Foto profilo

Andraghetti Fosca: Ha pubblicato i suoi primi racconti su “Bella - Rizzoli” negli anni Settanta/ottanta.
Dopo un alternarsi di vicende, che l'hanno allontanata dalla scrittura, riprende nel 1998 sperimentando diversi filoni: giallo umoristico, racconti bonsai, favole, racconti di genere e romanzi. È stata ideatrice del gruppo di scrittura creativa, “Riflessi e Frammenti” e della collana di narrativa “La mia voce da grande” e cofondatrice della Associazione culturale “Lo Specchio di Alice” (1998).
Ha collaborato con l’Università Primo Levi, l’Associazione culturale Costarena, il maestro Francisco Soriano della “Scuola primaria di Conselice (Ra)” con i progetti: “La scrittura nel nostro tempo – Una lezione d'autore” (2010), “Dialogando con scrittori e poeti alla ribalta” (2014), “Incontro giocoso con le poesia” (2016). Come poetessa partecipa alle attività di “Laboratorio di Parole”. Collabora con il Centro Sociale Ricreativo Culturale “Lunetta Gamberini” nell’ambito delle attività del Progetto “Fortemente”.
È presente su alcuni siti Internet e riviste, su diverse antologie relative a premi letterari oppure a tema, e ha ricevuto riconoscimenti con recensioni e premi letterari. Tra le sue pubblicazioni più recenti: “Quello che ancora non sai (2007 Edizioni del Leone - romanzo)”, “Un padre in prestito (2009 Edizioni del Leone - romanzo)”, “I colori visti dopo (2010 Carta e Penna - poesia)”, “Volevo scrivere (2010 Carta e Penna - racconti)”, “Dietro l'apparire (2011 New Magazine Edizioni - romanzo)”, “Dubbio (2013 New Magazine Edizioni – romanzo)”, “Io, Pru e una sfumatura di giallo (2015 Carta e Penna - romanzo)”, anche in e-book; “Tienimi ancora per mano (2016 Carta e Penna - romanzo)”; “Sguardi” (2017 Laboratorio di Parole Circolo La Fattoria – poesia); “Questi nostri Anni così (2020 Carta e Penna - romanzo)”. “Io e la Governante – I miei giorni del Coronavirus come li ho vissuti (2020 Carta e Penna - diario)”.



Con Carta e Penna ha pubblicato:

FOGLIE DI PENSIERI

Copertina libro L'autrice si cimenta nella poesia e nella narrativa. Ideatrice di un gruppo di scrittura creativa, Riflessi e Frammenti, e di una collana di narrativa rigoro-samente per over 35. Ha contribuito alla fondazione di Lo Specchio di Alice, un'associazione culturale che si occupa di scrittura, poesia e arti figurative. Suoi articoli, racconti e poesie compaiono su antologie, riviste letterarie e siti Internet. E' stata lettrice dei suoi testi poetici presso una radio locale ed ospite esordiente di Amo Bologna Poesia Festival. Ha partecipato a concorsi letterari ricevendone premi, menzioni e targhe speciali. Nell'ambito del proprio gruppo di scrittura e con Associazioni letterarie ha pubblicato raccolte di poesia: Luci e Ombre (2002) e Immagini dentro (2003), e racconti e romanzi brevi: Camminando (2001), Libri sempre (2002), Ogni passo un giorno (2003), Bambole (2004). 

VOLEVO SCRIVERE

Copertina libro
Dalla prefazione di Anna Bastelli:
Si tratta di una panoramica di testi che va dagli esordi, quando pubblicava su una rivista femminile, fino alla maturità, raggiunta passando attraverso un affinamento del proprio stile narrativo. Personalmente ho apprezzato molto i racconti autobiografici, sia quelli che parlano di anni lontani, vissuti in un mondo che ora non c’è più, ricordato con malinconica nostalgia anche se l’autrice non ne nasconde le durezze, sia quelli che raccontano dei suoi ritorni verso quel mondo, per ritrovare, in casa o al cimitero, coloro che non lo hanno mai lasciato. Un mondo, un ambiente, un territorio, fatto di duro lavoro e di sentimenti non esternati, che si ritrova anche in altri testi non autobiografici, come il bellissimo “All’osteria”. Un commento a parte meritano i gialli, piacevole sorpresa della raccolta, non solo per le storie, ben narrate e ben architettate, ma anche per l’approfondimento dei personaggi che si muovono in luoghi ed in ambienti altrettanto ben descritti, o in periodi storici a noi lontani ricostruiti con precisione. I racconti di questa raccolta, nella loro molteplice varietà, sono esaustivi di una vita dedicata alla scrittura.

I COLORI VISTI DOPO

Copertina libro
Dalla prefazione di Laura Colombari
"Vorrei conoscere il nome dei fiori...": è il verso di inizio di una poesia. Il verso è poi ripreso nella chiusa e, in mezzo, scorre un paesaggio realistico e affiorano immagini interiori di assoluta suggestione. Quasi a contraddire il desiderio espresso (Vorrei conoscere il nome...) l'autrice stupisce il lettore proprio per la sapienza con cui cammina per la campagna, per la sintonia profonda con cui segue i moti della terra e delle piante, per la precisione "pascoliana" con cui segue il frutto che sboccia: dal suo manifestarsi alla vita ne afferra poi essenza e palpiti. L'ispirazione profonda della poetessa viene dalla terra (così si intitola una delle sezioni di questa raccolta) e l'autrice appare immersa in una nostalgia struggente, che però non offusca mai la sua visione realistica e a volte dolente, di ciò che è stato il paesaggio della sua giovinezza insieme con l'acuta percezione degli elementi che, da esso, sono affluiti nella sua personalità. Limpidi e intimamente fecondi sono i ricordi che riferiscono il travaglio della sua giovinezza e del suo impegno per la vita, dai quali emerge una natura forte e funzionale all'affermazione di sé, pur con accenti di una viva tenerezza verso gli uomini e le cose. Particolarmente intima e rivelatrice è la poesia "Parlando con mio padre" in cui la figura del vecchio è intrisa di pudore e di intelligenza, e quella della figlia si rivela consapevole di sé e degli altri. Le atmosfere sono intrise di nostalgica tenerezza, i ricordi sono intatti, dolci o dolenti e non escludono la malinconia, ma non giungono mai a posizioni di rinuncia o di resa. Le varie sezioni in cui è scandita la raccolta compongono alla fine la storia di una vita, narrata sullo sfondo reale di una natura che procede con i suoi cicli meccanici, quelli che però l'autrice sa interpretare nei suoi ritmi mistici e conformi ai moti del cuore.

IO, PRU E UNA SFUMATURA DI GIALLO

Copertina libro

Il tranquillo quotidiano di Andrea si tinge di giallo con la sparizione di una vicina di casa che risulterà poi sua sorellastra. È una donna che vive felice circondata dagli affetti di madre e sorelle. C'è il marito Marco che la protegge e c'è Prudenza, detta Pru, la sua cagnolina che sorride con una sorta di ghigno increspando a nastro il labbro superiore e fa le puzzette che regala a chiunque. Neanche la separazione dei genitori, avvenuta nella sua adolescenza, sembra averle causato traumi.
Poi una piccola crepa compare nel mondo in apparenza sicuro di Marco: l'informatica. Il pericolo arriva da Facebook con l'identità di Andrea rubata e i sospetti su di lei per l'omicidio della sorellastra. Tutto si tinge di giallo, la vita sua e di Marco vengono stravolte, spuntano vecchi fantasmi, s'incrina il rapporto con sua madre.
Incombe un nemico invisibile; unico indizio un tatuaggio: una croce con pendenti tatuata sul polso. Un segno che muterà una vacanza ai Caraibi in un incubo.

"... Molto efficace è la scrittura agile e sempre vivace e ottimamente descritta è la protagonista che parla, ingenua e tuttavia sorretta da una fiducia tenace nella vita..."

Giorgio Barberi Squarotti

TIENIMI ANCORA PER MANO

Copertina libro
Tra poco Arianna compirà sessant’otto anni; gioie ricordate con tenerezza e dolori messi in un cassetto: impossibile buttare la chiave. La sua casa è bella. La sua vita è appagante. C’è solo una ferita sottopelle che torna a galla: è il ricordo di Leda, la sorellina creduta morta a circa sei anni. In realtà fu data in adozione, come altri bambini nel primo dopoguerra, con la certezza di una vita agiata e gli studi assicurati per l’adolescente Arianna. La piccola fu indotta a credere che Stefana ed Ezio non fossero i veri genitori come Arianna non era sua sorella. Di loro le resterà un orsacchiotto e un foglietto con scritti i nomi che avrebbe dovuto dimenticare. Da tenere nascosto. Solo dopo oltre mezzo secolo la verità mancante tornerà a galla con prepotenza e dolcezza. Le due donne, ormai madri e nonne, potranno ricostruire, tessera dopo tessera, come un mosaico, la parte sconosciuta delle loro vite tramite le lettere scritte per loro dalla madre e il rinvenimento del diario della Madre Superiora, destinato ad Arianna, a cui una suora un po’ bizzarra aveva aggiunto note graffianti. La storia è raccontata da Arianna e dal regista del loro ritrovarsi, il notaio Massimo Morandini, uomo di legge, ma anche persona attenta alle dinamiche psicologiche delle due sorella, ingannate in modo così terribile.

QUESTI NOSTRI ANNI COSI'

Copertina libro Michele, neurochirurgo famoso nel mondo scientifico, è anche il patriarca indiscusso della ‘Family’, una sorta di clan che raccoglie più generazioni di parenti e i loro congiunti. Dopo il fallimento del suo matrimonio con Laura, che gli ha dato due figli, e la conclusione della complicata relazione con Maria Luisa, si dedica totalmente alla sua professione. Silvia, conosciuta in circostante traumatiche e poi persa di vista, la incontrerà di nuovo a casa di comuni amici. Un’attrazione reciproca, una passione che li porterà al matrimonio. Per la ‘Family’, sarà etichettata come ‘la sua seconda moglie’. A lei Michele chiederà di scrivere la loro storia da affidare un giorno a Paola, sua unica e amatissima nipote, come testamento morale; quotidianità, bilanci, conseguenze di scelte costituiranno l’indiscutibile verità contro qualsiasi illazione, magari pruriginosa, derivante dal clan.

Un romanzo corale con al centro la famiglia e l’amicizia, temi cari all’autrice che porta in superficie i lati nascosti dell’una e le sfaccettature dell’altra.
C’è un incrociarsi di personaggi con un proprio bagaglio altalenante di vita; di ognuno l’autrice traccia un ritratto preciso e incisivo. Silvia trasformerà le sue fragilità in punti di forza: quella delle donne capaci, nelle difficoltà, di mettere a frutto ogni loro minima risorsa per trasformarla in carta vincente. Donne capaci di amministrarsi come formichine industriose per ottenere una casa propria da dove nessuno le possa più mandare via.

IO E LA GOVERNANTE - I MIEI GIORNI DEL CORONAVIRUS COME LI HO VISSUTI

Copertina libro
La protagonista di questo libro, omonima dell’autrice, ama scrivere. Una scrittura che diventa terapeutica in presenza della pandemia che, ormai da mesi, ha messo a soqquadro il mondo intero.
La bolla luminosa, nella quale si era rifugiata, comincia a ingrigire con l’avvento del coronavirus, l’isolamento nella sua casa diventa una sorta di solitaria prigione. Lei continua a leggere libri, segue qualche programma alla TV, chatta con amici, risistema armadi, sperimenta ricette e comincia a scrivere in un diario il suo vivere e il suo sentire. Che altro fare? Condividere i muri bianchi del suo appartamento con una coinquilina, ad esempio. Nella sua casa entra così La Governante. Un rapporto iniziale non facile con una sosia speculare fisicamente, ma rigorosa e determinata nel rintuzzare ogni suo scoramento o tendenza a rinchiudersi a riccio. 
Candidamente divertita, lei racconta ad amici e parenti che, l’essere spronata di continuo da questo personaggio immaginario, giova al suo quotidiano. 
Ne è uscito un diario dove si parla di prigionia e liberazione, di giorni e di notti, di scoperte e di ricordi, di rapporti umani cambiati, di cancelli del suo amato parco di nuovo aperti. 
Tra gag, risate e qualche lacrima, la storia scorre fino al 78esimo compleanno della protagonista, per poi ritornare al quaderno dalla copertina rossa, cioè da dove è iniziato l’incubo coronavirus, il 22 febbraio 2020. 
Abitare da soli, in regime di pandemia, non è per niente facile e allora ben venga una Governante, rappresentata in copertina come una moderna Mary Poppins con tanto di mascherina; si è presa cura di me che bambina non sono, mi ha tenuto per mano come adulta restituendomi sorriso, ironia e facendomi scoprire il lato combattivo di me stessa.


Per i lettori di Carta e Penna ha scelto:

QUANDO L€™AMICIZIA DIVENTA IERI

In quella rete fitta e complessa che è la vita, l’incontro scontro con i nostri simili è inevitabile. Ci sono amicizie che terminano solo con i nostri giorni; sono importanti, anzi importantissime. Altre che si perdono per strada perché la vita ci porta altrove oppure perché rimandiamo a domani o ci passa l’orario in cui potremmo telefonare.

Ce ne sono altre nate con i giochi del cortile e sui banchi di scuola. Noi ragazze con lo scambio di confidenze sui primi amori.

Poi arrivano il lavoro e altre conoscenze con consapevolezze diverse perché con il tempo non maturano solo le nespole ma anche i nostri anni. Infine arriva la pensione e qui  o ci si frequenta ancora o ci si perde di vista. Se prima c’erano le crescite dei figli con i vari annessi e connessi, col pensionamento arrivano i nipoti e qui c’è posto anche per chi figli non ne ha. Anzi, se sei zia ti si offre l’opportunità di vivere qualcosa di fantastico per i nipoti; puoi solo amarli, giocare con loro, ascoltarli, consolarli, essere loro complice senza quasi senza nessuna responsabilità. Fantastico se non ti lasciano a bordo campo del tipo: “La zia dove la metto?”

E giunge il momento in cui casa e vecchie abitudini non bastano, si ha voglia di rinnovarsi, magari di recuperare ciò che avresti voluto fare e non hai fatto, curare e riportare a galla un sogno dimenticato nel cassetto. Ne parli sui social, recuperi una collega persa di vista, un ricordo sbiadito, un senso di colpa ancora da chiarire e molte altre cose. Ti chiedi se invece avessi fatto, ma no ti è concesso nemmeno un minuto per tornare indietro.

I social sono comunicativi se non li sprechi in sciocchezze, sono informatori di belle novità come la nascita di un nipote, la conquista di una laurea, il raggiungimento di quegli obbiettivi che tu nemmeno hai potuto porti. Ma sono anche portatori di quella notizia che non vorresti mai avere: quella d un amico, di una persona cara volata via magari perché ha dimenticato di svegliarsi. Nessuna sofferenza, ma lo spazio vuoto che lascia nella tua vita non diminuisce, un cratere la cui dimensione, piccola o grande che sia, resta immutata. Anzi, per un poco ritorna abbastanza nitida per poi appannarsi come un pudore di cui si ha riserbo senza un motivo preciso.

Lei la conoscevo piuttosto bene, entrambe in cerca di un’occupazione, c’eravamo incontrate nella sala d’attesa di un Ente importante. Nove ragazze con tanti sogni e tanta voglia di essere assunte proprio lì: la garanzia di un posto sicuro. Una speranza che era quasi una certezza per chi aveva una raccomandazione. Magari, nonostante ciò, avrei potuto instaurare un’amicizia! Perché no? Dopotutto avremmo dovuto sostenere una prova orale in un secondo incontro. Andò così, ci scambiammo gli indirizzi, poi tutto sembrò finire nel dimenticatoio.

Tra le prime ad essere contattata ci fui pure io, ma solo perché avevo una preparazione superiore a quella richiesta nel bando di concorso. Tre di noi furono assunte per la sala perforazione, io come addetta ai servizi di calcolo, ai tempi meccanografici. Iniziò la nostra amicizia fuori e all’interno dell’Ente, indipendentemente dal percorso di crescita professionale. Anche nell’ente ci furono dei grossi cambiamenti. I miei progressi mi portarono ad aiutare le altre come meglio potevo per offrire loro un’opportunità di crescita con la possibilità di svolgere nuove mansioni, Solo una sembrava non riuscire a seguirmi e adottai il sistema di lasciarla sbagliare affinché imparasse a correggersi da sola. Mi sentivo un verme, ma i tempi erano stretti, si parlava di grossi cambiamenti nella struttura e ovvie nuove occasioni. Laura, nome di fantasia, era di costituzione piuttosto robusta, qualche battuta detta con simpatia e lei che si sentiva ferita. Così strinsi un’alleanza, impegnativa per entrambe. Le dissi che conoscevo quel genere di battute già da bambina: gambe storte e occhiali quindi quattr’occhi. La cosa funzionò, lei ottenne un avanzamento, cambiò sede e rallentammo le nostre frequentazioni. Lei si era sposata, aveva avuto due figlie di cui mi raccontava, come della suocera con una di quelle malattie che ti bevono il cervello. Io mi ero separata, mi ero dedicata alla scrittura e viaggiavo molto. Una vita un poco randagia. Andai, con altri amici ex colleghi in un delizioso paesino in Abruzzo, dove lei e il marito, carinissimo, avevano acquistato una casa. Per l’ennesima volta mi ringraziò dell’aiuto datole. Ci scherzammo sopra. Una sua figlia si trasferì in Spagna, in un social spagnolo inserì una mia foto di ragazza felice che abbracciava un cucciolo di tigre, ero andata a un circo. M’infastidì che lo avesse fatto senza chiedermelo. Ci risentimmo per le sue malattie, era coraggiosa e decisa a curarsi, i chili di troppo avevano smesso da tempo di darle cruccio. Passavano mesi prima di re-incontrarci magari solo sui social. Mi faceva piacere ascoltarla, meno raccontare. Lei aveva superato tantissime cose, pure io nata combattente; lei no ma quella sua vita l’aveva curata e difesa a viso aperto come se fosse un quotidiano normale, senza un lamento ma sola constatazione.

Non le ho mai detto quanto l’ammirassi. Si sarebbe schermita con discrezione.

Dai social ho appreso che una mattina non si era svegliata. Ecco, le persone che hanno fatto parte della tua vita se ne vanno pure così, in punta di piedi per perdersi in un silenzio senza confini.

E tu resti con quel rammarico: “Se avessi…” 

29 settembre 2023

VITA DA BALCONE

Insegne dal lato opposto della strada

uno sbattere di panni dalla finestra

la radio di casa mia che alterna

musica e spot pubblicitari.

Un tubare monotono di colombi

tintinnare di stoviglie spostate

la voce squillante di una bambina

e la sua risata allegra e innocente.

Sto qui sul balcone, seduta

su una seggiolina da mare

insieme a un cip cip di passeri

e il silenzio non  mi fa più paura.

Fingo di essere in vacanza

ascolto Aznavour e Vecchioni

e rifletto su questo cataclisma

che ci spoglia di abbracci. Di tutto.

Riflessi sui vetri del supermercato

un’auto in sosta permanete

e un viandante senza mascherina

che cammina svelto a testa china.

Forse in pensiero per quest’oggetto

misterioso: che ci sia ognuno lo dice

dove sia nessuno lo sa.

 

21 marzo 2023

AUTUNNO TRA GLI ALBERI

La punta tronca e le braccia spalancate

un Cedro del Libano e un mulinare di foglie.

Alla destra il viale dei tigli ormai spogli

in quest’autunno strano, il parco

sportivo vestito a nuovo e una maglietta

dimenticata su una panchina abbandonata.

Incontro di piccioni su rami disadorni,

un refolo birichino, un’arruffare di penne

tra un piroettare di giallo e colori bruni,

ha perso l’argento lo svettare dei pioppi.

Sono tanti gli alberi del parco,

mutano con il mutare delle stagioni,

forse sussurrano l’un l’altro nel loro

tempo infinito, nelle foglie che cadono

poi rinascono per posarsi di nuovo a terra

a novembre, quando un velo di nebbia

avvolge le cime e le nuvole scompaiono.

Sono al parco della Lunetta – dice una madre

e spinge i bambini verso una casetta

fatta con il legno forse di questi alberi

quando sono troppo stanchi per coprirsi

di foglie e tornare a fiorire.

 

10 novembre 2021

IL "PADELLINO"

Quando lei non c’è non trovo niente e mi sento perso. Così è anche questa volta e non mi serve dire “cazzarula” tanto nessuno mi ascolta e meno che mai lei, rimasta lassù fra i suoi amati monti e la compagnia di figli e nipoti. Riprendo a cercare e mi innervosisco perché gli sportelli dei pensili sbattono e se Miranda, mia moglie, fosse qui direbbe: “Ma perché non stai più attento! Ma che bisogno c’è di sbattere!”

Tornerà fra un paio di settimane assieme alla sua particolare ironia paciosa che mi spiazza e mi tranquillizza nello stesso tempo. Miranda è, ed è sempre stata, la mia grande forza, il principale punto di riferimento dopo mio padre, la donna che non si è mai arresa di fronte a nulla, malattie comprese. Le mie e le sue.

Sì, senza di lei mi sento perso, ma devo pur mangiare e se ho voglia di due uova al tegamino mi serve la padella, anzi il “padellino”, quello che abbiamo acquistato insieme al nostro paese, in Friuli, perché solo lì le uova vengono cotte meglio, sostiene lei.

“È l’aria di casa nostra!” esclama placida ogni volta che lo usa, brandendo il manico come una clava o come fosse una conquista.

Ah, eccolo qua, rintanato dietro la pila dei tegami. Tiro forse con troppa forza perché la pila si rovescia fuori dal mobiletto e si stende lungo il pavimento, in una scia sinfonica di “cazzarula”. Comincio a raccogliere, il padellino lo lascio per ultimo perché mi serve, ma anche perché ogni volta lo rimiro nel grigio consumato del metallo, nelle ammaccature sempre più numerose, nella storia, nelle storie di cui è stato testimone. Lui fa parte della famiglia come fosse un figlio, ci ha accompagnato nel nostro primo trasloco: dalla casa due stanze più cucina, no ascensore e no riscaldamento, a questo appartamento. Quartiere Pilastro. Sono trascorsi quarant’anni ormai da quando ci consegnarono le chiavi: un appartamento in un palazzone in un quartiere nuovo di zecca. Il “virgolone” era, ed è tutt’ora, una specie di interminabile treno a vagone unico circondato da altri palazzi e, con il tempo e con il cambiamento del piano regolatore, dalle torri e da strutture pubbliche. Un immenso alveare con persone provenienti da ogni parte d’Italia e oltre confine. Persone che, spesso, non avevano mai avuto una casa o erano stati espulsi dalla terra dove erano emigrati e arrivati senza nemmeno la classica valigia di cartone. Etnie diverse, usi e costumi diversi, ma anche valori diversi. C’era da chiedersi se saremmo mai riusciti ad amalgamarci e, ancora oggi, Miranda e io ci chiediamo come sia stato possibile riuscirci.

