli che sfidano la morte
sopra strade d’asfalto tagliente,
come bambole di cera baluginano
al riflesso d’impietose lamiere.
E per una volta ancora
si sentiranno più grandi,
talmente adulti da non riuscire
più a perdonare.
Scoprirai che vivere
a volte è più crudele di morire,
tu che hai ripreso la vita per i capelli
il giorno dopo che sei sbocciato.
Capirai che il tempo è il nostro eterno padrone
e spesso quello che ci regala
è soltanto un canto di cicale
che si spegne con l’estate.
Scoprirai quanto sia importante
una parola detta con l’anima appoggiata sul cuore,
potranno anche deriderti, ma tu non t’inchinare.
Avrai attimi da incorniciare al muro
e giorni da cancellare nel vento,
ma non scacciare mai la speranza,
lei è sempre più forte del nostro umano tormento.
Ti insegnerò ad amare sempre
anche oltre le apparenze,
ad essere giusto anche quando la notte
ti impedirà di sognare.
Ti insegnerò che per essere uomini veri
non basta essere persone,
ma bisogna inventarsi ogni giorno nel cielo
la rotta degli aquiloni.
Tra i solchi del mio viso
è scritta anche la nostra storia.
Tra queste rughe del tempo
il segno delle lacrime di noi.
Più che bagnare
hanno graffiato.
Consumo
quell’ultima sigaretta prima di dormire
fuori, nel silenzio della notte.
Quasi a convincermi
che il giorno è finito.
Guardo il sole appena sorto:
accecante bagliore negli occhi,
luce già vecchia di otto minuti,
e il futuro del giorno
è già in viaggio.