Metto l’olio nel padellino, appena un velo. Un gesto piccolo, un suo insegnamento e già mi manca. Ma lassù mia moglie sta bene; nella casa grande, che ha visto nascere e crescere me e i miei fratelli, lei ha la sua stanza per quando vuole andare; è una persona amata, una persona che sa farsi amare con la sua saggezza sintetica ma incisiva, con i suoi pareri espressi quasi non le appartenessero. Butta là le cose guardandoti dritto negli occhi e, un momento prima di terminare, ha già voltato il viso dall’altra parte, come a dire: “Beh, adesso continua tu!”

Uno schizzo d’olio seguito dalla mia parola preferita. È il momento di spegnere il fornello. Ah, il gatto! Apro una scatoletta a caso e la verso nella sua ciotola, lui si precipita, annusa e mi guarda truce. Devo avere sbagliato qualcosa. “Miranda!” chiamo come potesse sentirmi. Il gatto miagola, guarda la ciotola e guarda me. Capito, non è la scatoletta preferita! Caro mio, o mangi o salti la cena! Fai sempre delle storie tu, dovevi essere qui quando siamo arrivati ad occupare le case che ci avevano assegnato. Primo lotto. Un quartiere nuovo di zecca, 411 mazzi di chiavi consegnati lo stesso giorno, qualche famiglia con il carro pieno di masserizie e già pronta per entrare. Gli allacciamenti per il gas e la luce ancora non erano terminati, quindi niente riscaldamento e niente ascensore. Le strade non conoscevano ancora l’asfalto e quel giorno pioveva. Erano tempi pionieristici.

“Vuoi un po’ delle mie uova, gatto viziato?” Ma tu guarda, sto qua a parlarti, proprio come lei!

“Starà a casa con te! – mi aveva detto mentre preparava la valigia – Così ti tiene compagnia!”

Sarà come dice Miranda, certo che la casa è vuota per davvero. Nemmeno quando siamo arrivati qui era così silenziosa.

Dopo la spinta e l’entusiasmo di partenza, sembrava che tutto si fosse raffreddato, proprio come il motore di un’auto dopo che si è girato inutilmente la chiavetta. Mia moglie viveva le cose come se avesse già trovato una soluzione. In realtà non aveva e non dava tregua fino a quando il problema era risolto. Forse era l’anima friulana che continua ad essere la nostra carta di identità.

Il gatto ha smesso di mangiare. Mi ascolta. Gli sto raccontando una storia. No, gli sto raccontando di un qualcosa in cui ho creduto, in cui io e mia moglie, e dopo le mie figlie, abbiamo creduto e continuiamo a crederci. Perché ci penso ora? Forse è per questa gente nuova che sta arrivando da ogni parte del mondo: immigrati di ogni genere con i loro fardelli di miseria e di illusioni. E, come noi un tempo, con il loro bagaglio di usi, costumi e tradizioni. Molto più del “padellino” o forse come il “padellino” che è la nostra storia. Sto divagando, gatto. Scusami.

Costruirono le scuole elementari e la materna; una casa colonica ristrutturata divenne sede di un circolo culturale: si parlava di poesia, si faceva poesia. Qui trascorro le mie giornate e continuo nel mio credo. Se non avessi come compagna di vita la mia Miranda, non credo sarei riuscito, e riuscirei, a fare ancora tanto.

Ma i problemi stavano sempre lì in agguato, come se ce li buttassimo addosso: l’occupazione abusiva di case, il conseguente pericoloso contrasto con gli assegnatari… Poi ci mandarono gente al confino e altro ancora. Una delle mie figlie ebbe problemi di scoliosi. La palestra, sorta poco lontano da casa mia, fu il primo tentativo di riabilitazione. Poi cominciò ad andare, due volte alla settimana, in un centro specializzato all’altro capo della città. Un pulmino veniva a prendere lei e i bambini come lei. Fu un periodo durissimo e preoccupante. Ma Miranda sembrava fatta di granito e io prendevo forza da lei.

Mangio adagio, dentro il “padellino” e faccio pure la scarpetta. Questo non piacerebbe a Miranda, ma lei non c’è e mi concedo questo piccolo lusso. Verso un po’ di vino e butto un occhio al televisore: l’ennesimo barcone di immigrati. Disperati più di quanto lo fossimo noi o quelli come noi che almeno parlavamo italiano, anche se a volte un poco storpiato.

Le mie figlie sono cresciute con gli “stranieri” del sud, quasi un’altra Italia, in un clima di impegno politico e sociale per ottenere i servizi necessari in un quartiere praticamente nato come i funghi della mia terra dopo una notte di pioggia. Intanto il quartiere si stava popolando di strani personaggi. Tutti avevamo paura perché la droga cominciava a circolare, e i nostri ragazzi ci cascavo dentro per ingenuità, per sentirsi grandi, perché… Una decina di anni fa, la mia secondogenita tornò a casa dal lavoro annunciando che, in un appartamento del Pilastro sarebbero stati ospitati, a cura di un Ente statale e grazie a borsa di studio, un gruppo di studentesse, proveniente da ogni parte del mondo. Io mi preoccupai, non erano bei tempi; di sera poi, con i lampioni rotti e vetrine fracassate, di gente non se ne vedeva molto in giro. Se ne stavano rintanati in casa, le porte sprangate. Mia figlia mi tranquillizzò subito: la borsista brasiliana proveniva da uno dei quartieri più poveri di San Paolo. Aveva visto di peggio ed era perfettamente in grado di difendere se stessa e tutte le altre.

Poi ci fu quella brutta storia della “Uno Bianca” e la paura la si portava in tasca assieme al portafoglio e al fazzoletto da naso.

Non bastavano la palestra e i laboratori vari di artigianato dove i ragazzi avevano opportunità di imparare un mestiere e trovare poi una occupazione. Nacquero altre iniziative, portate avanti negli anni perché il Pilastro, con il suo immenso parco verde, con la sua capacità di integrazione continua, fosse un punto di riferimento per ogni abitante.

Certo oggi le cose sono cambiate e molto: noi siamo stati davvero dei pionieri, un po’ come quei nostri avi emigrati in America!

Quando venimmo ad abitare qui, frequentava casa nostra una ragazzina, coetanea della mia primogenita. Aveva traslocato il nostro stesso giorno. Proveniva da un paesino del sud. Una casetta che era una bicocca e un orto sul retro dove i suoi genitori coltivavano qualche pianta rachitica che poi vendevano sulla porta di casa, come fosse una bottega. Di quella casa e di quella bottega sentiva nostalgia quando era costretta a chiudersi dentro casa. L’ho incontrata alcuni giorni fa. Lei era venuta a salutare sua madre che abita ancora qui e mi ha raccontato del suo recente viaggio in America, New York compresa, poi ha spalancato le finestre, ha steso le mani oltre il balcone e ha detto: “Pilastro, mia Manhattan!”

Continuo a sfregare l’ultimo pezzo di pane sul fondo del “padellino” lucido come i miei occhi, o come l’avesse lavato Miranda. Eh, caro gatto, i ricordi sono ricordi, sono le cose in cui ho creduto. In tanti ci abbiamo creduto.

LA LAVANDAIA

Scendeva l’argine del fiume,
il cesto colmo di panni da lavare,
in acque rifrante dalla corrente
s’immergeva,
alla coscia la veste avvolta,
sulla nuca i capelli raccolti.
Sassi levigati, tele battute e poi
stese al sole ad asciugare
sulle braccia curve dei giunchi.
Risalivano docili al tramontare
del sole, tele non più grevi
fragranti di calore.
Nell’aria gioiosa una canzone.

STELLE

Senti?
è sbocciata una stella
lassù a oriente
nel cielo screziato
di nuvole a branchi.
 
Ascolta!
Stanno arrivando
le sue sorelle per strade,
per carri, in punta di piedi
per non fare rumore.
Sono i crochi del cielo
dipinti di giallo
sbiadito o solare,
sono venute a vegliare
i tuoi sonni, i tuoi sogni,
per farti restare ancora bambino
in un mondo marcito
di foglie vitali,
spente illusioni
cemento e bitume.

A MIO PADRE

Nel soffocare d’afa di primo mattino

il cielo lattiginoso quasi sbiadito,

mi torna in mente la tua tenda arancione

avanzo di un gommone finito bucato

in riva al mare tra detriti e conchiglie

consunte. Un triangolo d’onde appeso

ad un bastone nodoso come le tue mani

compagno amico delle tue gambe stanche.

Tu, mio padre, sedevi al sole

in canottiera e sandali da frate,

le mani posate sulle ginocchia

il capo canuto piegato in avanti

gli occhi all’ingiù e i pensieri nascosti,

poi andavi sotto la tenda e immaginavi

il mare. Alle spalle il biancore di un muro,

di fronte un frutteto verde e rosa di frutti.

VITA DA BALCONE

Insegne dal lato opposto della strada

uno sbattere di panni dalla finestra

la radio di casa mia che alterna

musica e spot pubblicitari.

Un tubare monotono di colombi

tintinnare di stoviglie spostate

la voce squillante di una bambina

e la sua risata allegra e innocente.

Sto qui sul balcone, seduta

su una seggiolina da mare

insieme a un cip cip di passeri

e il silenzio non  mi fa più paura.

Fingo di essere in vacanza

ascolto Aznavour e Vecchioni

e rifletto su questo cataclisma

che ci spoglia di abbracci, tutto.

Riflessi sui vetri del supermercato

un’auto in sosta permanete

e un viandante senza mascherina

che cammina svelto a testa china

forse in pensiero per quest’oggetto

misterioso: che ci sia ognuno lo dice

dove sia nessuno lo sa.

 

LA TUA GIACCA

Sul fondo dell’armadio

una giacca sgualcita

nuda la gruccia che l’ha sostenuta

non so da quanto è caduta

non so quanto dimenticata.

Ascolto lo sciabordio del mare

sento odore di rena bagnata

di pelle bruciata dal sole

di barca dipinta di fresco

per far festa noi due.

Non sei ritornato quel giorno,

nemmeno quello dopo.

Non so se tenerla la giacca,

buttare la gruccia infida,

non so se parlare o tacere.

 

Noi due perduti in abissi

che non abbiamo agognato.

UN TAVOLO

Un tavolo che viene dal bosco

dimora di spiriti, gnomi e voci nascoste.

Un tavolo che fu un albero

con i rami volti al cielo,

d’abete, di noce, di castagno

o forse quercia, o ciliegio, olmo, frassino

Un tavolo, assi che il falegname ha piallato,

gambe che il falegname ha tornito

nella polvere della sua bottega.

Un tavolo che serve per mangiare,

studiare, giocare, lavorare

Un tavolo che serve per parlare

al mattino, mezzogiorno e sera.

Un tavolo che ha visto il mondo

e ha vissuto molte vite.

Un tavolo che ha visto amori e dolori

e la dolcezza dei primi amori.

 

 

VETRINE

La Galleria Cavour è bellissima e, anche se oramai lo scintillio delle luci natalizie è scomparso da un paio di mesi, non ha perso nulla del suo fascino.

Mi sono fermata davanti alle vetrine ampie, luminose e bellissime che espongono abiti leggeri e leggiadri al punto da confondersi con l’intimo che sembra velo tanto è la delicatezza e la vaporosità. Tutto molto raffinato. Tutto talmente seducente che mi viene voglia di toccare quella biancheria, indossarla camminando per casa come a volte vedo in certe fiction televisive e negli spot pubblicitari. Ragazze bellissime che non hanno mai freddo, che sono già sexy di loro, figuriamoci con indosso simili capi, realizzati con la stessa cura, amore e attenzione di quando ad occuparsi di tutto era lei, Ada Masotti, la fondatrice di L’Ape, diventata in seguito La Perla, uno dei marchi tuttora più prestigiosi, se non il più prestigioso del settore.

Come tutto è lontano nel tempo! Di quel mondo, di quell’arte della vestibilità provocante, delicata e imperativa nello stesso tempo ho fatto parte per la maggior parte della mia vita lavorativa. Una presenza più che discreta la mia. Una comparsa mi definirei, ma lo stare in un certo senso dietro le quinte, mi ha permesso di seguire le creazioni dall’idea della loro nascita alla realizzazione. Ogni fase studiata, soppesata nelle stoffe, nel disegno, nella pubblicità e molto altro ancora.

Il mio primo approccio, se così lo posso definire, avvenne qualche anno dopo trasformazione da piccolo laboratorio di corsetteria dell’Ada, nel 1954, in una vera e propria azienda di produzione.

Precedentemente lavoravo, mescolata fra le tante impiegate, in una grande azienda, rappresentante italiana di una fabbrica automobilistica tedesca: come loro entravo ogni mattino nello spogliatoio del reparto ricambi per indossare la divisa: un camice di cotone azzurro tagliato a redingote. Spogliarmi era, per me, sempre un momento di forte imbarazzo per via della biancheria che indossavo: piuttosto modesta rispetto a quella della maggior parte delle mie colleghe, in particolare di Lina. Bellissima e statuaria, mostrava guepiere nere dalla vestibilità talmente perfetta che sembrava gliele avessero cucite addosso.

Ragazzina nata e cresciuta in campagna, ero piuttosto sprovveduta in molte cose e meno che mai conoscevo l’arte della seduzione di ciò che si metteva sotto i vestiti; in casa nostra la biancheria migliore la si indossava per andare dal medico o in ospedale. Incomprensibile per me usarla nei giorni feriali anche se quel camice, la scollatura lunga di quel camice, metteva in mostra regolarmente il reggiseno nonostante la spilla da balia, nascosta alla meglio, che per un ancestrale pudore alcune di noi usavano al solo scopo di rimpicciolire la scollatura.

Lina no, lei aveva un fidanzato che ci teneva a quel sotto l’abito, e lei non ne faceva mistero, anzi qualche suggerimento ce lo dava pure! Un giorno invitò alcune di noi a casa sua dove aveva dato appuntamento alla titolare della corsetteria che le forniva le guepiere. A quel tempo ero piuttosto goffa e un tantino complessata; pur sognando di diventare se non proprio un cigno almeno un suo surrogato, ero troppo insicura per tentare una qualsiasi via per raggiungere questo obbiettivo. Accettai l’invito con parecchie titubanze ma, quando fu rimandato, tirai un sospiro di sollievo pur conscia di avere perso un’occasione per trasformarmi in un cigno.

Poi un giorno con Lina e le altre andammo alla Standa: sapevamo che ci sarebbe stata la moglie di un industriale tessile, divenuta contessa con il matrimonio, per pubblicizzare una sua linea di abbigliamento femminile di un certo prestigio. C’era molto interesse verso questo evento fra noi ragazze che continuavamo a sognare abiti belli a prezzi accessibili. Io indossavo un tubino di cotone giallo e una borsa speciale che mi ero “regalata”, verbo usato ogni volta che, come altre mie coetanee, riuscivo a concedermi risparmiando sul mio modesto stipendio.

Quel giorno alla Standa a chi acquistava un capo, anche solo un foulard, veniva consegnato una foto che la contessa autografava. Attorno al suo tavolo la fila sembrava non esaurirsi mai, ma arrivò anche il mio turno.

“Come ti chiami?”

“Eugenia.” risposi a voce, intimidita da una signora, con l’aspetto un po’matronale e il piglio di un comandante, in piedi al suo fianco.

“Bello il tuo abito e anche la sciarpa che hai acquistato! Hai buon gusto!”

“Mi ricordi le mie origini.” Aggiunse a bassa voce e chinò il capo per autografarmi la cartolina.

Avrei voluto dire qualcosa di interessante visto che la sua storia era stata riportata da tutti i giornali e invece me ne uscii, non so come, con:

“Grazie, deve essere la passione che ho per tutto ciò che riguarda l’abbigliamento femminile. Mi piacerebbe lavorare anche qui, alla Standa.”

“E a La Perla no? Sono Ada Masotti e stiamo assumendo personale. Operai e impiegati!”

Ero rimasta a fissarla senza riuscire a spiccicare una parola. Avrei voluto dirle che sotto il mio abito giallo, indossavo un reggiseno e uno slip acquistato direttamente nel suo laboratorio, ma non sono mai stata brava a dire bugie. Stavo già rimpiangendo l’opportunità sfumata quando Lina, mi venne in aiuto sussurrandomi all’orecchio:

“E dai! Rispondi che farai la domanda, così potrai ammirare quotidianamente la lingerie che ti piace tanto!”

Lingerie, disse proprio così e sorrisi per la pronuncia. Però se fossi entrata a fare parte della grande famiglia di La Perla, avrei goduto sicuramente di qualche privilegio negli acquisti!

“Mi piacerebbe.” dissi con forza guardandola quasi con sfida.

“E allora fai questa benedetta domanda!”

La risposta suonò un po’ brusca e ne fui mortificata. Non ebbi modo di dire altro, lei si era girata verso un’altra cliente ed era evidente che si conoscevano.

La Contessa mi disse auguri. Poi aggiunse che la sua amica Ada non se ne sarebbe pentita.

“Sempre che mi assuma!” commentai con le mie amiche.

Lina mi ricordò che Ada Masotti aveva imparato il mestiere nel miglior atelier della città, una attività che era passione per il bello e per il meglio. Non avrebbe potuto essere diversamente visto che, nel corso degli anni, nella lavorazione di ogni capo era riuscita a mantenere quell’artigianale che forniva un tocco di classe, di malizia, di un intimo che donava alle donne il potere della seduzione.

Inoltrai dunque la domanda senza dire niente né alla mia famiglia né al mio fidanzato che parlava di matrimonio, casa da acquistare e figli da crescere.

Oggi il marchio è noto in tutto il mondo, ha subito momenti di crisi come molte altre aziende, ma è riuscito a sopravvivere, espandendosi ovunque con le sue boutique di lusso, un marchio che inneggia alla bellezza, alla femminilità delle donne. Ma già da quando nacque il primo laboratorio di corsetteria a Bologna non era un privilegio di molte riuscire ad acquistare i capi prodotti. E per me fu un privilegio entrare a fare parte di coloro che lavoravano per la produzione di questi articoli.

La risposta non tardò molto ad arrivare e con l’assunzione la mia vita cambiò. Lavoravo negli uffici, ma spesso scendevo in laboratorio, immenso, per accompagnare Marisa, la Direttrice. Mi piaceva seguirla mentre controllava le stoffe, i pizzi o le ragazze che non chiacchierassero troppo. Poi gli ordini, passati in rassegna uno ad uno per evitare errori e disguidi.

Poco per volta acquistai sicurezza, il mio ruolo divenne più attivo nel senso che controllavo pure io, esprimevo opinioni, suggerivo piccoli cambiamenti. E non perdevo di vista i tessuti, i pizzi, i gancetti, i bottoncini… Era un’attrazione pura sfiorare i tessuti, toccare le creazioni che, inizialmente, venivano trasportate in una valigetta foderata di velluto rosso abbastanza simile a quella dei gioiellieri. Ada Masotti era ospite di questo o di quello e la valigetta divenne una sorta di marchio, se non di simbolo della donna. Ed erano veri gioielli quelli creati dalle mani sapienti, su modelli studiati, discussi, creati su stoffe lisce, impreziositi da inserti da pizzi smerlati, pizzi chantilly fatti arrivare direttamente da Calais… Capi rifiniti a mano con accuratezza e amore.

Da un piccolo laboratorio di corsetteria, Ada Masotti, applicando con tempestività tecnologie innovative e materiali nuovi, era riuscita a creare un impero. Nuove boutique nacquero in ogni parte del mondo, venne alla luce il pret-a-porter femminile, ci furono le passerelle a Milano, a Parigi e altrove.

Viaggiavamo molto per seguire ora l’apertura di una nuova boutique o la presentazione di una nuova collezione. Eravamo una squadra, io sempre in terza o, al massimo, in seconda fila, ma andava bene così: tutto sommato la mia timidezza non era migliorata e Ada, come la chiamavamo tra noi, continuava a mettermi in soggezione. Però, come ripeteva spesso Marisa, ero insostituibile per una memoria fuori dal comune, per la capacità di osservazione, di anticipare le necessità e gli imprevisti.

Diciamo che l’ammirava l’Ada, ma preferivo restare defilata. Per la verità, non avevo molte occasioni di incontrarla; non sono nemmeno mai riuscita a ringraziarla personalmente della opportunità che mi aveva offerto. Le feci pervenire un biglietto: poche righe che richiesero parecchio tempo perché studiate e ristudiate; lei ripose altrettanto brevemente augurandomi buon lavoro. Mi stupiva quella donna, mi stupiva suo marito che mi dava più la sensazione di un principe consorte e non di un industriale dell’intimo femminile. Mi stupiva anche l’aria un po’ matronale di lei, più la tipica arzdora bolognese che l’artista delle creazioni prodotte nel suo laboratorio. Mi stupiva quell’uomo, presenza importante seppure discreta, che le stava a fianco. Aveva sempre un’espressione serena, consapevole di avere una moglie imprenditrice, il vero motore dell’azienda con la sua capacità intuitiva, quella di prevenire in un certo senso le mode, di guardare le opportunità che il mercato e il futuro offrivano.

Nel corso degli anni, innovazioni e nuove tecnologie furono sempre applicate e il marchio continuò ad espandersi. Imparai a pronunciare correttamente nomi e a capire le tecniche di lavorazione: il pizzo Leawers dal nome del telaio inglese con cui veniva prodotto, il ricamo Connelly, il macramè in realtà un merletto a nodi, la seta soutache, il frastaglio. Poi arrivò un tessuto elastico, lycra crêpe, quello che oggi viene indicato con un termine più generico, stretch o elasticizzato, e fu un successo senza precedenti.

In tutta questa girandola, perché così era, i miei due figli sono cresciuti con un papà che ha fatto loro anche da madre perché quella vera, io, era immersa in mille impegni e incombenze varie, con e al seguito dello staff di direzione. E genitori e zie hanno dato una mano, ben contente di dire ai vicini di casa dove e con chi lavoravo. Poi uno completino, o meglio una parure, di tanto in tanto per ringraziare… Più che volentieri!

Nonostante la cura maniacale che veniva messa in ogni nostro gesto perché tutto procedesse alla perfezione e il marchio mantenesse la sua fama di inimitabilità come produzione e anche come organizzazione, a volte qualcosa andava storto. Capitò a Parigi in occasione di una sfilata: una modella che, per un improvviso malore, non poté sfilare. Non era possibile sostituirla con una collega per ragioni organizzative e sembrava impossibile trovare una soluzione alternativa in tempi così stretti. In mezzo al caos e alla costernazione che stava salendo in maniera esponenziale, Ada Masotti girava da un’indossatrice a qualcuna di noi, guardando, parlottando con Marisa, spingendo un fotografo fuori dal salone. Improvvisamente mi puntò gli occhi addosso e mi marciò contro. Sembrava un generale e avrei voluto sprofondare ma lei stava già trascinandomi per un braccio. Non so come mi avesse notata in mezzo a quella baraonda e nemmeno ho ricordi ben precisi di cosa stesse succedendo tanto era il panico che continuava a salire.

Per quante volte avessi tentato di parlarle, non c’ero mai riuscita, eppure sembrava che lei sapesse sempre tutto di me, di mio marito e dei miei figli. Di lei si favoleggiava di tante cose: certamente era una donna straordinariamente volitiva, ottima pubblicista dei capi da lei prodotti, ormai diversificati in più marchi. La descrivevano come madre energica e altrettanto affettuosa, La descrivevano anche come persona di cuore, attenta alle realtà quotidiane dei suoi dipendenti. Ma tutto con distacco, almeno apparente. Forse ero io l’incapace a farmi avanti, diceva mio marito, con una persona così e con la mia esperienza ormai acquisita avrei potuto ottenere molto di più! A me stava bene così, mi piaceva lavorare a La Perla, un nome che mi ricordava le conchiglie, il mare, i gioielli creati. Mi piaceva viaggiare, vedere il mondo e quel lavoro me lo consentiva. Ho conosciuto gente fantastica, fotografi speciali che mi hanno ritratta come fosse anch’io una modella. In realtà ero solo un chiodo tanto era la mia magrezza in parte naturale e in parte per gli orari spesso sregolati che spesso mi facevano saltare i pasti.

“Sbrigati!” e mi aveva mollato lì, al trucco, senza che ancora avessi capito cosa stava succedendo, perché mi dovessi sbrigare.

Me ne resi conto quando, mentre un phon incombeva sui miei capelli, qualcuno mi ripeteva di sbrigarmi che non c’era più tempo e io indossavo guepiere, calze e scarpe tacco altissimo e un tantino strette per me.

“Con tutte le sfilate che hai visto, guai a te se sbagli una mossa!”

Il tono di Marisa era indiscutibile e io non avevo voce per replicare. Sfilai assieme ad una modella professionista che mi condusse lungo la passerella, mi fece piroettare come in una sorta di gioco, s’inventò una specie di sketch tenendomi per mano, aiutandomi nelle giravolte, sfilando tra i denti un continuo: sorridi! Fu un successo, e ci guadagnammo un: “Brave, ottimo lavoro.”

Non ripetei l’esperienza. Credo che l’Ada, come confidenzialmente e affettuosamente veniva chiamata un po’ da tutti, avesse capito che non era il caso.

La prima volta che andai a Parigi, la sfilata ebbe un successo tale che fummo invitati in un castello: la marchesa voleva una sfilata personale per lei e le sue amiche. Andammo e Ada si presentò con la famosa valigetta foderata di velluto rosso.  Fu un osanna! Il fatto poi che nel castello ci dormissimo pure portò al culmine l’eccitazione che mantenemmo intatta anche quando si inscatolava di nuovo tutto per tornare a Bologna.

Ada Masotti aveva il dono della creatività, era un’artista dell’incrocio di tessuti e pizzi, ma possedeva anche l’eloquio necessario per fare innamorare i possibili acquirenti del suo prodotto. In questo, in un certo senso, un valido contributo arrivò, già all’inizio della sua attività al laboratorio di corsetteria, da Ubaldo Borgomanero, esperto commesso viaggiatore di piccola merceria e quant’altro utilizzato nel cucito, che si rivelò un prezioso collaboratore fornendole consigli, indicazioni su ciò che volevano le donne, su come interessarle e convincerle cosa indossare sotto gli abiti.

Una sorta di ricerca di mercato che andò ad affinarsi e ad arricchirsi nel tempo.

Il caso mi aveva messo in contatto con questa azienda e l’ho seguita con l’affettuosa partecipazione di chi si sente come a casa propria. Certe volte ho avuto l’impressione di non essermela guadagnata quella posizione di privilegio, come se qualcuno mi avesse preso per mano al mio primo ingresso in azienda e non l’avesse lasciata mai. Pensieri che sparivano veloci per lasciare spazio alla passione per queste creazioni, all’amore e alla dedizione per il lavoro come tutti gli altri dipendenti.

Il figlio di Ada, Alberto, aveva messo nel cassetto la laurea in medicina per collaborare in azienda, seguito dalla moglie e, più tardi, dalla figlia. Lo stesso fu per i figli di Ubaldo Borgomanero e ognuno di loro s’impegnò al meglio dando nuovi impulsi all’azienda.

Intanto il pret-a-porter aveva reso i prezzi accessibili ad una fascia più ampia di donne che non si limitavano solo a sognare i capi esposti nelle vetrine, ma li acquistavano, vantandosi poi di possedere questa preziosità come fossero gioielli.

Per me il tempo delle corse, degli entusiasmi che sfociavano in fatiche immani e tensioni fino a quando l’obbiettivo non era stato raggiunto, dei sensi di colpa per i miei figli che crescevano con un padre che era anche madre, ad un certo era giunto da un pezzo al capolinea.

Da molti anni sono in pensione e di quel mondo ho perso parecchie tracce.

Seguo però da lontano le vicende di questa azienda che Ada Masotti dal niente ha fatta diventare un colosso. Vicende varie e turbolenze finanziarie hanno messo a rischio questo straordinario patrimonio di capacità creativa, ma fortunatamente non c’è stato nessun crollo e la produzione continua con lo stesso amore, la stessa impronta artigianale, la stessa tendenza a fare della lingerie prodotta quanto di più bello e seducente ci possa essere nell’intimo. Un’eredità straordinaria dove forse manca solo la figura di colei che l’ha resa possibile, una figura che ha risvegliato nelle donne il desiderio di piacere valorizzando il proprio corpo fasciandolo con tessuti e pizzi rendendolo più seducente.

Da quanto tempo sono ferma qui? Non lo so e non ha molta importanza. Sono una tranquilla nonna che a volte incontra qualche collega per una cioccolata calda in pasticceria nei mesi invernali, una bibita fresca in estate. Abbiamo i nostri acciacchi ma continuiamo ad indossare la lingerie di La Perla, i costumi da bagno dello stesso marchio, tessuti dagli intrecci morbidi, camicie da notte preziose. Qualcuna usa anche il profumo, il marchio rimane una garanzia.

La gente passa, qualcuno mi urta, da quando sono in pensione la mia vita si è ridimensionata, ma quegli anni magici sono qui, in queste vetrine, in ciò che è in mostra e fermarsi a guardarli è come ritornare indietro nel tempo, rinverdire quel senso di magia che spesso mi avvolgeva.

Per un momento chiudo gli occhi su questi ricordi, su un mondo fatato che, a distanza di tanti anni, sembra più un sogno che realtà. Qualcosa di sfumato, avvolta da un velo di nebbia. O forse lo è davvero un sogno frutto di fantasia e in realtà sono rimasta a quella guepiere nera con gli intarsi di pizzo, indossata dalla mia amica Lina, insieme ai miei sogni di ragazzina? Chissà, la fantasia a volte gioca strani scherzi e i ricordi non sono mai veritieri.

 

Nota dell’autrice. Questa storia non è quella reale di Ada Masotti, è solo un immaginario e un omaggio a questa donna che, in certo senso, ha portato la rivoluzione nella biancheria intima facendola conoscere anche a tante donne che indossavano “quella bella” solo per andare in ospedale o dal medico. 

RACCONTAMI UNA STORIA...

Arrivava a passo di carica, come fosse in ritardo ad un appuntamento. E forse tale doveva essere, almeno per lei visto che abbandonava i suoi giochi di botto, compresa la bambola preferita fermandosi poi di fronte a me come allo stop di un semaforo. Braccia tese lungo i fianchi, mento leggermente volto verso l’alto, occhi seri, voce che non ammetteva replica.

Nemmeno oggi manca a questa specie di appuntamento, così alzo gli occhi dal cruciverba che da ieri non riesco a terminare. Potrei chiedere aiuto a mio marito, magari attraverso un sms whatsapp che costa niente, ma non so in quale galassia sia andato a finire. Ha dimenticato di dirmelo: una partenza improvvisa che ancora non riesco a metabolizzare.

Sofia attira la mia attenzione pestando impaziente il piede destro. L’avrà visto fare in televisione suppongo, se non altro per non incolpare le maestre della materna che sono deliziose, o la sua mamma, che è mia cognata, e suo marito mio fratello, sempre un po’ scontroso e pure distratto, qualunque cosa gli si chieda.

La guardo in silenzio, imponendomi di assumere un’aria quieta, ben determinata a non rendermi oggetto delle sue imperiose necessità. Cinque anni e pienamente calata nel suo ruolo di principessa della casa.

Lei si stropiccia gli occhi. Vorrei chiederle se ha sonno, se vuole fare un riposino sulla poltrona reclinabile, ultimo acquisto del suo papà. Non lo faccio e nemmeno smetto di guardarla.

Raccontami una storia!”

E…”

Per piacere zia. Ti prego zia!” e mi regala uno dei suoi sorrisi ammalianti.

Penso a quando sarà grande, a come riuscirà a girarsi le persone sopra un dito!

Una nuova?”

No, quella di Ermenegildo Bentivegna. Quella che lui va a prendere i pesci per la nonna che è rimasta sola!”

Raccontare ad un bambino una storia inventata di sana pianta, ma ripetuta più volte, significa almeno per me perdere dei ‘pezzi’. Significa che Sofia, come la maggior parte dei bambini, è sempre lì, pronta a puntarti il dito contro per segnalarti la dimenticanza o per dirti che ‘ieri non hai detto così’.

Deliziosamente petulante e generosa nei suoi abbracci ora così necessari per me.

Resti in piedi?”

Nooo! Vengo sulle tue ginocchia.”

Inizio la storia di questo bambino dai capelli rossi e il viso pieno di lentiggini, buono come il pane, con un sorellina capricciosa che gli sta sempre appiccicata addosso e gli disubbidisce in continuazione cacciandosi nei guai.

Storie forse non tanto originali le mie, ma a sua madre, agli altri miei nipoti, ai figli delle mie amiche piacciono moltissimo e, pure loro, mi correggerebbero anche le virgole se, a cinque anni come Sofia, ne conoscessero il significato.

Lei cerca una posizione comoda sulle mia ginocchia e mi avvolge in un tenero abbraccio mentre appoggia la testa nell’incavo della mia spalla destra.

È la sua posizione di riposo, di quando è stanca e le basta muovere la testa appena un niente per nascondersi alla luce e dormire.

Racconto la storia, abbassando la voce poco per volta, continuando anche quando il suo respiro sembra farsi più leggero, distratto a momenti da un lieve russare.

È raffreddata e ha qualche linea di febbre. – mi ha detto mia cognata – Tua madre ha un appuntamento che non può spostare, e io… beh… ?”

Hai un lavoro da finire...” concludo per lei.

Abitiamo a poca distanza l’una dall’altra, ho preso un periodo di congedo, non ho granché da fare. Non ho ancora ripreso in mano la mia vita, fatico a stare in mezzo alla gente e lo spazio vuoto, che ha lasciato mio marito, sembra dilatare invece che rimpicciolire. Certe volte vorrei tornare bambina come Sofia, quando c’era mia nonna a prendersi cura di me. Mia madre lavorava nei campi con papà e il nonno, lei stava a casa per le faccende domestiche e per ‘tenermi d’occhio’. Non mi raccontava le favole, ma mi portava con sé ovunque andasse e mi spiegava la vita delle piante, degli insetti, degli uccelli.

Pensieri che frantumano di tanto in tanto la storia che sto raccontando, ma Sofia si è addormentata. La copro con un plaid leggero. Mi muovo adagio per non svegliarla. Poi l’abbraccio stretta e resto lì. Al piano di sopra mia cognata parla al telefono con suo marito e, dopo, mi pare con un cliente; deve essere l’autore di quell’articolo che lei non riesce a terminare; manca sempre qualcosa: un’immagine esplicativa, un disegno fatto male, una nota bibliografica poco chiara. Mia cognata ha preso a raccontarmi del suo lavoro con dovizia di particolari, mi chiede consigli. Lo fa con serenità come se nulla fosse successo. Come se tutto fosse come prima. Vorrei non essere così rattrappita dentro, vorrei raccontarle di come mi sento, di come vorrei tornare bambina e ascoltare mia nonna che mi spiegava i cicli delle piante e, insieme, quelle della vita. Quelle erano le mie favole, piene di saggezza e di buon senso.

Chiudo gli occhi e nonna Maria mi viene incontro negli ultimi anni della sua vita, quando erano figli e nipoti a prendersi cura di lei come fosse tornata bambina e tutti dicevano che era troppo presto perché le succedesse quella cosa che sbriciola il cervello facendolo funzionare a sprazzi.

Ci eravamo trasferiti a casa dei nonni dopo la mia nascita. I miei fratelli erano già grandicelli; con loro mia madre era riuscita a barcamenarsi con l’aiuto di una vicina di casa, a sua volta madre di due maschietti. Poi il podere dove abitavamo era stato venduto e, da lì, la soluzione di trasferirci dai nonni materni, oramai rimasti soli. Era sembrata la decisione migliore.

Eravamo una bella famiglia, sereni con quello che ci dava la terra, in armonia con le altre famiglie di contadini che abitavano nelle case sparse intorno al paese.

Mi sembrava di avere due mamme e due papà, poi c’erano i miei fratelli.

Non mi è mai mancato nulla fino a quando non sono iniziati gli inevitabili vuoti che la vita ti riserva. I fratelli sposati con cambio di abitazione e di lavoro. Io in un paese lontano con l’amore della mia vita.

Mia nonna è sempre stata il mio punto di riferimento più importante, il mio ponte, la mia sicurezza. Anche mio marito le era molto affezionato; l’abbracciava stretta, lei si schermiva: non era abituata agli abbracci, non usava. Marco le toglieva con delicatezza il fazzoletto che portava sempre in testa, anche quando andava a dormire, rigorosamente allacciato sotto il mento. Lei mi guardava e diceva:

Digli di smetterla!”

Chissà se mi sono resa pienamente conto che quella è stata la mia felicità, unica e assoluta! Eravamo così uniti che dolori, fatiche e preoccupazione venivano percepite come fossero passate attraverso un filtro. Chissà se mai mi sono resa conto che quel filtro eravamo noi stessi. Condividevamo le nostre vite e il nonno faceva da paciere quando c’erano malintesi o screzi. Ed era sempre lui che metteva il suo imprimatur nelle decisioni prese. Una specie di timbro di ceralacca con il sigillo del suo sapere e della sua saggezza. Una malattia lo ha consumato e poi portato via quando ancora era nel vigore degli anni. La nonna ha continuato a camminare con la schiena dritta.

A volte mi viene voglia di piangere!” mi aveva detto piano un giorno, girandosi poi in fretta perché non vedessi nemmeno gli occhi lucidi, figuriamoci le lacrime.

Io sono qui nonna. Siamo tutti qui.”

Non aveva risposto, solo un brusco movimento di spalle all’indietro. Il mio ponte ancora una volta non aveva vacillato.

I giorni continuavano a scorrere senza che la sua ironia, quella che ci faceva ridere anche se avevamo voglia di piangere, venisse mai meno.

Arrivò anche per lei il tempo di tornare un poco bambina, e quel ‘troppo presto perché la sua mente svanisca’ risuonò sempre più di frequente in casa nostra. Mia madre continuò, nelle occasioni speciali e nelle feste importanti, a riunirci attorno alla tavola imbandita salvo poi lamentarsi di tutta quella fatica e dei vassoi che ci preparava perché li portassimo nelle nostre case.

Mia nonna non poteva più aiutarla; nei momenti di lucidità, diventati sempre più rari nel tempo, era la prima a farsi gioco dei suoi acciacchi. Quando si rovesciò addosso una pentola di brodo bollente, urtandola mentre passava troppo vicino ai fornelli e restando in prognosi riservata per parecchio tempo, raccontava la sua disavventura a tutti quasi divertita; mostrava con orgoglio le sue gambe ‘piene di pezze’, un po’ come quelle che, fino a quando era stata capace, aveva cucito nei pantaloni del nonno e negli abiti che indossava per casa. Erano ritagli di abiti ormai smessi; sul suo corpo, pancia e gambe, erano quadratini di pelle trapiantati. Fu l’inizio degli anni in cui la cura di sé divenne indispensabile e in cui doveva alimentarsi con cibi semplici. Quelli poveri li aveva sperimentati per almeno la prima metà della sua vita.

Mi ‘peli’ il formaggino?” mi chiedeva ogni volta che capitavo lì e, per accontentare lei e i miei genitori, mi fermavo per pranzo o per cena. Erano formaggini tondi, avvolti nella carta stagnola, di quelli che si danno ai bambini e magari si schiaccino nella minestrina in brodo dei bambini piccoli. Lei sorrideva, con la bocca e con gli occhi.

A Natale era festa anche per la nonna: mia madre le metteva nel piatto tre cappelletti rigorosamente cotti nel brodo di cappone e punta di petto.

Li mangiava adagio, mormorando di tanto in tanto, quanto fossero buoni.

Si trincerava sempre più spesso nel suo limbo, mi chiedeva chi fossi per dirmi, magari subito dopo, quanto fosse contenta che non mi ero dimenticata di lei.

Poi un giorno si è rattrappita su se stessa, non ha più voluto né mangiare né parlare.

All’ospedale si è girata da un lato e non si è più mossa.

Mi manca e vorrei che fosse qui, vorrei chiamarla.

Forse sono i polpastrelli delle sue dita quelli che sfiorano, avanti e indietro, le mie guance. Il dito che preme sulle mie ciglia non può essere il suo: troppo piccolo.

Zia, perché piangi? Ci sono io con te.”

Ho pensato, ho sognato. Un sogno che è un rivissuto con il dolore immenso che è rimasto chiuso, aggrovigliato e aggrappato dentro, nel cuore e nell’anima.

Mia cognata e la bambina sono lì. Mia cognata non parla.

Credevo non ti svegliassi più come lo zio Marco!”

Di comune accordo le abbiamo detto che lo zio si era dimenticato di svegliarsi, così era rimasto in cielo, magari avvolto da una nuvola.

Su quell’aereo mio marito era salito per sostituire un collega di lavoro; a destinazione non era mai arrivato perché l’aereo era caduto prima.

Zia raccontami una storia nuova! Ne voglio una con lo zio che va dalla nonna con l’aeroplano.”

Mi irrigidisco.

Si vede che nessuno le toglieva il fazzoletto dalla testa e lei non si divertiva più. Così lo zio è volato da lei.” Conclude guardandomi nella speranza di un complimento.

È una bambina ricca di fantasia, mia cognata dice che cerca di emularmi.

Ti racconterò la storia, piccolina! Domani però. Ora si è fatto tardi e devo tornare a casa.”

Forse Marco sta davvero lassù, sta con mia nonna, magari le toglierà davvero il fazzoletto dalla testa, magari…

Sofia mi abbraccia.

Davvero domani tornerai ancora? Che bello! La mamma ha detto che così ti aiutiamo a stare meglio!”

La sincerità dei bambini: così schietta da fare male, ma così vera e inconfutabile!

Sì, Sofia, tornerò domani e il giorno dopo ancora, tornerò e ti racconterò di Marco cercando di convincermi che, ovunque sia, non sarà solo.

 

 

MIA MADRE ORA

Ti ho rubato le carezze che non mi hai dato
ti ho sfiorato il viso con la punta delle dita
avrei voluto sollevarti le ciglia
e vedere il verde dei tuoi occhi
e poi parlarti un poco, magari di stupidate
e sentire ancora la tua mano chiusa
a pugno e leggera sulla mia fronte
seguita dal tuo sorriso, dalla tua voce.
Vorrei non sentirmi come una rosa
di carta stropicciata e non stare lì
dietro una tenda con il tuo respiro
quieto, la domanda non detta:
il mio consenso al tuo contegno
in quell’occasione non ripetibile
e invece stavo insieme al mio niente,
a voci forestiere oltre un paravento.
Nel rigore di ore minuti secondi anni
il tempo ha preso distanza
dal mio sconcerto dolore
l’essere solo nel mio pensiero
ha velato i contorni netti
e nelle sfumature strane in cielo
di una garza bianca scomposta
ritrovo il tuo sorriso incerto
e il brillio di stelle negli occhi.

28 marzo 2019

MIO PADRE - LE BADANTI

Respiro nelle stanze vuote
l’aria assente del tuo andare,
accanto ho il tuo cane
con una foglia in bocca
la coda a mulinello, il muso
umido contro il mio viso.
Avevi accanto polacche amorose,
attente al tuo cibo e al tuo vestire,
anche al pasto del tuo cane
che sta lì a guardare me
e le tue ciabatte dimenticate
sotto il letto rifatto.
Si è fatto sera e stanno veli
di nuvole sospesi sulla luna
ancora piccola, sbiancata
nel cielo preludio di stelle
e di notti dai sogni bianchi.
Al parco la musica sfiora
le foglie di alberi senza tempo
e gli occhi persi di una donna,
una monna lisa nostrana.
Le ucraine le stanno intorno
a cerchio, e battono i piedi
al ritmo di nostalgie nascoste.

ME LO HA DETTO COSì

Me lo ha detto così
davanti al portone di casa.
Auto di fretta, gatto che guarda.
Me lo ha detto così
con il sorriso d’ogni giorno
come fosse una cosa normale.
 
“Non ricordo le cose.
Non so cosa faccio.
Non capisco dove sono.
Ho la testa confusa
ho dentro un tremore
ho dentro un timore.”
 
I capelli freschi di parrucchiere
un grigio confuso d’azzurro
la dignità quotidiana
la solitudine improvvisa
gli affetti mancati di colpo.
Non riesco a parlarle.
 
“Posso esserle d’aiuto?”
Una piccola carezza sul viso
Tutto molto formale, non avrei voluto,
lei capisce e dice grazie
e mi regala un sorriso dolce.
“Sta arrivando il taxi.”
Sale con lei la straniera distratta.
Le stringe la mano.
Non si volta indietro.

INNAMORATI

Uno sguardo furtivo dietro
le persiane chiuse e l’attesa
di te, salivi la collina
inciampavi nei ciottoli
non ti fermavi, non guardavi
la testa china giravi appena
un labiale accennato.
Proseguivi lungo il sentiero
sbirciavi il cielo, la nuvola
che diventare nera e il vento
giocava a mulinello
coi tuoi capelli neri.
Ti seguivo poco dopo
la porta chiusa alle spalle
le mani alzate a legare
il fazzoletto sotto il mento.
Meta la piccola chiesa.
Mi aspettavi più in là
all’ombra del castagno.
Seduti accanto sulla panchina
guardavamo il monte
e poi noi nascosti
dagli sterpi del bosco.

SENZA SONNO

Sono come una lampadina in esaurimento
o mal funzionante
i pensieri notturni, ricordi a intermittenza
lampi, alternanza di luce e di buio
sorrisi al nulla e ciglia forse umide.
Passi strascicati al piano di sopra.
L’acqua che scorre a quello di sotto.
Un soffio sconosciuto che scivola via.
Torna un silenzio di bosco quieto
dove dormono anche gufi e civette.
Nell’oscuro che sta fuori il niente,
dentro una lampada accesa
un libro che scivola sul pavimento.
Forse le stelle sono già spente
nell’alba che avanza in estensione.
 
I pensieri dolenti se ne sono andati.

INIZIA IL GIORNO

Falce di luna eterea, sottile nell’albore
di un’alba di primo mattino
sopra i tetti delle case appesa al cielo.
Un pallido azzurro solcato
dalla treccia di un aeroplano tinta
di rosa, il pudore di una guancia timida.
Sotto i tetti delle case la gente esce
da portoni insonnoliti
e davanti al supermercato
il rumore molesto parcheggiato
il furgone dell’alimentazione.
Le panchine dove siedono i vecchi,
quando la calura è la sola compagnia,
ora sono vestite solo di brina
imbronciata in attesa di un raggio
di sole, anche modesto
ma bastante a scaldarsi presto.

UNA CUCINA RIFUGIO

Mani distanti stamattina
sul tavolo bianco di cucina
opaco tintinnare di cucchiaini
svapora lento l'aroma di caffè.
La mia cucina da sempre luogo di parole
sussurrate, arrabbiate, dolci, tristi,
spalmate di sorrisi, abbracci, baci,
e tovagliette americane per colazione.
I piatti del mondo sui pensili disposti,
carezzano del frigorifero le pareti
e magneti di ogni dimensione.
Piccoli gufi curiosi dipinti d'azzurro
sparsi sulle tende, tre mattonelle
con sole e luna gialli e blu.
La cucina, tre traslochi poi la pensione,
cassaforte dei miei ricordi rimasti qui.
A tutti chiedevo chi voleva
i miei pensili, le basi, il tavolo,
il forno per la casa di campagna.
Contenitori condominiali residenti
nelle cantine con seggiole,
cuscini e cianfrusaglie.
I miei ricordi non li ho dati via
tu non c'eri – dico adagio
a quella mano un po' ritrosa
che stringe forte la mia. Sussurra
grazie zia di tenermi compagnia.

ROVERETO

Il suono arriva a sorpresa
a rompere clic compulsivi
macchine fotografiche nell'aria
umida di pioggia ancora sospesa.
Un gruppo di turisti spensierati.
La campana dondola avanti
e indietro senza sosta.
Ora sono tutti fermi, ascoltano,
ascoltano con occhi spalancati.
Pudore di lacrime in bilico sulle ciglia,
immobili le persone, solo la campana
dondola verso noi e verso valle
dove si stende la città di mezzogiorno
muta di fronte all'immagine
di lontani soldati ritornati.
ventimila o poco più
Hanno lasciano i loro sudari e il buio
e qui, sotto un tempo di pioggia
respirano i loro anni perduti.
 
A Rovereto la campana della pace in memoria dei caduti di tutte le guerre.
Fusa con il bronzo dei cannoni delle nazioni partecipanti alla Prima guerra mondiale, è la campana più grande del mondo che suoni a distesa. Ogni sera al tramonto i suoi cento rintocchi sono un monito di pace universale.

IL SOLE IN TASCA

Vorrei portare il sole in tasca
e fermare il suo calore
per scaldare il mondo
i cuori glaciali tutto in tondo.
Vorrei accendere amori profumati,
scaldare il cuore dei bambini,
i sorrisi e i loro sogni alati,
Vorrei togliere dalle mie tasche
un piccolo raggio dorato
e donarlo a quel soldato piegato
per dolore e compassione.
Vorrei portar il sole in tasca
ogni volta che esco di casa
e darne un poco alla gente
che incontro per strada.
Vorrei darne un poco ad ognuno
come si fa per il dentino perso
in ogni terra in ogni luogo
in ogni tempo e in ogni stagione.

QUADRIFOGLIO

Un quadrifoglio nel prato
stava lì forse ad aspettare
la tua mano che me l'ha donato
accanto un altro e un altro ancora
ti ho guardato, il prato si è spostato
lontano nel tempo e nel luogo,
sulle rive del Danubio tanti
ne raccogliemmo da scambiarceli
gli uni con gli altro come un gioco
li raccogliemmo con gridolini
di gioia e d'amore per il dono
scambiato, la fortuna augurata
chissà ora mi chiedo con nostalgia
in questa erba di periferia
se la fortuna è arrivata
mi chiedo se l'abbiamo riconosciuta.

RACCONTAMI UNA STORIA...

Arrivava a passo di carica, come fosse in ritardo ad un appuntamento. E forse tale doveva essere, almeno per lei visto che abbandonava i suoi giochi di botto, compresa la bambola preferita. Si fermava poi davanti a me, di botto come allo stop di un semaforo. Braccia tese lungo i fianchi, mento leggermente volto verso l’alto, occhi seri, voce che non ammetteva replica. Una specie di immutabile rituale.
Nemmeno oggi manca a questa specie di appuntamento, così alzo gli occhi dal cruciverba che da ieri non riesco a terminare. Potrei chiedere aiuto a mio marito, magari attraverso un sms whatsapp che costa niente, ma non so in quale galassia sia andato a finire. Ha dimenticato di dirmelo: una partenza improvvisa che ancora non riesco a metabolizzare.
Sofia attira la mia attenzione pestando impaziente il piede destro. L’avrà visto fare in televisione suppongo, se non altro per non incolpare le maestre della materna che sono deliziose, o la sua mamma che è mia cognata, e mio fratello che è suo padre, sempre un po’ scontroso e pure distratto, qualunque cosa gli si chieda.
La guardo in silenzio, imponendomi di assumere un’aria quieta, ben determinata a non rendermi oggetto delle sue imperiose necessità. Cinque anni e pienamente calata nel suo ruolo di principessa della casa.
Lei si stropiccia gli occhi. Vorrei chiederle se ha sonno, se vuole fare un riposino sulla poltrona reclinabile, ultimo acquisto del suo papà. Non lo faccio e nemmeno smetto di guardarla.
“Raccontami una storia!”
“E...”
“Per piacere zia. Ti prego zia!” e mi regala uno dei suoi sorrisi ammalianti.
Penso a quando sarà grande, a come riuscirà a girarsi le persone sopra un dito!
“Una nuova?”
“No, quella di Ermenegildo Bentivegna. Quella che lui va a prendere i pesci per la nonna che è rimasta sola!”
Raccontare ad un bambino una storia inventata di sana pianta, ma ripetuta più volte, significa almeno per me perdere dei ‘pezzi’.
Significa che Sofia, come la maggior parte dei bambini, è sempre lì, pronta a puntarti il dito contro per segnalarti la dimenticanza o per dirti che ‘ieri non hai detto così’.
Deliziosamente petulante e generosa nei suoi abbracci ora così necessari per me.
“Resti in piedi?”
“Nooo! Vengo sulle tue ginocchia.”
Inizio la storia di questo bambino dai capelli rossi e il viso pieno di lentiggini, buono come il pane, con un sorellina capricciosa che gli sta sempre appiccicata addosso disubbidendo in continuazione fino a cacciarsi nei guai.
Storie forse non tanto originali le mie, ma a sua madre, agli altri miei nipoti, ai figli delle mie amiche piacciono moltissimo e, pure loro, mi correggerebbero anche le virgole se, a cinque anni come Sofia, ne conoscessero il significato.
Lei cerca una posizione comoda sulle mia ginocchia e mi avvolge in un tenero abbraccio mentre appoggia la testa nell’incavo della mia spalla destra.
È la sua posizione di riposo, di quando è stanca e le basta muovere la testa appena un niente per nascondersi alla luce e dormire. Racconto la storia, abbassando la voce poco per volta, continuando anche quando il suo respiro sembra farsi più leggero, distratto a momenti da un lieve russare.
“È raffreddata e ha qualche linea di febbre. – mi ha detto mia cognata – Tua madre ha un appuntamento che non può spostare, e io... beh...?”
“Hai un lavoro da finire...” concludo per lei.
Abitiamo a poca distanza l’una dall’altra, ho preso un periodo di congedo, non ho granché da fare. Non ho ancora ripreso in mano la mia vita, fatico a stare in mezzo alla gente e lo spazio vuoto, che ha lasciato mio marito, sembra dilatare invece che rimpicciolire. Certe volte vorrei tornare bambina come Sofia, quando c’era mia nonna a prendersi cura di me. Mia madre lavorava nei campi con papà e il nonno, lei stava a casa per le faccende domestiche e per ‘tenermi d’occhio’. Non mi raccontava le favole, ma mi portava con sé ovunque andasse e mi spiegava la vita delle piante, degli insetti, degli uccelli.
Pensieri che frantumano di tanto in tanto la storia che sto raccontando, ma Sofia si è addormentata. La copro con un plaid leggero. Mi muovo adagio per non svegliarla. Poi l’abbraccio stretta e resto lì. Al piano di sopra mia cognata parla al telefono con suo marito e, dopo, mi pare con un cliente; deve essere l’autore di quell’articolo che lei non riesce a terminare; manca sempre qualcosa: un’immagine esplicativa, un disegno fatto male, una nota bibliografica poco chiara. Mia cognata ha preso a raccontarmi del suo lavoro con dovizia di particolari, mi chiede consigli. Lo fa con serenità come se nulla fosse successo. Come se tutto fosse come prima. Vorrei non essere così rattrappita dentro, vorrei raccontarle di come mi sento, di come vorrei tornare bambina e ascoltare mia nonna che mi spiegava i cicli delle piante e, insieme, quelle della vita. Quelle erano le mie favole, piene di saggezza e di buon senso. Chiudo gli occhi e nonna Maria mi viene incontro negli ultimi anni della sua vita, quando erano figli e nipoti a prendersi cura di lei come fosse tornata bambina e tutti dicevano che era troppo presto perché le succedesse quella cosa che sbriciola il cervello facendolo funzionare a sprazzi.
Ci eravamo trasferiti a casa dei nonni dopo la mia nascita. I miei fratelli erano già grandicelli; con loro mia madre era riuscita a barcamenarsi con l’aiuto di una vicina di casa, a sua volta madre di due maschietti. Poi il podere dove abitavamo era stato venduto e, da lì, la soluzione di trasferirci dai nonni materni, oramai rimasti soli. Era sembrata la decisione migliore.
Eravamo una bella famiglia, sereni con quello che ci dava la terra, in armonia con le altre famiglie di contadini che abitavano nelle case sparse intorno al paese.
Mi sembrava di avere due mamme e due papà, poi c’erano i miei fratelli.
Non mi è mai mancato nulla fino a quando non sono iniziati gli inevitabili vuoti che la vita ti riserva. I fratelli sposati con cambio di abitazione e di lavoro. Io in un paese lontano con l’amore della mia vita.
Mia nonna è sempre stata il mio punto di riferimento più importante, il mio ponte, la mia sicurezza. Anche mio marito le era molto affezionato; l’abbracciava stretta, lei si schermiva: non era abituata agli abbracci, non usava. Marco le toglieva con delicatezza il fazzoletto che portava sempre in testa, anche quando andava a dormire, rigorosamente allacciato sotto il mento. Lei mi guardava e diceva:
“Digli di smetterla!”
Chissà se mi sono resa pienamente conto che quella è stata la mia felicità, unica e assoluta! Eravamo così uniti che dolori, fatiche e preoccupazione venivano percepite come fossero passate attraverso un filtro. Chissà se mai mi sono resa conto che quel filtro eravamo noi stessi. Condividevamo le nostre vite e il nonno faceva da paciere quando c’erano malintesi o screzi. Ed era sempre lui che metteva il suo imprimatur nelle decisioni prese. Una specie di timbro di ceralacca con il sigillo del suo sapere e della sua saggezza. Una malattia lo ha consumato e poi portato via quando ancora era nel vigore degli anni. La nonna ha continuato a camminare con la schiena dritta.
“A volte mi viene voglia di piangere!” mi aveva detto piano un giorno, girandosi poi in fretta perché non vedessi nemmeno gli occhi lucidi, figuriamoci le lacrime.
“Io sono qui nonna. Siamo tutti qui.”
Non aveva risposto, solo un brusco movimento di spalle all’indietro. Il mio ponte ancora una volta non aveva vacillato. I giorni continuavano a scorrere senza che la sua ironia, quella che ci faceva ridere anche se avevamo voglia di piangere, venisse mai meno.
Arrivò anche per lei il tempo di tornare un poco bambina, e quel ‘troppo presto perché la sua mente svanisca’ risuonò sempre più di frequente in casa nostra. Mia madre continuò, nelle occasioni speciali e nelle feste importanti, a riunirci attorno alla tavola imbandita salvo poi lamentarsi di tutta quella fatica e dei vassoi che ci preparava perché li portassimo nelle nostre case. Mia nonna non poteva più aiutarla; nei momenti di lucidità, diventati sempre più rari nel tempo, era la prima a farsi gioco dei suoi acciacchi. Quando si rovesciò addosso una pentola di brodo bollente, urtandola mentre passava troppo vicino ai fornelli e restando in prognosi riservata per parecchio tempo, raccontava la sua disavventura a tutti quasi divertita; mostrava con orgoglio le sue gambe ‘piene di pezze’, un po’ come quelle che, fino a quando era stata capace, aveva cucito nei pantaloni del nonno e negli abiti che indossava per casa. Erano ritagli di abiti ormai smessi; sul suo corpo, pancia e gambe, erano quadratini di pelle trapiantati. Fu l’inizio degli anni in cui la cura di sé divenne indispensabile e in cui doveva alimentarsi con cibi semplici. Quelli poveri li aveva sperimentati per almeno la prima metà della sua vita.
“Mi ‘peli’ il formaggino?” mi chiedeva ogni volta che capitavo lì e, per accontentare lei e i miei genitori, mi fermavo per pranzo o per cena. Erano formaggini tondi, avvolti nella carta stagnola, di quelli che si danno ai bambini e magari si schiaccino nella minestrina in brodo dei bambini piccoli. Lei sorrideva, con la bocca e con gli occhi.
A Natale era festa anche per la nonna: mia madre le metteva nel piatto tre cappelletti rigorosamente cotti nel brodo di cappone e punta di petto.
Li mangiava adagio, mormorando di tanto in tanto, quanto fossero buoni.
Si trincerava sempre più spesso nel suo limbo, mi chiedeva chi fossi per dirmi, magari subito dopo, quanto fosse contenta che non mi ero dimenticata di lei.
Poi un giorno si è rattrappita su se stessa, non ha più voluto né mangiare né parlare.
All’ospedale si è girata da un lato e non si è più mossa.
Mi manca e vorrei che fosse qui, vorrei chiamarla.
Forse sono i polpastrelli delle sue dita quelli che sfiorano, avanti e indietro, le mie guance. Il dito che preme sulle mie ciglia non può essere il suo: troppo piccolo.
“Zia, perché piangi? Ci sono io con te.”
Ho pensato, ho sognato. Un sogno che è un rivissuto con il dolore immenso che è rimasto chiuso, aggrovigliato e aggrappato dentro, nel cuore e nell’anima.
Mia cognata e la bambina sono lì. Mia cognata non parla.
“Credevo non ti svegliassi più come lo zio Marco!”
Di comune accordo le abbiamo detto che lo zio si era dimenticato di svegliarsi, così era rimasto in cielo, magari avvolto da una nuvola.
Su quell’aereo mio marito era salito per sostituire un collega di lavoro; a destinazione non era mai arrivato perché l’aereo era caduto prima.
“Zia raccontami una storia nuova! Ne voglio una con lo zio che va dalla nonna con l’aeroplano.” Mi irrigidisco.
“Si vede che nessuno le toglieva il fazzoletto dalla testa e lei non si divertiva più. Così lo zio è volato da lei.” Conclude guardandomi nella speranza di un complimento.
“È una bambina ricca di fantasia.” dice piano mia cognata.
“Ti racconterò la storia, piccolina! Domani però. Ora si è fatto tardi e devo tornare a casa.”
Le sorrido.
Forse Marco sta davvero lassù, sta con mia nonna, magari le toglierà davvero il fazzoletto dalla testa, magari...
Sofia mi abbraccia.
“Davvero domani tornerai ancora? Che bello! La mamma ha detto che così ti aiutiamo a stare meglio!”
La sincerità dei bambini: così schietta da fare male, ma così vera e inconfutabile!
Sì, Sofia, tornerò domani e il giorno dopo ancora, tornerò e ti racconterò di Marco cercando di convincermi che, ovunque sia, non sarà solo.

LORO BALLANO ANCORA€¦

Giornali e Tv a loro dedicano, da anni, attenzioni sempre più frequenti analizzando i vari aspetti del fenomeno; qualcuno definisce patetici questo esercito di ultrasessantenni che dedica alle sale da ballo una discreta fetta del proprio tempo libero. Sì, una fetta come fosse la porzione di una torta da gustare in tutta la sua squisitezza. Altri li invidiano con discrezione, magari mascherandosi dietro un “non so ballare” oppure “mio marito non sa ballare”. Con cautela, un’amica in presenza di settici mi ha detto: “Bello, c’è la musica che mette allegria, poi i balli di gruppo sono una ginnastica che fa bene alla salute.”
Anch’io dedico una fetta del mio tempo al ballo, ma non faccio balli di gruppo! Non è nelle mie corde. La musica è un sottofondo armonioso per quando scrivo, una sorta di spirito guida che muove la mia fantasia, mi fa giocare con le parole, indirizza la regia della mia storia.
Nelle sale da ballo la musica muove i miei passi. A parte i classici imparati nelle balere in tempi molto lontani, tutto il resto è fantasia e senso del ritmo. Ballo sempre con la stessa persona per affinità e perché ha imparato a gestire un handicap con cui continuo a convivere.
La sala dove andiamo abitualmente, è sempre al completo di “ patetici anziani” che non mollano la pista. E, sì, un paio di anni fa è venuta la TV a intervistare questo mondo variegato, divertito e divertente. Ci sono gli habitué, ognuno con il proprio stile e il proprio abbigliamento: c’è un signore piccolino, di età indecifrabile e di temperamento vivace che, quando suonano il charleston a ritmo di mambo, salta e si sbraccia come un grillo con il prurito da invasione di pulci. La sua compagna di ballo, minuta ma ben pasciuta, fa del suo meglio ma se la cava. Poi c’è la signora piccola e minuta che non ride mai. Fisico da modella, pancia in dentro, doverosamente con gli occhiali grandi, stretta nei leggings. Oggi li ha bianchi, sopra un top fantasia. Le bretelline sono quelle del reggiseno; ne ho conferma quando si siede e la vedo di spalle con il bordo del top leggermente calato. Balla stretta, appagata, al suo compagno; lui si vede da lontano che è un po’ sparuto di capelli e tutto il resto, di lei ci si accorge solo quando i faretti, feroci e impietosi, fanno la spia. Le signore più o meno della mia età, viste a distanza, sembrano molto giovani con il loro vestiti “sciolti”, massimo da quarantenni. Poi la luce impietosa dei faretti, quando gli passi sotto, mostra i volti in tutta crudezza. Le rughe appaiono più profonde e scure, gli occhi sembrano quelli dei cinesi rovesciati, cioè con la piega in giù. Molto all’ingiù. Alcune hanno un aspetto matronale, indossano gonne lunghe, magari a fantasia con il top che stringe troppo: quasi di sicuro sono badanti nel loro giorno di libertà. Gli uomini, ora che il caldo si fa sentire, indossano tshirt nera e pantaloni dello stesso colore oppure “braghe” bianche e camicie a mezza manica.
Ci sono le mamme che ballano con i figli sfortunati e non mancano immemori penombre clandestine che ballano su una mattonella accanto ad altre lanciatissime nel liscio/filuzzi, balli sudamericani, rock e boogie. Se per caso li urti, ti guardano come se ti dovessero infilzare come uno spiedino.
C’è posto per tutti e quando la pista è riservata ai balli di gruppo, resta un piccolo spazio per chi balla in coppia.
Una umanità di cui il mondo che sta fuori sa poco o nulla: quando appartenevano all’età non pensionistica forse erano insegnanti o casalinghe, operai o dirigenti, vigili urbani o ambulanti. Oppure oltre al ballo coltivano altre passioni, forse più culturali e non sempre altrettanto divertenti. Persone che hanno magari accumulato temporali, superati oppure no. E allora l’abbraccio sopravvissuto li mantiene vivi anche se con quell’eccesso di finta giovinezza che li rende patetici agli occhi di qualcuno. Forse occorrerebbe maggiore generosità e comprensione verso questi ultrasessantenni che “fanno ginnastica” in pista e non al chiuso di una palestra. Loro sanno benissimo che gli anni che hanno davanti sono di molto inferiori a quelli che hanno lasciato alle spalle; in quel tempo che resta ancora loro ballano i giorni e le ore secondo il loro gradimento. In questo mondo così difficile pieno di guerre mondiali e quotidiane nel chiuso delle case, a modo loro si divertono, staccano la spina, colgono piccole cose trascurate nel periodo “lavorativo”, non si immalinconiscono seduti da soli sulle panchine di un parco vuoto.

SEDUTI IN QUEL CAFF耦

Sono uscita di casa strisciando contro i muri della scala. Sono uscita come una ladra da casa nostra, ora solo mia. L’auto è lì, diligentemente parcheggiata. Devo stare attenta ad uscire dal garage, non devo fare errori. A chi potrei chiedere aiuto?
Vado al mare, la mia prima reazione alla mia nuova situazione.
Il traffico in autostrada è scarso, il cielo è in parte coperto da nuvole foriere di pioggia.
Al casello mi accorgo di avere pochissimi soldi con me. Il bancomat l’ho dimenticato. Lui non mi può aiutare, il sedile al mio fianco è vuoto.
Accendo la radio, musica anni sessanta. La nostra canzone.
“Seduto in quel caffè io non pensavo a te…”
Erano anni che non l’ascoltavamo più, presi da tutt’altre cose. E con gli anni, tanti, era trascorsa ormai la freschezza del nostro amore grande. Appesantita dagli impegni di lavoro, dai figli prima e dai nipoti poi.
La spiaggia è quasi deserta, le onde del mare sono alte, quasi grigie nel grigio più profondo dell’acqua. Gli ombrelloni sono chiusi. Il bagnino mi fa un cenno e si ritira dietro il bancone del bar. Forse si starà chiedendo dove è lui.
Non sono più sicura che sia stata una buona idea venire qui oggi. Però è necessario che segua questi impulsi di vita che reclama di potere andare avanti.
Osservo il cielo incerta.
Si è alzato un vento sgarbato che solleva sabbia.
“Le preparo un lettino, qui, dietro i vetri. Starà meglio, il vento lo sentirà di meno e non avrà sabbia negli occhi.”
Non mi ha chiesto se volevo, se mi andava bene la sua proposta. Il bagnino e le sue gentilezze di cui ora gli sono grata più che mai.
“Forse mi conviene tornare indietro…”
“Aspetti che passi la burrasca, lo farà dopo se vuole!”
Il temporale arriva violento con la grandine che batte infuriata contro i vetri.
Appena smette torno a casa. Non posso prendere l’autostrada, sono quasi senza soldi.
Il navigatore! Dimenticato a casa pure quello. Percorro strade che conosco poco. C’è una segnaletica discreta. Concentrata al massimo, faccio attenzione ai limiti di velocità ma, soprattutto, alle indicazioni stradali. Il sole: ovest – sud – ovest. Direzione giusta, da non perdere di vista.
Radio. Di nuovo quella canzone:
“Il buio ci trovò vicini un ristorante e poi…”
Note lontane nel tempo, il mio tempo del correre verso la vita e tutto ciò che essa mi poteva offrire. Studiare mi piaceva, ma anche uscire con qual ragazzo della Facoltà di architettura conosciuto per caso. Appoggiata ad una spalletta di un ponte, non ricordo quale, scribacchiavo una delle mie storie. I libri appoggiati per terra e tenuti fermi con i piedi, mi guardavo intorno di tanto in tanto, per il resto immersa in ciò che stavo costruendo.
Di lui non mi accorsi fino a quando la sua faccia per poco non sfiorò la mia per sbirciare i mie appunti.
“Io scrivo poesie e tu?
Lo avevo fissavo a bocca aperta. Non mi veniva nulla da dire a quel sorriso così accattivante. Lui taceva e non smise di guardarmi nemmeno quando tolse un minuscolo foglietto dal taschino della camicia e me lo porse.
“L’ho scritto pochi minuti fa, ti guardavo dall’altra parte del ponte e…, beh, non è che si incontra tutti i giorni una ragazza che scrive appoggiata alla spalletta di un ponte con i libri tra i piedi. Possono cadere giù!”
Mi chinai a raccoglierli urtandoli. Solo la sua sveltezza evitò che volassero in Arno. Parlammo di non ricordo cosa. Fiumi di parole. Eravamo inarrestabili.
Ero a Firenze da pochi mesi, non conoscevo nessuno e, guarda un po’, di punto in bianco ti trovo un poeta che mi dedica poesie.
“Ti porto in un luogo magico! Dai vieni con me!”
Mi portò alle “Giubbe Rosse” e non smettemmo mai di parlare. Conoscevo il posto ma non ero mai entrata, così, per quel senso di inadeguatezza che di tanto in tanto mi coglie senza una ragione precisa. Una ragazzina o poco più che ci poteva fare là dentro?
E invece ci scoprii il mondo.
Piazza della Repubblica era un incanto, magia pura per noi.
In quel caffè magico, uno dei ritrovi principali di artisti e letterati del novecento. Marco mi raccontò che aveva ospitato anche vincitori di premi Nobel, le pareti ne erano una testimonianza. Mi raccontò pure delle cene d’arte a cui aveva partecipato. Mi aggregai a lui e ai suoi amici.
A primavera già ci sedevamo fuori, nella pedana esterna. Imparai anch’io a declamare con loro. Poi la vita ci portò altrove. E anche quella nostra canzone finì in disparte, ritornata a galla ora, nel mio momento di massima solitudine.
Mi fa bene stare qui, ricordare mentre ascolto la nostra canzone.
A Firenze vado in treno. Questa volta ho soldi, bancomat e cellulare. Anche una cartina della città.
Arrivo in fretta in Piazza della Repubblica. Il mitico caffè delle “Giubbe Rosse” sembra corrermi incontro. Sulla pedana esterna seggiole e avventori come un tempo. Sembrano sorridermi.
Ho prenotato per due, ho chiesto per cortesia quel certo tavolo d’angolo, ci tenevo molto. Me lo hanno riservato con tanto di biglietto con sopra scritto i nostri nomi.
Osservo i due coperti, tutto preparato con cura, Mi verrebbe da dire che non è cambiato nulla da allora, ma non è così.
Il cameriere mi osserva di sottecchi. Non si muove fino a quando non gli faccio un cenno. Ordino per due. Mi chiede se voglio aspettare ancora un poco. Rispondo no, sarebbe stato inutile. Mi guarda sorpreso. Evito di guardarlo.
Metto al collo il mio Mp3 e le cuffie alle orecchie. Cerco la mia canzone:
Seduti in quel caffè…
Mangio adagio, una forchettata dal mio piatto e una da quello di fronte. Parlo con il mio invisibile commensale. Meglio dire che rispondo alle sue domande immaginarie. Mica tanto! Sono le stesse di quando ci sedemmo qui la prima volta.
Sorrido, rido. La canzone veniva da fuori. Decidemmo che sarebbe stata nostra.
Lo è stata per quarantasei anni. Poi se ne è andato senza salutarmi. Sembrava dormisse e sorrideva.

LE ROSE DI CARTA

Una pomeriggio dove il sole sembrava abbracciare la villa e le persone che si aggiravano curiose tra banchetti, sistemati negli angoli ombreggiati del parco.
Sandra tentennò un momento prima di varcare il cancello. Si chiese cosa fosse venuta a fare lì dove non avrebbe incontrato alcuna persona conosciuta. Erano passati troppi anni, chi mai poteva ricordarsi di lei?
Si girò, decisa a tornare al fresco delle stanze di casa sua. Invece si trovò a percorrere il vialetto ghiaioso, gli occhi volti al grande balcone dove palloncini e festoni dondolavano festosi, mossi da improvvisi aliti di brezza.
Girellò tra i banchetti osservando gli oggetti realizzati dai volontari: graziose bambole di pezza, tovaglioli ricamati a mano, bicchieri dipinti, piccoli animaletti intagliati nel legno.
Più in là, una ragazza la invitò ad assaggiare le marmellate fatte in casa. Era molto giovane e con tanta voglia di vendere qualche vasetto. Sandra afferrò con decisione un cucchiaino di plastica posto accanto ai piattini con gli assaggi; gustò prima la marmellata di arance, squisita, poi quella di more, deliziosa, e dopo quella di albicocca, divina! Sorrise alla ragazza che cominciò ad illustrarle, depliant alla mano, tutte le iniziative della associazione. Avrebbe voluto fermarla, dirle che era una socia di vecchia data. Ascoltò invece con attenzione, accettò la copia della rivista, che riceveva già in abbonamento, e aggiunse:
“Un solo vasetto non mi basta. Troppo buone! Ne prendo uno per ogni gusto!”
La ragazza si illuminò come una lampadina. Le sorrise con simpatia.
Pagò, prese la busta con gli acquisti e proseguì adagio, osservando, chiedendo prezzi, guardandosi in giro. No, non conosceva proprio nessuno.
A pensarci bene, non erano poi tanti gli anni trascorsi da quando era lei dietro quei banchetti e in reparto aveva giocato con i bambini dalle testine implumi, ricoverati nell'ospedale dove operava quella associazione; per loro aveva intagliato pesciolini di cartoncino colorato, aveva realizzato pupazzetti, aeroplani, bambolotti. Aveva imparato a confrontarsi con i ragazzi più grandi sfidandoli nei giochi di società, raccontando come erano i suoi giochi di bambina, i divertimenti da ragazzina. Si fermava ad ascoltare le mamme e i papà che raccontavano delle case affidate, assieme agli altri figli, a nonni o zii. L'Italia a volte da attraversare: lunghi viaggi, infiniti.
Per loro realizzava mazzolini di rose di carta. Boccioli dai petali leggermente incurvati, la carta crespa duttile sotto le sue dita veloci. Tre roselline avvolte in un fazzolettino piegato a triangolo poi arricchito con abbondante nastro colorato. Sorrise di nuovo alzando gli occhi verso la grande magnolia sotto la quale giocavano alcuni bambini. E da loro si diresse.
La donna le venne incontro. Aveva un viso vagamente famigliare, forse una volontaria, ma chi? Si fermò davanti a quelle braccia spalancate. Una donna minuta invecchiata più dai patimenti che dagli anni.
“Sandra, le fai ancora le rose!”
Rabbrividì. Era proprio lei, la mamma di Federico, il bambino che, guarito, prima di partire definitivamente per la sua Sicilia, era rimasto ad aspettarla, vestito di tutto punto. Voleva un mazzolino di rose da portare in chiesa in ricordo del suo amico Matteo volato via, poi uno per la nonna che si era occupato dei suoi fratelli.
“Ti devo dire una cosa, solo a te!”
Sandra si era chinata, il riso negli occhi e la voglia di abbracciarlo stretto:
“Dimmi, piccolo ometto!”
Lui le si era avvicinato all'orecchio appoggiandovi le mani a coppa:
“Poi uno, il più bello però, per la mia mamma.”
Sorrise e si commosse un poco mentre si lasciava abbracciare dalla sua mamma minuta che gli raccontava del suo “ometto” e della ragazzina che gli piaceva tanto.
I suoi anni di volontariato erano lì, in quell'abbraccio storto, nei ricordi colorati e doloranti, ma pieni di una ricchezza che mai da nessun'altra parte avrebbe potuto ricevere.

PATè DI TROTE

Il pesce sembrò riprendere nuovamente vita nel momento stesso in cui il coltello lo colpì con forza. Per un istante l'occhio vitreo riflesse un incredulo stupore. Non quello di essere pescato. No, quello no. I pesci lo sanno che può succedere di finire nella padella di qualcuno. E' che quando arriva il momento uno non se lo aspetta e neanche loro. Di nuovo la lama tagliò l'aria e dopo la coda anche la testa volò via. Se gli occhi persero il loro stupore Laura non lo seppe. Non li guardò.
“Fetente!” Il coltello calò ancora trinciando la trota in due pezzi. L'appellativo non era rivolto al pesce. Non c'era ragione del resto. Il fumetto sulla testa visualizzava chiaramente la faccia di un bel ragazzo. Entrambi inquilini dello stesso palazzo, Laura al secondo e Gianluca al quinto piano, la loro conoscenza più o meno burrascosa risaliva ai tempi dell'asilo. Poi erano cresciuti e Laura, attraverso lo spioncino, la faccia premuta contro la porta blindata, lo guardava salire le scale di corsa fino a quando anche l'ultimo pezzo di tallone scompariva alla sua vista.
Poi aveva capito che quel suo chiamarla sempre “sardella vestita” non era esattamente un complimento e aveva lasciato perdere, anzi aveva iniziato a veleggiare verso altri lidi. Per la verità senza molto successo, ma con le baldanzose certezze dei suoi giovani anni.
I frammenti di trota continuavano ad aumentare e, quando Laura sembrò accorgersi che non era il ragù che doveva fare, posò il coltello guardandosi intorno sconsolata. La fronte appoggiata ai pensili blu della cucina, concesse a due lacrime di rigarle le guance.
“Trito di trota al forno!” disse ai muri e al silenzio. Mamma certamente non sarebbe stata d'accordo! Il coltello si agitò pericolosamente tra le sue mani.
“Ha pure il cellulare spento quell'essere immondo!”
Il risultato di una muta riflessione fu che immondo non lo era per niente e si lasciò cullare da una cupa infelicità. Al diavolo la trota. Fuori, ecco doveva uscire! Furiosamente prese a pigiare i tasti del telefono per scoprire indignata di quanti impegni fossero piene le sue amiche.
 
Non si è neppure accorta che sono rientrata. La osservo: i capelli che spiovono su un occhio, un raggio di sole che gioca su quella massa di seta, mani nervose intente a fare un paté di trota. Conosco la cupa malinconia che invade la sua faccia, la stessa che ho vissuto io quando avevo i suoi anni.
Di Gianluca abbiamo spesso sorriso, mio marito ed io. Le volte in cui, in campeggio, Laura irrompeva nella sua canadese quando il tempo degli abbracci infantili era ormai terminato. Lui urlava come un invasato per la sua privacy violata. Lei veniva a raccontarmi che stava con una scema, degna di lui che non capiva niente. Poi in piscina lo tallonava, lo tormentava, lo sequestrava. E lui vegliava su di lei come un fratello maggiore. Noi stavamo tranquilli tanto: “Laura è con Gianluca!”
Poi quei languori, l'aria assente e le corse ad origliare dallo spioncino.
“Perché non vai allo stadio con papà?”
Il berretto con la visiera l'ho acquistato al mercato e anche la sciarpa con i colori della squadra del cuore di Luca. Che non è quella di mio marito.
“Odio il calcio!”
“Luca no!” ribatto lanciandole berretto e sciarpa. Li raccoglie al volo e mi guarda dubbiosa.
“Ha già funzionato una volta!”
Le giro la schiena. Mia figlia, e non solo lei, non ne vuole sapere del mio passato, dei miei tremori, di come eravamo. Scontrosa e inferocita con il mondo intero, quello dei grandi, da un po' di tempo interviene nelle conversazioni di famiglia con mugugni e monosillabi. Mio marito dice che ha le paturnie e tutto finisce lì. Io non ci riesco. Quando siamo in campeggio non mi preoccupo più di tanto; lì i ragazzi vivono in branco e Laura non è mai sola. In città è diverso; con la scusa della scuola tende ad isolarsi, i libri aperti sul tavolo e le fotografie di Gianluca malamente nascoste sotto le copertine.
In non so se mia figlia sia innamorata di Luca e semplicemente dell'amore. Perché le sue coetanee il ragazzo ce l'hanno tutte e lei sembra non capire che questo sentimento non ha scadenze, che non tutti hanno gli stessi tempi, che magari non è il ragazzo della porta accanto ma quello di due isolati più in là. Io non posso dirle queste cose, le mamme vanno bene per gli abbracci consolatori, quasi mai per i consigli di prevenzione! E forse è giusto che loro facciano le proprie esperienze. Però io non posso stare a guardare senza fare niente, anzi noi genitori! Naturalmente l'idea di mandarla allo stadio è stata mia, ma i papà per i loro figli possono rinunciare a tifare per la squadra del cuore. Non sono passati nemmeno due mesi che di nuovo Gianluca è diventato un mollusco cretino, almeno così ha affermato mia figlia al telefono non so con chi. Non faccio domande, berretto e sciarpa hanno cambiato colore ed è sempre conciata che sembra debba impugnare una mazza da baseball da un momento all'altro. Mio marito è tornato a tifare con la squadra del cuore e lei allo stadio va con ragazzi che non sono quelli del campeggio e nemmeno quelli della scuola. Io continuo a stare ai margini del campo zeppa dei miei colori, quelli del cuore, e di abbracci, quella di mamma.
 
Anno 1999

CRESCEVANO I GIAGGIOLI

Crescevano i giaggioli
a sud ovest della casa
più il là le rose
che mia madre coltivava.
Le zampette gialle di polline
le api contendevano
i fiori alle farfalle.
Nel campo il trifoglio in fiore.
Una partita di pallone
giocata in un campetto di fortuna.
Sognavo di andare lontano
senza più miserie e compassione
per un piatto di minestra cotta in fretta.
Non si può tornare indietro
nemmeno nei sogni
e i ricordi sono malati
di nostalgia stanca di essere tale.
 
(06/11/2011)

LA PIUMA

Non è la piuma d’un cuscino
quella che rotola sul pavimento
e mi segue in cucina,
in camera da letto e in corridoio
leggera, ora distesa
ora un minuscolo rotolo
con i colori del sole, una luce
calda che si affaccia da finestra
a finestra mentre gira
attorno ai miri di mattoni rossi
e scalda anche me
che sempre ti cerco
e mi accontenterei anche
d’un abbraccio spezzato.
 
(25 febbraio 2012)

A MIO PADRE

Nel soffocare d'afa di primo mattino
il cielo lattiginoso quasi sbiadito,
mi torna in mente la tua tenda arancione
avanzo di un gommone finito bucato
in riva al mare tra detriti e conchiglie
consunte. Un triangolo d'onde appeso
ad un bastone nodoso come le tue mani
compagno amico delle tue gambe stanche.
Tu, mio padre, sedevi al sole
in canottiera e sandali da frate,
le mani posate sulle ginocchia
il capo canuto piegato in avanti
gli occhi all'ingiù e i pensieri nascosti,
poi andavi sotto la tenda e immaginavi
il mare. Alle spalle il biancore di un muro,
di fronte un frutteto verde e rosa di frutti.

STRADA E FIUME

Nella notte ancora sveglia
l'occhio fisso su fessure di luce blu
dietro il conducente solitario
un'autostrada spoglia del suo traffico,
ascolto la voce della pioggia
nascosta nel buio che s'allenta piano.
Quando il giorno sorge già
la nave aspetta nel fiume di cristallo
nella brezza che avvolge,
tra il verde delle sponde aironi cinerini,
gazzette, folaghe e tuffetti.
La pioggia ora lontana, schiaffo di vento
increspa l'acque che in onda
vanno a riva dai gigli screziati di giallo,
accanto ai pontili e ai pescatori,
alle ville fiorite e come disabitate.
Il conducente è alla guida
accanto al Sile che scorre lento
salgo e mi volto indietro verso il fiume
alla sua magia, alla sua attesa,
alla nave che si culla poi riparte.

NUVOLE NELL'ACQUA

Sono come le onde del torrente
le nuvole che il vento unisce
e dissolve nel terso del cielo.
Scorrono lente come acque,
placide nel tumulto dei pensieri,
accarezzano il greto e il sasso
dove lavavo i panni e li stendevo
sui giunchi dai rami gialli.
Nuvole nell'acqua
in un mondo che non è il mio,
straniera in questa terra
che non può avere nostalgie
del suo paese oltre mare
dove di me è rimasto il nulla.

PROFUMO DI CAFFè

A testa china sulla tazzina di caffè
con ancora il broncio di ieri sera
la fragranza sta nell'aria
accanto al profumo dei gelsomini
fioriti sotto casa nel giardino del vicino.
Poi quel tocco casuale,
o forse un po' cercato,
le punte delle tue dita
la tua mano destra
che tocca la mia sinistra,
le labbra incurvate come ali di farfalla
l'aroma che si scioglie
assieme al malumore.

COME ERAVAMO

Ho faticato a trovarti. Indicazioni schematiche all'ingresso da un custode scorbutico. Ci mettesse un po' di sentimento, almeno! Ma forse si fa l'abitudine a tutto.
La Certosa mi sembra immensa. Ho visto l'angelo grande con il naso corroso dal tempo e un'ala spezzata. Ti ho trovato poco oltre.
Sto qui, con una rosa rossa che non so dove mettere. Vorrei che non avessi sofferto tanto per entrare dentro a quella scatola di bronzo. Vorrei che non mi avessi mai voltato le spalle senza che ci parlassimo.
Si possono racchiudere sedici anni di vita nei pensieri di pochi minuti? Si possono raccontare i tuoi amori, fiammate di mesi se non di giorni che ci hanno divisi? Storie logoranti, la nostra reciproca promessa e passione smarrita.
Giravano tante storie su di te, ma io non volevo ascoltarle.
Maglione nero, collo alla ciclista un po' bohemienne, la sigaretta penzolante tra le labbra, il capello biondo con il riccio sulla fronte, gli occhiali da miope e l'eskimo che ormai non portava più nessuno. E la voce calda e allegra come una luce improvvisamente accesa. Poi ci siamo visti e amati.
Ci sono amori che restano anche se la storia finisce, anche se ci si lascia chissà perché. Questo è successo a me, di te conosco i tuoi rimpianti che altri mi hanno raccontato.
Una calamita, qualcosa che ci attirava l'uno verso l'altra. Questo ricordo del nostro primo incontro: l'emozione violenta che ci fece scappare come due ladri lasciando gli altri sbigottiti.
“È marcio come tutta la sua famiglia!” diceva la gente.
Ma che ne sapevano di te, della tua famiglia medio borghese, delle regole ferree e visioni ristrette, dei rigidi orari di studio imposti da tuo padre che ti voleva ingegnere, dell'abnegazione alla famiglia di tua madre offerta come meritevole di eterna riconoscenza? Che ne sapeva la gente dei tuoi sogni accantonati, del tuo ubbidire cieco alle “regole di casa” e del tuo trasgredire poi con gli amici sull'onda modaiola del momento, dell'eskimo indossato come un simbolo di protesta che non ti era nemmeno troppo chiara. Che ne sapevano della bottiglia, grande o mignon che fosse, compagna immancabile di ogni tua uscita? Che ne sapevano del perché del tuo bere?
Dicevano tante cose di te, dicevano tutto ciò che una brava ragazza dovrebbe ascoltare e poi scappare il più lontano possibile. Forse io non ero una brava ragazza.
Ho continuato ad amarti così com'eri, arrabbiata con la sfrontatezza dei tuoi amici al bar, di una certa giovinezza così diversa dalla mia: per loro bastava che pagassi il conto. E tu pagavi tutto: il conto al bar e quello della tua vita senza binari e senza direzione.
Ci eravamo incontrati ad una festa: tu stavi con una ragazza dai capelli rossi e il viso coperto da lentiggini. Non avevi tolto l'eskimo.
I nostri sguardi incrociati e calamitati.
Uscimmo insieme salutando appena, o forse nemmeno quello, ridacchiando come ragazzini. Il tempo di salire in auto e già eri partito.
La portiera chiusa male si era aperta di colpo. Una frenata brusca, poi l'abbraccio.
“Io non voglio perderti. Aiutami. Non ce la faccio ad uscire da solo. Il tunnel è buio!”
“Ti aiuterò!”
Una disperazione che portavi dentro, quel tuo non stare bene nella tua pelle, ingabbiato in un rigidità famigliare da cui non riuscivi ad uscire. Tu, che ti atteggiavi a contestatore, tu con la tua cultura e la tua voglia di aumentare il sapere eri incapace di usare l'una e l'altro per salvarti dal tuo disagio, dal tuo malessere. Usavi la bottiglia come calmante.
“O stai a galla o affondi!”
“Io non ho il tuo coraggio!”
Di storie ne hai avute tante, fingevo di non capire; io da una parte, dall'altra chi ti ha aiutato ad affondare e, forse, nemmeno se ne è accorto. Dicono che l'alcool è come una droga: annebbia la mente, azzera la volontà, annulla le promesse.
Sto qui con una rosa in mano. Ho visto arrivare lei, la seconda moglie, barcollante di primo mattino.
Vi eravate incontrati e riconosciuti: la bottiglia per affrontare la vita. Tu sei affondato.
Chiudo gli occhi e torno indietro. La rosa mi punge la mano.

A CASA DI AMICI

Cara Mariangela,
l'intenzione era di telefonarti. Approfondire un dialogo rimasto sospeso attraverso un filo, così non devi mostrare le emozioni, quello che gli occhi di noi comuni mortali non nascondono mai fino in fondo. Anche la voce trasmette emozioni, le tradisce se vuoi tenerle nascoste, ma parlarsi senza guardarci in faccia è un'altra cosa.
Tu, assieme a tuo marito e ai tuoi figli, siete stati ospiti straordinari. La tua casa è più che dignitosa, ma non ha nulla a che vedere con l'altra, quella che a distanza di tre anni, è ancora ingabbiata, chiusa tra tubolari e tiranti e, prima ancora, dalle strisce bianche e rosse che precludono l'accesso alla strada. Lì è rimasto il tuo cuore, lì c'è la speranza che al dopo terremoto ci sia una svolta, che i fondi arrivati da ogni parte del mondo e dal cuore delle persone, siano finalmente utilizzati per la ricostruzione e il restauro ove sia necessario.
Ho rivisto, con te e la tua famiglia, la casa dove hai abitato e dove io, studentessa alla tua stessa facoltà, ho convissuto con la tua famiglia amica delle mia da anni.
Le nostre strade si sono divise, io ho cambiato regione per seguire un marito che ora non c'è più. I figli che abbiamo concepito hanno abbandonato da tempo il nido, sono sparsi per il mondo. Hanno, come tutti i figli divenuti adulti, la loro vita.
La mia casa è troppo grande per viverci da sola, ma lì ci sono i passaggi del tempo, ci sono le mie stanze con le voci, gli odori e i sapori che l'hanno riempita anno dopo anno, giorno dopo giorno. Ogni soffio di vento, ogni burrasca, ogni impeto di gioia sta lì e posso assaporare tutto ciò quando voglio, abbandonarmi al riso o al pianto in base a ciò che della mia vita riaffiora attraverso i ricordi, rimbalzati in superficie non so per quale magia o fatto naturale.
Tu questo non lo puoi fare, la tua casa è inagibile e la voce spaventevole del terremoto la senti anche qui, che dovrebbe essere il tuo rifugio, il luogo della rinascita. Ma rinascita non c'è stata e chissà se ci sarà mai.
Era una giornata calda ieri e un sole sfacciato s'incuneava attraverso i muri monchi, attraverso finestre, bocche spalancate come quelle dei dannati raffigurate in certe pitture. Ecco, esistono dannati incolpevoli come le persone che in queste case hanno vissuto, dove le loro cose giacciono abbandonate, dove rischiano di diventare un monumento all'inettitudine di chi avrebbe dovuto provvedere a che ciò non avvenisse mai.
Ho mangiato di gusto il tuo timballo all'aquilana, la sfoglia morbida e sottile, l'impasto di carne macinata, il sugo condito con l'olio extravergine dei frantoi abruzzesi, la mozzarella...
Tutti gli odori e i sapori di sempre, di quando eravamo ragazze piene di sogni e di speranze. In realtà di questi odori e sapori ne manca uno: quello di casa tua, quello che non hai potuto portare con te e che è rimasto là. Mescolato ai mobili ricoperti di polvere, al tuo diario che facevi leggere solo a me, ai vestitini dei tuoi bambini, alle cose di tua madre e di tuo padre che hai voluto conservare.
Sei felice Mariangela cara? Te l'ho chiesto ieri, lungo la strada dove un tempo c'era casa tua. A volte consentono di percorrerla, poi rimettono le transenne.
Ti sei guardata in giro e hai detto: “Sì, in questo momento sì.”
Hai sorriso senza guardare in faccia me e nemmeno tuo marito che pure ha perso qualcuno e qualcosa. Anzi molte cose.
Hai aggiunto che i figli sono grandi e meno male che se erano andati da tempo, persi nel loro mondo tecnologico d'avanguardia, vogliosi di conoscere il globo intero. Tuo marito si è allontanato un attimo e io non ho saputo cogliere quel momento per dirti qualcosa. In questi tre anni non avevo compreso quanto grande fosse il tuo senso di esule in patria tua, nella terra tua. Non ho capito quanto grande fosse il senso di sconfitta per quella speranza che ti eri portata dietro: quella di ritornare un giorno a casa tua, là in quella strada a pochi passi da Piazza del Mercato, o Piazza Duomo, punto d'incontro degli aquilani. Lo fai nei momenti di massima nostalgia, o quando arriva un'amica alla quale poter raccontare che ogni giorno hai preso cura della tua nuova casa pensando a quella dove abitavi prima.
Avrei potuto approfittare di quel momento, quel momento tutto nostro, privato come se il tempo fosse tornato indietro per fermarsi alla cupola non squarciata, alle macerie tornate intere. Così non è stato. Mi sono fermata di fronte al tuo senso di smarrimento, al tuo essere formichina nell'accudire la tua nuova casa pensando, con forza, a quando saresti tornata in quella che ti ha visto nascere e crescere e, dopo di te, i tuoi figli.
Mi hai detto che il tempo scorre veloce, che qualcosa ti sta fermando. Il muro lo stai alzando dentro, per quell'essere costretta a vedere la tua casa all'orizzonte. Cosciente che non tornerai più ad abitarla. Ho solo questo da darti, Mariangela amica mia: l'averti capita e forse non del tutto.
Abbracci
Giovanna

CONCHIGLIE

Cercavo conchiglie di primo
mattino quando il mare sfiora
la riva come carezza
e la sabbia è ferma sul fondo.
Sulla battigia gusci vuoti
di diverse grandezze
tanti da stancarsi a raccogliere.
Disegnavo animali sulla rena
li ornavo con gusci lucenti
dell'umidore del mare
e ti raccontavo storie.

PENSIERI SPARSI

Ferma come un soldato in garitta
ad ascoltare il dolore degli altri.
Mordersi un labbro di nascosto,
velare una commozione anziana
che coglie traditrice per un grazie
sussurrato con disperazione
davanti all'immenso di giorni,
uno dopo l'altro di albe
e tramonti, nascere e morire.
Spazio libero dentro, dolore
in volo che non cambia rotta.
Difficile capire un domani
l'oggi che sarà troppo lontano.

SI PUò FARE, FORSE...

Anche da noi è arrivata la crisi e la Nulla S.p.a® ha chiuso mandando in frantumi tutti i nostri progetti futuri e il conteggio degli anni, o dovrei dire dei giorni ore e minuti, che ci separavano dalla pensione.
Coetanei, mi marito ed io ci siamo ritrovati con un mucchio di scoloriti coriandoletti tra le mani: i colori di quegli anni dove avremmo potuto navigare o volare verso altri mondi, improvvisamente erano scomparsi.
Mio marito lavorava alla Nulla S.p.a®. Un'aziendina niente male fino a quando le cose sono andate come dovevano. Poi è arrivata la crisi. Che prima o poi avrebbero chiuso i battenti si mormorava da un pezzo. Ed è pur vero che maglie e magliette le indossiamo un po' tutti e la merce che esce, anzi usciva, da lì è di ottima qualità con prezzi di vendita al dettaglio accessibili ai più. Ma ha chiuso ugualmente. La solita storia: i clienti non pagano, i fornitori se non paghi non ti danno la merce e le banche non fanno più credito. Inutile scendere nei dettagli, è un problema piuttosto comune da qualche tempo e nel nostro palazzo ci sono altri che entrano nel portone a testa bassa e la faccia infilata nella sciarpa. Non si sa mai, se si incontra qualche altro inquilino che ti chiede come va il lavoro. Mica è facile dire che lo hai perso. Anche se non è colpa tua, ti vergogni pure. E comunque ora i cancelli sono chiusi. Cessata attività. In Italia almeno, per il momento non è chiaro se abbia trasferito tutto in Romania dove aveva già aperto una filiale. Le proteste, i tentativi di mediazione, lo sciopero della fame: non è servito niente. Nemmeno si sa se ci saranno almeno le liquidazioni o se la contabilità fosse in regola. Già che la data della pensione si allontana sempre più per via della crisi europea, dell'euro e degli italiani che mettono le mani nelle tasche di altri italiani non pagando le tasse, capita che qualcuno debba pagare, magari perdendo il lavoro a 52 anni. E dove lo trova un altro posto a quell'età? I ragazzi, un maschio e una femmina, devono terminare l'università. Va bene che Giacomo deve solo discutere la tesi, ma anche lui un posto dove lo trova? In casa siamo mio marito ed io, i nostro due figli e mia nonna sopravissuta a mia madre. La sua pensione e la mia busta paga. Mia nonna. Ottantasette anni ben portati, le gambe un po' deboli ma, a lasciarla fare, nell'arco della giornata riesce a fare tutto ciò che c'è da fare in una casa. È sempre di buon umore, ripete che ha visto di peggio e non si riferisce al fatto di avere accompagnato al cimitero tre dei suoi sette figli.
La nostra secondogenita sclera quotidianamente contro il nostro essere borghesi e la casa, in un complesso residenziale ad accesso riservato, che si è trasformata in una inutile apparenza di un benessere che proprio non abbiamo più.
Io lavoro per un'agenzia di pulizia che vivacchia alla meno peggio nel senso che alcune ditte nostre clienti, alla voce taglio spese hanno elencato anche le impresa di pulizie. I tre interventi settimanali si sono ridotti ad uno solo. Sembra che i problemi di igiene non interessino a nessuno. Ho visto gli uomini alzare i piedi e le donne arrotolarsi i calzoni al polpaccio come si fa nei bagni delle aree di sosta in autostrada, ma niente proteste o scioperi.
Mio marito ha iniziato a darsi da fare con modesti lavoretti in nero, ma a parte qualche rubinetto da riparare o da sostituire, non trova granché da fare. Nessuno imbianca più le pareti, o ti chiama per pulire i vetri, smontare e rimontare le tende dopo averle lavate.
La casa l'abbiamo comprata dodici anni fa, mancano otto anni all'estinzione del mutuo. E come si farà?
La nostra è una famiglia come ce ne sono tante. Grossi sacrifici non ne abbiamo mai fatti. Mio marito ha sempre guadagnato bene e io, con qualche lavoro extra, quasi quanto lui. I nostri figli, con la scusa di imparate le lingue, da anni ormai trascorrono le estati all'estero. Marzia come baby sitter e Giacomo di solito fa il cameriere nei ristoranti. Tra stipendi e mance sono sempre riusciti a pagarsi una buona parte degli studi. Mia nonna ha la sua modesta pensione. Da sola non riuscirebbe a sopravvivere, ma qui non ha problemi eccetto quello di dividere la stanza con sua nipote che, passati i primi brontolamenti, ha preso possesso della tavernetta per studiare e a volte appende alla porta un bel cartello stradale con la scritta divieto di accesso.
Ecco, questa è la mia famiglia. Forse dovrei raccontare come ognuno di noi affronta la situazione nata con la chiusura della Nulla S.p.a ®. Per il momento nulla con la lettera minuscola. Sono passati tre mesi oramai, un Natale parecchio sottotono, ma, a guardare la televisione, eravamo in ottima compagnia. E di sicuro lo siamo anche quando si tratta di fare quadrare il bilancio famigliare.
Sono sempre stata combattiva nella mia vita, ma un conto e farlo solo per se stessi, altro è combattere per la famiglia intera, fare in modo che a nessuno vengano le crisi di sconforto, e meno che mai a mio marito; che si lascino condizionare dagli spread o da tutte le diavolerie messe in piedi da media, si dice così mi pare, per fare sentire ogni cittadino sull'orlo di un baratro con nemmeno Nembo Kid che ti viene a salvare. A chi è che non verrebbe la crisi depressiva che però è meglio non averla perché lo stato ha tagliato le spese sanitarie aumentando i ticket?
Insomma, ci sono parecchie cose da tenere in considerazione e mettersi lì a fare preventivi su preventivi per fare quadrare il bilancio rischia di diventare un incubo. Poi una sera della settimana scorsa è successa una cosa e la vita di tutti noi ha subito qualche cambiamento. Ero andata alla Coop sotto casa, nell'ora in cui puoi trovare alimenti con lo sconto anche del trenta per cento perché prossimi alla scadenza, quando mi sono trovata accanto ad una vecchietta che, in apparenza, sembrava indecisa su cosa acquistare. In realtà cercava il prodotto meno costoso fra quelli esposti e tutti sembravano troppo cari rispetto alla cifra che poteva spendere. L'istinto era quello di aiutarla, ma come potevo fare se già anch'io avevo messo in pratica quel sistema di risparmio? Poi lei riuscì a trovare una confezione con due bricioline di maiale. Le guardava, controllava il borsellino, le riguardava... “Queste le potrei prendere!” e mi aveva puntato gli occhi addosso dubbiosa.
“Però forse mi fanno male! Sa, la carne di maiale...”. Sembrava sperasse in una parola di consolazione.
La scadenza sulla confezione era da lì a tre giorni così avevo detto velocemente:
“Ne mangia una domani e l'altra fra due giorni. Se le accompagna con un patata lessa, un filo d'olio e un po' di prezzemolo...”
Improvvisamente aveva sorriso. Un sorriso che assomigliava tanto a quello di mia madre, a quello che ricordavo di mia madre.
“Se compro anche il prezzemolo poi non lo consumo tutto. Io...!”
“Può suddividerlo in piccole parti e metterlo in congelatore! Quando ne avrà bisogno, sarà sufficiente sbriciolarlo sulla pietanza che preparerà!”
Aveva sorriso di nuovo.
“Lei è gentile e ha pazienza con i vecchi. Non arrivo ai seicento euro di pensione, devo pagare l'affitto, il riscaldamento. Sa, con la crisi che c'è ora mio figlio non mi può aiutare. Poi non abita nemmeno a Bologna!”
Un'ora dopo mi ero presentata alla porta di casa con la spesa fatta con gli sconti e la vecchietta sottobraccio; a mio marito per poco non era venuto un colpo. Per fortuna che l'ho abituato fin da giovane a capire i mie segni e subito ha invitato in casa la Mariuccia, come lei ha detto di chiamarsi, e l'ha accompagnata dall'altra Mariuccia che è mia nonna. Le bricioline gliele ho messe in congelatore, i prezzemolo pure. Il latte l'ho bollito per entrambe, sulla tavola ho messo una ciambella e la nostra ospite ne ha accettato una fetta da portare a casa. Poi mio marito si è infilato il piumone e l'ha accompagnata alla sua abitazione.
Non ha fiatato nemmeno quando il giorno successivo gli ho mostrato, nero su bianco, quale avrebbe potuto essere una momentanea soluzione ai nostri problemi. Poi abbiamo coinvolto i ragazzi e mia nonna, la Mariuccia uno.
La Mariuccia due, cioè quella che ho recuperato alla Coop, è più giovane della sua omonima, più sola e più spaventata. L'abbiamo chiamata la nostra arzilla ragazza e di sicuro più arzilla lo è diventata da quando le abbiamo aperto la porta di casa nostra. Ha la compagnia, mangia a tavola con noi e mio marito l'accompagna a casa sua alla sera. Per una vita intera ha fatto con passione il mestiere di sarta ed è stata ben contenta di mettere mano a tanti indumenti da accorciare, rimodernare eccetera. Proprio come, dice, si faceva una volta e difficilmente qualcuno si accorgeva che erano abiti... riciclati!
Mio marito ha deciso di dare una veste più professionale alla sua capacità di fare tutti quei piccoli lavoretti domestici che non si sa mai a chi rivolgersi. Sembra che non sia il primo a farne un mestiere. Anzi, devo fargli fretta perché si informi come fare per emettere fatture o scontrini. Insomma, come mettersi in regola e come versare i contributi per la pensione. I ragazzi gli stanno facendo, con il computer, una serie di simpatici biglietti pubblicitari e la Mariuccia due lo ha già indirizzato ad un paio di persone che abitano nel suo stesso palazzo. Io, a forza di chiedere qua e là, ho trovato tre famiglie, quelle che non hanno i nostri problemi, per andare a casa loro a stirare. Due volte alla settimana. Marzia tornerà a fare la baby sitter senza aspettare l'estate. Dice che riuscirà a studiare ugualmente.
Sì, ce la posiamo fare, credo almeno.
Da due giorni nevica, Giacomo sta spalando la neve nei condomini dietro compenso. Dice che non gli pesa, anzi, tutto quel candore lo fa sentire in pace con se stesso.

SIESTA IN CITTà

Sfiorisce il geranio rosa
e altri boccioli si dischiudono,
tra i rami degli abeti modulati
cinguetti di uccellini nascosti.
È quasi ora del riposo pomeridiano
ancora voci escono dalle finestre
e dai balconi l'odore del sugo,
profumi di spezie straniere
spezzati dal rombo di un motore,
un centauro che va di fretta
mentre un vecchio solitario
sta a testa china seduto
sulla panchina d'uno spiazzo
privato al di là della strada.
Intorno resta una quiete strana
Quasi un camminare in punta di piedi.

LA STRADA

Rallento. Troppo tardi per riuscire ad evitare l’ampia buca al centro della strada. I sassolini di ghiaia schizzano da ogni parte. Anche qui le abbondanti nevicate di fine gennaio hanno creato diversi danni. Lontano, nelle zone d’ombra per la maggior parte della giornata, le ultime tracce di neve mostrano un residuo di magia per il loro immutato candore, reso più luminoso dalla luce tersa della giornata. Rallento ancora e, per un momento, un minuscolo momento, si affaccia la tentazione di mettere la freccia a destra e svoltare nel cortile dei miei giochi. Di bambina insicura prima e ragazza spensierata poi. No, non sono entrata. Ho proseguito per questa strada polverosa, piene di buche e di ghiaia.
Un paese che non è più quello anche se non è cresciuto in nessun senso. Adagiato come sempre in un angolo di questa estesa pianura, sembra essersi addormentato almeno in parte, perché la natura prosegue il suo corso oggi come ieri e i campi sono coperti dal verde tenue del grano appena nato. Il vento accarezza le foglioline e bacia le prime gemme comparse sugli alberi. Ecco questo è il mio tempo immutato. Quello che sono venuta a cercare in questo momento strano dove gioia e dolore si amalgamano togliendo, o aggiungendo l’uno all’altro.
Ancora un breve tratto, poi l’argine del nostro fiume appare. Mi sembra più ripido di un tempo, ma i ricordi, si sa, possono essere ingannevoli.
Lascio l’auto nello spazio ristretto ricavato ai piedi della salita e proseguo in una sorta di smarrimento confuso tra il passato e il presente.
Il ponte sospeso, fatto di assi, corde di acciaio e piloni di cemento, ha sostituito il precedente e, come allora, permette il passaggio solo alle biciclette e ai pedoni.
Non posso sedermi sull’erba ancora umida così resto lì, sola e in un silenzio irreale, a guardare il fiume che scorre.
I cerchi sono comparsi all’improvviso, in apparenza causati da niente. O forse dal guizzo di un pesce, ma nessuna pancia d’argento ha brillato in aria ai raggi del sole.
Provo a scendere qualche passo. L’argine è scivoloso, la terra viscida per la pioggia di due giorni prima. L’acqua è limpida come quando, da ragazza, venivo qui a sciacquare i panni.
Fisso gli occhi sul dondolio leggero dei vimini: l’arancio dei rami e le gemme implumi come pulcini appena usciti dall’uovo.
Fanno capolino echi di voci e colori lontani.
Al fiume ci venivo in bicicletta, il secchio con i panni da sciacquare appeso al manubrio e un piccolo scranno infilato sotto il braccio. Pedalavo, attenta a non perdere il mio precario equilibrio, senza mai alzare la testa fino alla salita a fianco del ponticello. Scendevo dalla bicicletta con cautela in parte per il timore di una rovinosa caduta, bagaglio compreso, e anche per non rischiare di rendermi ridicola agli occhi di Giorgio che, forse stava dietro le persiane della casa posta poco più in là. Portavo il secchio fino ai piedi del primo pilone, poi tornavo indietro a prendere lo scranno. L’acqua era bassa e la corrente portava via velocemente la schiuma, quella bianca del sapone di Marsiglia. Più tardi giungevano le altre ragazze, quelle non innamorate di Giorgio, ognuna con i suoi panni da lavare; sbirciavamo furtivamente quelli delle altre, così, tanto per raccontare poi a casa, magari per sparlare un po’. E cantavamo, o meglio stonavamo, le canzoni di moda battendo i panni, sbirciando verso la passerella. I ragazzi arrivano dopo, unendosi al nostro canto, lanciando sassolini nella nostra direzione. Erano gli stessi che incontravamo la domenica a ballare. Balere di periferia, enormi stanzoni con file di panchine lungo i muri. Stavamo in attesa di essere invitate, senza guardare in faccia gli uomini per non sembrare sfacciate. Io battevo impaziente un piede fino all’arrivo di Giorgio. Lui è stato un formidabile compagno di giochi, un amico timido e dopo un innamorato passionale. L’unico della mia vita e anche il padre di Eva per la quale ci siamo sposati in fretta, in una chiesa gremita, tra gli auguri dei nostri amici e le filippiche del parroco trasmesse attraverso l’altoparlante. Il fiume. Quando era in piena, faceva paura. Qualcuno in paese passava di casa in casa per chiamare gli uomini, giovane e vecchi, a raccolta. Trascorrevano tutta la notte sull’argine a sistemare e spostare sacchi di sabbia sperando che il fiume non tracimasse. Accadde una sera. Non era neanche troppo tardi. Un sibilo, un boato e un rumore sordo. Il brontolio del tuono. Era l’acqua che stava invadendo i campi. L’indomani andai a vedere il punto dove il fiume aveva tracimato: una grossa fetta di terra, sembrava una torta, tagliata con il coltello. La casa di Giorgio stava là, circondata dall’acqua. Una enorme mosca nella tela del ragno. Erano tutti sul tetto e, visti da lontano, sembravano tranquilli come seduti nel salotto buono. Li portarono in salvo con piccole barchette arrivate lì non ricordo da dove. E la vita riprese come sempre: il maestro sordo e il suo sidecar, il parroco e noi con la filodrammatica.
Andavamo di paese in paese a recitare commedie tipo “La maestria” o “La nemica”. Ogni recita terminava con una farsa. Eravamo noi i primi a ridere e capitava a volte che abbandonassimo il palcoscenico per andare a ridere dietro le quinte. D’inverno quando la neve stendeva la sua coltre e il mondo viveva in un silenzio ovattato, dovevamo attendere il passaggio della poiana, unico mezzo per pulire le strade da tutto quel candore. Noi ragazzi ci davamo la voce di casa in casa, quando ancora era buio: andavamo a scuola in un paese vicino, cinque chilometri in bicicletta e trenta minuti di treno e, con la neve alta che ancora invadeva la strada, era una impresa raggiungere la stazione. Dell’estate ricordo l’afa e lo sfinimento e la gente che spariva, inghiottita dalla frescura delle grandi case coloniche. Solo a pomeriggio avanzato uomini e animali sembravano tornare alla vita. Giorgio e io ci davamo appuntamento tra i filari delle viti, all’ombre di una quercia secolare, nel nostro punto segreto lungo il fiume. Cammino lungo l’argine, su una striscia di terra dove l’erba non cresce più per il continuo passare e ripassare degli uomini.
Butto un sassolino e resto a guardare i cerchi che si allargavano pigri.
Giorgio non c’è più. Se ne è andato poco più di tre mesi fa, senza salutare. Mi ha chiesto un bicchiere d’acqua e ha detto:
“È chiara come l’acqua del nostro fiume quando tu andavi a sciacquare i panni!”
“E tu stavi a guardarmi dall’alto della passerella e...”
Non si era mosso dalla poltrona, sorrideva. Un sorriso statico, di cera. Gli ho sfiorato una tempia e poi chiuso gli occhi.
Dopo ho chiamato Eva e lei è arrivata sollecita, le sue lacrime represse per asciugare meglio le mie.
Ho voluto restare nella nostra casa grande dove ogni rumore sembrava ingigantito, dove ogni cosa sembrava immobile sotto la polvere che non c’era. Ho sempre spolverato ogni cosa come in ogni altro giorno del nostri quarantadue anni di vita insieme. A tavola ho messo un solo coperto: se avessi messo il suo, come hanno fatto altre mie amiche vedove, mi sarei sentita patetica. Così ho trascorso i primi mesi, ho rivissuto il mio grande amore attraverso le fotografie che ho sfogliato, i cassetti che ho ispezionato, la voce di mia figlia che mi chiedeva se avevo bisogno di qualcosa. Mi sarebbe piaciuto avere un nipote e so che Giorgio ne ha sofferto la mancanza. Non posso dire questo a Eva, la vita è sua e del suo compagno. Non ho alcun titolo nelle sue scelte. Non mi sembra giusto chiedere nulla ora. Questa mattina mi ha telefonato e me lo ha detto: dovrò aspettare ancora circa sette mesi poi sarò nonna.
Erano anni che non venivamo al fiume, in paese non conoscevamo ormai più nessuno: i vecchi perlopiù in altri pascoli e quelli della nostra età come noi emigrati nelle grandi città. Sono tornata qui, sono scesa vicino al pilone che non è più il nostro, dove è nata la mia storia bella. In questa mia terra posso parlare a Giorgio, mescolare i ricordi e le radici, raccontargli di questo germoglio che forse avrà il colore dei suoi occhi. Una nuova vita, una piccola gemma apparsa quando il mio dolore sembrava non reggere più. Ho percorso una strada lunga per tornare dove ho vissuto in quella parte della vita in cui si sogna molto e ci si illude di più. Sono tornata per gettare un sasso e impigrirmi in nuovi progetti e sogni che non fanno male, nei cerchi che sanno di magia. E raccontarteli e ringraziarti per non esserti dimenticato di me. La strada ghiaiosa ha la luce dell’acqua di sorgente quando ancora scorre chiacchierina.
 
Racconto 3° classificato – sez. narrativa – VII edizione Premio Tortoreto alla Cultura anno 2012

LA CASA NEL BOSCO

L'ho aiutata a scendere dalla macchina.
Faceva fatica, le sue gambe un tempo sode e tornite ora erano ramoscelli deboli e rinsecchiti.
Quasi vacillava, allora le ho dato il braccio per sorreggerla e l'ho condotta attraverso un viottolo contorto in un piccolo spiazzo nascosto alla vista da rovi e intrecci di rami.
L'aria era fredda nonostante fosse estate, ma limpida.
In cielo c'erano le stelle fitte e la luna piena.
Il sentiero era buio, ma io lo conoscevo a memoria e il baluginare della luce in cielo un poco mi aiutava. Lei aveva fatto alcuni passi, poi aveva mormorato tutta la sua stanchezza. La presi in braccio: sembrava una piuma.
Continuai a camminare attraverso lo spiazzo con le sue braccia molli attorno al collo.
Qualcosa mi pesava addosso. Non era lei, oramai uno scricciolo, un pettirosso come quelli che vedevamo posarsi sugli arbusti nudi con ancora i resti di bacche marcite, o becchettare tra resti di neve come fiori appassiti. Avanzi di un biancore che copriva sentieri e radure, gli abeti e i castagni alla stessa maniera.
E copriva anche la piccola casa nel bosco, quella che avevo voluto per mia figlia perché imparasse a conoscere le volpi e i tassi. Perché allungasse le manine verso il muso dei daini che si fermavano al limite della radura e restavano lì, fermi a guardarci con gli occhi grandi, incerti se intimidirsi delle nostre presenze.
La casa nel bosco, un prefabbricato in legno con le tendine ricamate alle finestre. Come la casa di Cappuccetto rosso. Noi le torte le portavamo dalla casa di città, ben avvolte dentro strati di carta e chiuse nelle borse termiche perché qualcosa della loro fragranza di cottura invadesse i due locali riempiti con pochi mobili di un tempo antico, le pareti adorne di paioli e pentole di rame e due assi, lunghe e strette, appese al soffitto. Sopra c'era di tutto: scatole di biscotti di latta, ferri da stiro dove un tempo si metteva la brace del focolare, tegami di coccio e altro ancora.
La porta cigola quando la apro a fatica con una mano sola.
Lei mugola qualcosa e per un istante mi chiedo perché l'ho fatto e cosa ho fatto.
Ho violato la legge, l'ho portata via da lì come fossi un ladro, ma nessun ladro ruba ciò che è suo, carne della sua carne, frutto di un amore grande.
La casa di Cappuccetto Rosso è fredda e buia. Accendo la pila rimasta al suo posto, appesa ad un gancio di fianco alla porta.
Adagio mia figlia in poltrona e la copro con un plaid. Controllo che il mio cellulare sia spento anche se non ha molta importanza perché qui non c'è campo.
Mia figlia ha gli occhi chiusi. Forse si è addormentata o forse si è stancata di tenere gli occhi aperti.
“Se continui a tenermi la mano io non me ne potrò andare. Vorrei solo la casa nel bosco. Solo quella, papà”
Così l'ho portata qui. È stato più facile del previsto anche se il cuore mi batteva a martello per il timore di incrociare qualcuno, qualcuno che avrebbe lanciato l'allarme.
Non per me, ma per la mia bambina che non si innamorerà mai, che non avrà a sua volta dei figli.
Volevo portarla in questa minuscola casa che lei amava, per restituirle, almeno per un poco, il suo mondo di fiaba senza orchi cattivi, a contatto con la natura, nei silenzi che sono preghiera, nell'incanto di un mattino o nella quiete di un tramonto. Poi la casa nascosta tra gli alberi, la felicità che qui regnava l'ha vista un lupo invidioso che poco per volta ha divorato la mia bambina, ha divorato me che sono suo padre. E anche sua madre che è diventata una statua di sale e va avanti lo stesso.
“Come fate a sopportare tutto questo?”
Glielo aveva chiesto una volontaria, una donna non giovanissima che sembrava anche lei trasformarsi in una statua ogni volta che entrava in reparto. Una statua capace di stare incollata ad una sedia con il sorriso immobile e la mano di mia figlia stretta tra le sue.
Una volta mia figlia le aveva allungato le braccia già scarne, aveva stretto la sua faccia tra le mani per poi appoggiarsela al viso. Entrambe erano rimaste lì, occhi contro occhi, per un tempo che non sembrava finire mai. Nonostante la malattia, nonostante avessi bisogno di tutto e di tutti, avevo avvertito una fitta di gelosia perché né con me né con mia moglie aveva mai fatto quel gesto che intuivo importante.
“Lei ha gli occhi nudi.” aveva spiegato la psicologa del reparto.
Né io né mia moglie avevamo chiesto cosa significasse.
Da quel giorno al mare, dopo che mia figlia si era sentita male appena uscita dall'acqua calda come non ricordavo, il mio mondo era crollato come un castello di carta. Nessuno avrebbe mai potuto aiutarci per ricostruirlo.
All'ospedale eravamo andati in bermuda e canottiera. Non capirò mai come avessero avuto, in così breve tempo, la certezza di quella diagnosi infausta. Ma forse non volevo capire o, meglio, non volevo accettare.
Non restammo in quel posto di mare, partimmo così come eravamo, mia moglie in autoambulanza con la bambina e io dietro con l'auto imprecando contro il traffico che sembrava lento, ma che in realtà non lo era.
Il nuovo ospedale era grande e non aveva l'aria rassicurante del precedente: una vecchia costruzione del secolo scorso.
Dentro aveva l'aspetto asettico nei muri, nei camici bianchi e verdi, nei corridoi dalle pareti con pitture allegre, nelle stanze a due letti con poltrone allungabili per permettere ai genitori di dormire accanto ai loro figli.
Non mi svegliai neppure quando i medici dissero che dovevo sperare nell'impossibile. Già. Perché ero rimasto nel mio sognoincubo di quando avevo sollevato mia figlia dalla rena e avevo creduto di toglierle la febbre alta tenendole una mano sulla fronte.
E non ero io colui che seguiva l'autoambulanza lungo l'autostrada, non ero io quello che era rimasto ad ascoltare i medici senza fiatare.
I mesi, i pochi concessi, erano volati e la fine non era lontana. Così avevo deciso per la casa nel bosco. Avrei portato là mia figlia perché la vedesse una volta ancora. Ma lei faticava a camminare, la spostavano con una sedia a rotelle.
Avrei comunque trovato il modo!
La guardiola era due stanze dopo quella di mia figlia, dove stava sola come fanno con i malati terminali, bambini compresi. La leucemia, quella certa forma di leucemia colpisce pure loro. Continuo a non capire perché. Nelle ore notturne dormono tutti o quasi. Dovevo sperare che nessuno suonasse il campanello, dovevo sperare che il medico di turno riposasse dietro una tenda in guardiola. E che l'ascensore fosse al piano.
Per il resto mi ero organizzato. I suoi pigiami sono come le tute e le ciabatte sono estive come l'estate che stiamo vivendo.
L'ascensore era al piano perché lo avevo chiamato io e, in qualche modo, lo avevo bloccato. Distava pochi metri dal corridoio del reparto e portava direttamente nei sotterranei e, da lì, si raggiungeva il parcheggio in meno di un minuto.
Non c'erano guardiani lì, bastava inserire la monetina, prendere il biglietto, assicurarsi che la marcia fosse ben inserita e andarsene.
E' quello che feci.
Avevo adagiato mia figlia nel sedile anteriore, messo la sedia a rotelle nel portabagagli.
Meticolosamente avevo allacciato la mia e la sua di cinture, coperto lei con un plaid lasciato in auto per le emergenze.
“Ho freddo papà.”
“Fra poco ti scalderai tesoro!” e avevo acceso il riscaldamento al massimo.
In quella notte dall'asfalto ancora caldo grondavo di sudore e pensavo alla volontaria che sedeva accanto a mia figlia tenendola per mano.
“Papà, se non mi lasci la mano non me ne posso andare!”
“Aspetta ancora un poco.”
“No, si è fatto tardi.”
Lontano un rumore di portiere sbattute, passi di corsa, respiri ansimanti e la porta che si spalanca di colpo.
Hanno fatto presto a trovarci.
Ci guardiamo, io e i medici, ed è come se tra loro ci fosse mia moglie che di sicuro li ha avvertiti. Lei ci credeva nei miracoli. Io no.
“Respira ancora. Dai, portiamola via. Coprila, coprila!”
“Non importa più. Era l'ultimo respiro.”
Era così lieve e aleggia ancora nell'aria.
Fuori il lupo invidioso è sazio.
 
Finalista al concorso “Scrivi con lo scrittore 2011”.

RACCOLTO ROSSO DORATO

tratto da "Volevo scrivere" Carta e Penna Editore Torino 2010

Arriviamo al limitare del bosco ed io mi fermo ad osservare i cavalli; sono animali che ho sempre amato e mi affascinano in una maniera del tutto speciale.
“Mamma, ti ricordi dei Cavasa, quelli che abitavano vicino ai nonni?”
“Certo! Siamo vissuti per anni come un'unica famiglia. Ci scambiavamo animali da soma e masserizie. A quei tempi, come mezzo di traino, usavamo le mucche e spesso tuo nonno trovava la stalla vuota perché i vicini le avevano prese in prestito. Lo vedevamo tornare nei campi con il suo passo svelto; tranquillamente annunciava che non era il nostro momento di attaccare le mucche al carro! I vicini le rimandavano alla sera, attraverso il viottolo e, quando venivano per la veglia, ci ringraziavano.”
“Mamma, una volta, da loro, ci fu un funerale. C'erano i cavalli bianchi.”
“Si, era un loro parente, un ragazzetto. Non ricordo di quale malattia morì.”
Rivedo ancora la nonna che cercava di trascinarmi via; io voltavo la testa per guardare la carrozza e quei magnifici cavalli bianchi, pieni di pennacchi, che scuotevano la testa. C'era la banda con la sua musica straziante, poi la chiesa, il prete e i chierichetti.
“Erano una famiglia di disgraziati.”
“Sfortunati vuoi dire?”
“Si, la sfortuna se l'è creata lui, un poco per affari sbagliati, un poco per leggerezza.”
Aspetto in silenzio perché conosco mia madre e i suoi ricordi. Lei li racconta con un tono carico di nostalgia ed è come vedere sfilare quel loro mondo con le grandi case dei contadini, la gente come viveva e come vestiva. É un mondo umile e semplice che ti viene incontro con tutte le sue sfumature, le sue sfaccettature, dove ognuno è protagonista col suo modo di essere, di intendere, di volere.
Riprende dopo poco continuando ad affaccendarsi tra il rigoglio di piante.
“Era autunno e quindi tempo di vendemmia. Eravamo tutti nei campi per quel raccolto dorato e rosso come non se ne vedevano da anni.
'Dij un tiròn, ragazù che à cò ed sira avein finì!'
Tuo nonno, con le brache arrotolate al ginocchio e i piedi nudi, ci incitava con la passione e l'entusiasmo di chi è nato tra i campi e ama la terra, a volte generosa, altre avara da far piangere di rabbia e disperazione, perché senza i suoi frutti non c'era né vita né speranza per noi. Dai campi vicini ci giungeva un canto, di quelli dolci e amari che le mondine si portavano nelle risaie, lontano da casa e dalle famiglie.
'Jusfòn, an cantì brisa incù?'
Si chiamava Alberta Montanari ma tutti la chiamavamo Berta ed era la nuora dei Cavasa, contadini come noi, più fratelli che confinanti.
Tuo nonno guardava di sottecchi sua suocera, donna piena di fede e credente convinta, di quelle che iniziano il lavoro nei campi facendosi il segno della croce, incurante di quale fosse il pensiero altrui. Al nonno voleva bene, non solo perché era il marito di sua figlia, ma perché lui, buono e generoso come pochi, trovava sempre il modo di rendere tutti contenti. Tuo nonno, un poco per fare arrabbiare la suocera, un poco perché erano strani tempi, intonava Bandiera Rossa con tutta la potenza della sua voce e, a poco a poco, diventava un coro che rimbalzava sopra le viti dalle foglie brune, tra i grappoli dorati, tra i campi fino a perdersi in un eco che raggiungeva le valli lontane. Si lavorava alacri e felici di quel poco che avevamo e di guerra si sussurrava solo. La tua bisnonna ribatteva con tutti i canti sacri; il nonno rispondeva con le note di Giovinezza e Berta non perdeva occasione di dire la sua:
'Jusfòn, stì atenti chiuu fa la multa!'
'Mò andì là Berta, 1'è impusebel, a n'avdì che ai cuntint tòt?'
E tra sudore, canti e scherzi il lavoro procedeva perché, allora, la tragedia era ancora lontana.
Ricordo i tramonti infuocati, le galline che razzolavano nel cortile e le cene frugali consumate per terra, davanti alla porta di casa, in tegami di coccio e piatti spesso sbrecciati.
Ricordo la Berta che veniva a trep (veglia) e dalla carera (viottolo) dava la voce a mia madre:
'Oh, Mariuccia a sò a quà; a li feigna dò ciàcar?'
Il mondo non si odiava tanto allora. A poco a poco, la Berta perse la sua chiacchiera e la sua allegria; non c'era più vita in lei. Delle dicerie in giro ce n'erano tante, ma chissà dove sta la verità. Suo marito aveva preso in affitto un terreno nella valle e lo faceva lavorare alle donne del Borgo; dicevano che si fosse invaghito di una di queste. Una sera mio padre, cioè tuo nonno, con una scusa andò a casa sua. Era una brava donna, alta e robusta e tutti le volevano bene. Era lei che mandava avanti la casa, curava galline e conigli per venderli al mercato e faceva formaggi che tutte le donne del Borgo si affrettavano a comprare.
'Cosa c'è Berta, non siete più voi!'
'C'è che non sto bene, il dottore dice che sono esaurita. Dovrei andare via, cambiare aria, ma come faccio con i bambini piccoli?'
'Non potete andare un poco in montagna dalla vostra famiglia?'
'Cosa volete, la verità è che an sò piò bona da mujer! Come volete che faccia a dirlo ai miei?”
Mio padre non seppe cosa dire e tornò a casa pensieroso. Quella sera andammo nella valle a raccogliere il fieno e tornammo quando la mezzanotte era passata da un pezzo. La casa dei nostri vicini era, stranamente data l'ora, tutta illuminata. Mia madre ci disse che la Berta si era sparata una fucilata al cuore.'
Mia madre rimane ancora in silenzio, lo sguardo perso lontano.
“Adesso c'è la televisione, ci sono i giornali che ti consentono di capire tante cose, ma quando ero ragazza io c'era solo della miseria e non avevamo tempo per i simintòn. Voglio dire che la Berta, con tutta la sua allegria e la sua voglia di vivere, si è chiusa a riccio, ha dato peso a dei pettegolezzi che, forse, erano solo tali. A quei tempi le donne sapevano solo sgobbare, chinare la testa e ubbidire. Suo marito rimase vedovo per tanti anni, chiamò prima la madre di lei, poi una sua sorella per badare ai bambini. Spesso i due gemelli ci raggiungevano attraverso i campi e mio padre mi chiamava:
“Velma, vieni a vedere che ci sono i tuoi soldatini.”
Volevo molto bene ai due bambini: un maschietto e una femminuccia e mi curavo di loro ogni volta che potevo. Avevano anche un fratello di qualche anno più grande che, quando il padre si risposò, si prese cura di loro.”
Tace assorta, persa in quei ricordi lontani. “Mamma, poi che successe?”
Lei mi guarda senza vedermi, poi continua:
“Il ragazzo più grande riuscì, non ricordo come, a prendere in affitto un pezzo di terra e portò con sé i fratellini. Ci fu la guerra con tutte le sue brutture, la miseria e la disperazione, ma loro se la cavarono. Poi ne ho perso le tracce.”
“Ti piacerebbe rivedere i tuoi soldatini?”
“Oh, si, moltissimo. Credo che la bimba, da grande, si sia sposata e abiti da queste parti.”
“Hai mai pensato di cercarli tutti?”
“Si, ma forse loro non si ricordano più di me.”
Non dico più niente, forse per pudore, forse per rispetto e tenerezza, ma spero che un giorno lei possa ritrovare i suoi soldatini e con essi anche un pezzetto del suo mondo antico. Guardo i cavalli che si allontanano, verso il sole che tramonta e mi sembra di vedere, all'orizzonte, quei due soldatini che tornano a casa tenendosi per mano.

VENT'ANNI

Taciti appuntamenti
sull'argine del fiume
quando l'acqua scorreva chiara
il vento baciava l'arancio
dei giunchi, le foglie d'argento.
Univa le sponde un ponte di legno
sotto stavamo noi ragazze
le ceste colme di panni lavati
di sole profumati e attese.
 
Inerte scorrere del tempo
assenti gli amori sbocciati.
 
Sospiri lievi, un segno veloce
e dopo corse in bicicletta
brividi su assi sconnesse.
Vent'anni, sapore di sfide
sul manubrio gambe alzate.
Nascosto tra piloni e frasche
sotto tu stavi a guardare
fingendo di pescare.
Arrossivo fingendo di non vedere

NON RIESCO A PARLARTI

Non riesco a parlarti.
Oltrepassato il confine.
Una sorta di barriera che porta al silenzio.
Mi sono inventata spazi ideali,
per non pensare scrivo poesie
o almeno mi sembrano tali.
 
Muovo gambe e braccia.
Una ginnastica al ritmo del tuo russare.
Ti rado la barba,
ti spezzo un biscotto
e vorrei essere in un prato
sdraiata a guardare le stelle
o te intento a zappare.

PAREVA IERI

Le maniche arrotolate
al gomito, la faccia china
sul catino a lavare
un fazzoletto che mostravi
sgocciolante, fermo il sorriso
sulla fessura d'un dentino
appena caduto, piccole
pieghe sul naso occhi senza nuvole.
Fiduciosa mi domandavi:
 
l'ho lavato bene?
 
Annuivo, il cuore fermo
in gola. Ascoltavo tuoni
e altri suoni di guerra.
Sognavo illusioni.
Cammini nel mondo, mia bambina.
Bambina cresciuto dal lato
sbagliato, i gesti, i sogni
uguali su tutta la terra.
Poi un boato ha colpito.
 
Pareva ieri e sono
secoli sfioriti.

SENZA TE

Sono senza anima queste mura
un lacerante deserto nel nulla,
cammino solo con la mia ombra,
inquietudine di pensieri balla
dentro stanze di te abbandonate,
te ne sei andata senza avvisare
era una mattina di primavera,
cigola una porta,
mira lo specchio la faccia sgomenta
di me, straniero dentro casa mia.
 
Vermiglia nel campo l'uva matura,
candide corolle nell'acqua, pesci
rossi senza parole.
 
Sale nel camino un fumo nero,
una bottiglia vuota, un bicchiere
sporco nella stanza abbandonata
soli su un tavolo sparecchiato.

SOGNI PERDUTI

Se ti fermerai un giorno
a guardare il tramonto
voltati a oriente, alba
dei suoi sogni confusi.
 
Piccoli gradini di pietra,
una panchina in cima
al colle, un ciliegio
una strada, a valle giovani
querce, al passo lenti cavalli.
 
Volava incontro alla luna
le mani tese a sogni persi
in cammino come le persone
nelle nebbie d'inverno.
 
Se siederai un giorno
sulla panchina al tramonto
vedrai speranze, illusioni
e un sorriso d'arresa.

IL MONDO DEI TROLL

Giocano nella notte chiara
nuvole nere, solcate di rosso,
a riva un presepe di luci,
e persone che stanno a guardare
la nave che lascia il mare.
Cammina dentro un fiordo
adagio come un cigno
e io con lei,
infinito stupore incantato,
muto di parole e di pensieri.
 
Mi sono svegliata tra pareti d'abeti,
in un mare dentro un fiume
sulle rive case di marzapane.
Cadono a spuma acque chiare
dove cavalca il sole
e gioca con i gabbiani.
Pigra distesa di neve
sulle cime dei monti
un treno e una danza nei prati.
Chiudo gli occhi
sono ninfe, gnomi e troll
fiabe e sogni incantati.
Laghi cobalto, rocce sospese
una spalla a fianco senza parlare.
Sono tornate le nuvole e gocce di pioggia,
un tramonto e strisce dorate di mare.
Volano neri i gabbiani in coda alle navi
e antichi guerrieri chini sui remi,
tra abeti e betulle salutano
i troll, gli gnomi e le fate,
una sirena del mio mondo incantato.

PRIMAVERA

Appeso all'aria tra viole quasi
schiuse il sapore sbiadito
della paura dondolava
con echi di guerra lontani,
il ronzio d'un aeroplano
nella notte senza barlumi.
 
Una colomba tornata al nido
un biancospino un po' arruffato
un cauto germinare di terre.
 
Una bambina a testa china
nel cortile sbirciava un soldato
venuto da lontano e sua madre:
Sei tornato... sei tornato...tornato –
sulle guance un rotolare
di lacrime, di quando i bambini
cadono e si fanno male.
 
Nell'angolo dimenticata
getta un sassolino alla capretta
che sospettosa bruca l'erba
e allarga le braccia al sole.
 
La primavera è tornata

IL SUONATORE DI BICCHIERI

Dove attraccano le navi
dove l'acqua del fiume
ritorna a scorrere placida
i gabbiani s'alzano con le prede
s'allontanano dalle chiuse
si stagliano contro il sole
e poi calano giù fiacchi e neri
simili a frammenti di carta
bruciata, sfaldata nell'aria,
lì sta il suonatore di bicchieri
tanti da coprire un tavolo
lui sfiora adagio gli orli
guarda solo quelli, e tintinnano
come perle che s'incontrano
come labbra che si baciano.
I turisti gettano un copeco
poi se ne vanno chiacchierando
e senza voltarsi indietro.

MOVIMENTO

Nel biancore di sdraie senza persone
solitaria in un angolo una pianta
ai piaceri del vento s'inclina,
si rifrange l'acqua nella piscina
in un pulviscolo senza spessore
e il vento s'addolcisce a momenti
come un'amante con l'amata.
Laboriose creste di spuma bianca
coprono l'ansimare dei motori
senza respiro l'incontro scontro
con la nave e il sole compare a tratti
tra nuvole tinte di grigio.
Riprende a rullare il vento con il mare
sul ponte donne di colore camminano
erette e fiere o forse ritmiche.

I VECCHI

Sul fondo del bicchiere
c'è acqua calda come
il sole che martella
tra cicale d'estate.
Chiudi la porta e vai
ai giardini a cercare
una panchina vuota
e una bava d'aria
tra gli alberi immoti
sotto il cielo di pece.
Non pioggia ma calura,
lascia ancora più soli
i vecchi
che non hanno qualcuno.

NATURA

Labirintici cerchi e nuvole
nell'acqua onde increspate
tra alberi e canne rovesciate,
scivola maestoso un cigno
indifferente all'abbaiare
di un cane al pescatore
con il fazzoletto a nocche
che butta lenza e pensieri,
un moscerino fastidioso,
formiche laboriose,
rughe e zolle la corteccia
della quercia, muschio cadente
echi di voci lontane, il rombo
di una motocicletta e di un tuono,
saluta un'ape la farfalla
una madre chiama il figlio
piega il capo sotto l'ala
un'anatra coi suoi bambini.
Scendono a perla le nuvole
a baciare i cerchi d'acqua.

AVEVO DIMENTICATO

Avevo dimenticato l'odore
delle zolle a luglio, i fanali
d'un trattore e il cri cri di grilli
tra campi di stoppie riarse.
Avevo dimenticato l'incanto
di una lucciola, i misteri notturni
d'un paese sparso nella pianura
abbracciato nei sogni stanchi.
Avevo dimenticato i sapori
di casa mia i canti contadini,
garriti di rondini al tramonto
una rosa nera ora sperduta
nel mio giardino abbandonato.

GIOCAVO DA BAMBINA

Giocavo da bambina
con le ossa di pollo
lo sterno un aratro
le vertebre il collo
i buoi e le mucche
e un piccolo cane
che abbaiava
guaiva...
Giocavo solo
in mia compagnia
eclissi di farfalle
a sera le lampare
di piccole lucciole.
Entravo in cucina
nell'alone del lume
a petrolio
e braci
nel focolare.
Sospiravo, le braccia
inerti lungo i fianchi
a quel giorno finito
dentro un vago scontento
mi mancava...
non sapevo
cosa mi mancava.

LE OLIVE

“Le olive? Hai guardato se ce n'erano ancora? Le hai messe nella lista?”
Stavo allungando la mano verso i vasetti dei prodotti sott'olio, esposti in bell'ordine sugli scaffali del supermercato, ma non avevo preso nulla. Ero rimasta lì, con la voce di mio padre sovrapposta a quella del signore sconosciuto, anche lui a fare la spesa con la badante o forse con una nipote, considerata la giovane età della ragazza che gli stava di fronte. Ad osservarlo bene, non sembrava bisognoso di una badante, ma nemmeno mio padre lo era in apparenza! Ha lavorato fino ad una settimana prima di andarsene quasi in silenzio senza avere raggiunto, per pochi mesi appena, i pronosticati novantadue anni.
A mio padre piacevano le olive, di solito comprava quelle piccole perché costavano meno e non valeva dire alle polacche o ucraine che lo hanno assistito, di lasciargli comprare ciò che preferiva. Uno come lui, che non portava più le pezze nei pantaloni per il semplice motivo che non c'era più mia madre a fare quelle piccole riparazioni, meritava di godersi il resto dei giorni che aveva davanti! Parlare o stare zitta era la stessa cosa, così quando andavo a fargli visita, certe volte gliele portavo io: un bel vasetto ricolmo di olive verdi e grosse e non quelle orrende buste di plastica che gli facevano acquistare!
In principio si era schermito, poi ne aveva assaggiata una, e poi due e tre.
“Ohi! Queste sì che sono buone!” aveva detto sorridendomi a testa china, quasi di sghembo.
Lo avevo osservato mentre le sbocconcellava come fossero mele, attento a non morderne il nocciolo. Le volte in cui mi fermavo a pranzo da lui, tirava fuori il vasetto, svitava il coperchio con la massima concentrazione come dovesse eseguire una operazione molto complicata, ne versava alcune nel suo piatto e, prima di richiuderlo, mi chiedeva:
“Ne vuoi un po'? Sono buone davvero!”
Ne mangiavo una o due per farlo contento e lasciargliene di più a lui.
Continuammo così per un po', fino al giorno in cui mi disse che preferiva quelle piccole, le masticava meglio. Non era più necessario che gliele portassi. Le avrebbe acquistate con Bosena, la badante polacca che gestiva la casa. Bisognava tenere conto delle sue abitudini, senza imporgli le mie perché avrebbe potuto offendersi. Ci rimasi male e lasciai perdere anche con le altre cose che gli portavo di tanto in tanto: le tagliatele fatte con la sfoglia tirata a mano, il coniglio cotto come usava mia madre, un po' di faraona che gli piaceva cuocere sulla graticola, posata diligentemente sulla brace del caminetto. Gli portavo anche qualche pezzo di punta di petto, la carne da brodo ricca di qui grassi che fanno male, ma che a lui piaceva tanto.
Per riguardo alla suscettibilità di Bosena, che ci teneva a servirmi a tavola come fossi una principessa, andavo là a mani vuote confidando in quelle ormai rare volte in cui mi chiedeva di accompagnarlo a fare la spesa.
Mio padre aveva piantato un ulivo, e quando iniziò a produrre i primi frutti, si fece spiegare, non ricordo da chi, come metterli in salamoia. Ci sapeva fare con le conserve di pomodori, e preparava deliziosi vasi di ciliegie sciroppate, di albicocche e di pesche, ma di olive non aveva esperienza.
Un giorno mi presentò trionfante la sua produzione. Rimasi a guardare il vasetto perplessa, con il cane che mi si avvinghiava alle ginocchia reclamando la mia attenzione.
“Se lo vuoi, te lo do da portare a casa. Sono buone. Le ho preparate io! Non ti fidi? Allora vieni in casa che ne mangiamo un po' assieme!”
“Buone! – avevo mugolando di piacere – Le prendo volentieri!”
“Magari le prendi la prossima volta! Oggi le mangi qui.” Era intervenuta la badante.
Bosena aveva cercato di farmi lasciare il vasetto senza però riuscirvi e mio padre aveva riso contento.
Lo sconosciuto allunga la mano verso lo scaffale, lo faccio pure io. Scelgo quello meno costoso e con le olive piccole, e ho la sensazione di portare a casa un poco del sapore di mio padre.

FOLL

Charlie, il cane dei miei vicini di casa, caracolla attraverso il cortile, le orecchie simili a ventagli e le zampe che sembrano sempre a mezz'aria. Gli lancio la palla che lui prende al volo. Poi la riporta, la deposita ai miei piedi e resta in attesa, pronto a prendere nuovamente la rincorsa. Charlie riporta alla memoria il mio cortile e i miei cani: Pippo, un pastore belga dai riflessi lenti, Muski, con le sembianze di volpino, ma in realtà incrocio di chissà quante e quali razze e Foll, la cagnetta che mi aveva regalato mio marito, anche lei incrocio ma solo di un pastore tedesco e di un collie. Io e Foll ci siamo volute bene per sedici anni, tutta la sua vita. Quando arrivò a casa mia era un batuffolo di pelo fulvo, traballante e impaurito dentro una cesta enorme. Aveva lo sguardo umido e talmente dolce da rasentare l'adorazione. E lei mi ha davvero adorata, nel suo aspettare quieta un mio cenno, uno sguardo, una carezza, una parola. Era diventata la mia confidente e mi ascoltava con partecipazione drizzando le orecchie o abbassandone una, piegando la testa di lato, socchiudendo gli occhi, posandomi il musetto sulla faccia, regalandomi una carezza di lingua ruvida.
A volte la sgridavo (lo si fa anche con i cristiani) lei mi guardava storto e io le dicevo:
“Non guardarmi così che mi fai venire il complesso del cane!”
Foll mi girava il sedere e se ne andava offesa in un angolo, sbirciando con aria indifferente ogni mia mossa, deglutendo ogni volta che la guardavo. Lei se ne stava sulle sue; si scostava un poco poi, seduta sulle zampe posteriori, fingeva di non guardarmi. Teneva il collo alto e anche le orecchie, forse l'unica occasione in cui riusciva a non accartocciarle come foglie appassite. Non resisteva per molto alle mie chiacchiere da comare e nemmeno alle mie smorfie da pagliaccio. Mi abbaiava contro quasi controvoglia, poi posava il musetto sulle mie ginocchia e stava immobile, a raccogliere tutte le mie carezze senza offendersi per quello: “stupidona” che le dicevo di tanto in tanto. Finivo per abbracciarla e chiederle scusa. Io!
In quel periodo abitavo in un appartamento micro situato al piano terreno di un bellissimo palazzo signorile. Era arredato con gusto e io lo avevo personalizzato con la mia fantasia. C'era un ingresso che fungeva da studio, una sala con tanto di divano letto e, cosa più che apprezzabile, un antibagno che fungeva da guardaroba. La cucina abitabile era preceduta da un altro piccolo ingresso. Poiché l'appartamentino era il risultato della ripartizione di un altro più grande, le porte divisorie avevano mantenuto in parte la loro nicchia riempita di scaffalature. Avevo l'impressione che piacesse molto anche a Foll: così le sistemai il suo angolo al “piano terreno” delle scaffalature. Ogni volta che ci passava davanti guardava il suo giaciglio con aria schifata, poi alzava gli occhi verso gli scaffali pieni fino all'inverosimile. Si metteva a cuccia sospirando e mi guardava storto come a dire:
“Ma guarda un po' cosa mi fai fare!”
Non mi preoccupavo mai molto di soddisfarla, un po' per evitare che mi venisse il complesso del cane e un po' perché imparasse a non avere troppe pretese. E poi di notte la sentivo arrivare accanto al mio letto. Camminava a passi piccoli e incerti, fermandosi a tratti. Regolarmente mi svegliavo, ho sempre avuto il sonno leggero; aprivo un occhio e la guardavo nella luce fioca che filtrava attraverso le persiane. Forse lei lo sapeva, perché la sentivo sospirare una, due volte. Poi si sdraiava per terra battendo la coda sul pavimento. E finalmente dormiva e io pure!
Ma bastava che mi muovessi un attimo, stiracchiandomi appena, che già buttava le zampe anteriori sul letto e abbaiava piano, un piccolo guaito soltanto. Eh sì, stavamo proprio bene insieme!
Disponevo anche di una piccola veranda che dava su un giardinetto che curavo quasi come Nero Wolfe le sue orchidee. Quello diventò il regno di Foll; trascorreva lì le sue giornate in attesa di vedermi rientrare dal lavoro. Mi aspettava dietro l'uscio e quando la calura diventava insopportabile, la coda a spazzola mi faceva da ventaglio. Erano coccole e giochi a non finire.
Non tutti amano gli animali e forse il suo distratto abbaiare ad un gatto aveva infastidito qualcuno. Trovai la cagnetta una sera rintanata dietro un cespuglio di ortensie, il muso immerso in ciò che, gettatole attraverso la rete di recinzione da chissà chi, aveva ingerito, ma non digerito.
Tremava e sembrava volersi scusare per il disturbo che mi arrecava con gli sguardi mortificati che mi gettava di tanto in tanto. Con tutta la delicatezza possibile le pulii il musetto, poi la presi in braccio e la portai dal veterinario attraversando la città a piedi. Non osai chiamare un taxi per il timore di ricevere un rifiuto e non ero certa che accettassero i cani sui mezzi pubblici.
Non ho mai saputo esattamente che cosa le avessero fatto per il muro di omertà spesso come le dighe dei grandi bacini, ma il medico disse che aveva ingerito forse varechina.
Capii che non era possibile tenerla nel condominio, la portai dai miei genitori. E lei adorò tutti, distribuendo equamente il suo affetto. Mio fratello la chiamava Lupa, mio padre Kira in ricordo di un'altra cagnetta che abitualmente veniva ad aspettarmi alla corriera quando tornavo al paese ogni venerdì. Una volta sbagliò giorno e, non vedendomi scendere, restò senza mangiare fino a quando non mi vide tornare.
Mi sono chiesta tante volte come funzionasse il cervello di Foll, che cosa percepisse di noi, del nostro modo di essere e anche con quale criterio prediligeva a volte un componente, a volte un altro della famiglia. Foll sembrava percepire ogni nostro umore; una volta in cui litigai furiosamente con mio padre, non ricordo per quale motivo, divelse metri e metri di rete metallica e continuò a ringhiare contro ogni membro della famiglia che le si avvicinava. A suo modo, aveva fatto capire a tutti da che parte stava. Mio padre provò a dirle:
“Sono io che ti do da mangiare!” ma lei abbaiò più forte, forse perché era arrabbiata o forse perché sapeva che le ossa del macellaio gliele portavo io. Il cancro viene anche ai cani. A Foll invase una mammella. Ogni tentativo di salvarla fu inutile e fu necessario sopprimerla. Mio padre chiamò il veterinario: “Stai tu con lui!” e mi voltò la schiena.
“Va bene.”
Strinsi le mascelle e guardai il veterinario.
Non mi resi conto di quanto grande sarebbe stata la mia sofferenza o forse cercavo, con la mia “normalità”, di proteggere mio padre che piangeva come un bambino, o mio fratello che scappava via per non vedere tanto sfacelo, oppure mia madre che aveva capito cosa stavo cercando di fare e voleva lei proteggere me. Foll soffriva moltissimo, nessuno poteva avvicinarla, ringhiava a tutti. Quando mi avvicinai io sembrò acquietarsi. Ci guardammo negli occhi. Aveva lo sguardo mansueto e fiducioso di sempre. Acconsentì a lasciarsi tenere una zampa, a farsi accarezzarle la testa. E' stato un attimo. Lei non aveva mai smesso di guardarmi. Chissà se aveva capito cosa le stavo facendo!
“E' tutto finito!” disse il veterinario con gentilezza. Le chiusi gli occhi come si fa con i cristiani e mi abbracciai da sola. Mi restava ancora da asciugare gli occhi di mio padre e quelli di mia madre, prima di andare a seppellirla nel bosco che a lei piaceva tanto. Sulla sua tomba misi un fiore. Poi andai a cercare un mio amico.
“E' solo un cane!”
C'era una leggera sfumatura di ironia nella sua voce, o almeno così mi parve.
Debolmente ribattei che ci eravamo volute tanto bene, poi lasciai perdere. Non avrebbe capito! Per giorni e giorni indossai “la maschera spavalda”, non avevo altro modo per difendermi da quella cosa che mi dilagava dentro. Aiutandola a morire certamente avevo messo fine alle sue sofferenze, ma automaticamente avevo procurato a me stessa un malessere profondo: quello di avere provocato coscientemente la sua morte.
Per molto tempo quando camminavo per le strade, mi guardavo in giro con la sensazione che Foll fosse nei paraggi, che mi seguisse, che mi sedesse accanto ad osservarmi con un occhio aperto e uno chiuso. E le mie confidenze le facevo ormai alle sue fotografie. Poi misi via anche quelle, ma se mi capita, come oggi, di giocare con un cane, è inevitabile per me pensare a Foll, al mio cortile e a tutto ciò che lei ha rappresentato per me. E la sensazione di perdita, di un qualcosa che non c'è più, che non ritornerà mai più, torna a galla prepotente
Così vorrei dire anch'io: “Era solo un cane!”, ma non riesco e allora sposto i ricordi alla spiaggia di Senigallia, alle nostre corse sulla battigia sassosa, a lei che non si stancava di giocare, al suo girarmi la schiena impermalita quando la rimproveravo, al suo sospirare paziente, lo sguardo volto all'orizzonte, quando per ore le raccontavo i fatti miei...
 
Tratto da “Erano stanze” Riflessi e Frammenti 2006

FIORI DI PESCO

Il cancello cigolò. Istintivamente si chiese cosa fare. Assieme alla constatazione di quanto avesse imparato in fretta ad affrontare le emergenze. Come se gli ingranaggi del cervello fossero stati riprogrammati, avessero preso un nuovo corso.
“Sono qui!” disse ai muri e al silenzio. La voce suonò forte, senza incrinature. Niente cedimenti, solo emozioni nascoste, perché così doveva essere.
Dal ripiano più alto del ripostiglio prese la cassetta degli attrezzi e la portò sul tavolo di cucina. Poi posò la borsa e tolse il cappotto.
“Olio Singer.” lesse a voce alta. Lui diceva sempre che l'olio usato per gli ingranaggi della macchina da cucire andava bene ovunque, meno che per condire l'insalata. Riuscì, con un complicato sistema di scaglie di legno sovrapposte, a sollevare il cancello dai cardini di appena mezzo centimetro e a versare alcune gocce d'olio all'interno degli stessi.
“Nevio, ho fatto anche questo. Ci sono riuscita!”
Una voce, la sua, che era una miscela di eccitazione e orgoglio. Cresciuta in un'epoca in cui le donne passavano dalla casa patriarcale a quella maritale, la vita da casalinga a tempo pieno era l'unica che conosceva. Cucina, ago, filo e forbici continuarono a non avere segreti per lei. Abbandonato il telaio su cui aveva tessuto il corredo da sposa, non aveva cessato di usare la vecchia macchina da cucire che aveva visto passare, sotto ai suoi aghi, stoffe vaporose, calde lane e cotoni felpati. Ma aveva visto anche i sogni di Giuliana, sogni semplici, sani come lei: un marito, una casa, dei figli che erano arrivati proprio in quella sequenza.
Il tempo della passione era sfumato a poco a poco per lasciare uno spazio sempre più vasto a un quieto appagamento scandito dalla nascita dei figli e dalle tappe della loro crescita. Che i sogni fossero volati via come i fiori di pesco nel vento di primavera era per Giuliana un fatto normale, faceva parte dell'ordine delle cose. Non era stato sempre facile vivergli a fianco e quando il livello di sopportazione raggiungeva proprio il limite di guardia, andava a rifugiarsi in bagno. Seduta sul water, le mani chiuse a pugno in una rabbia senza confini, cantilenava senza sosta: “Cretinooo, cretinoooo...”.
Ricompariva poi sorridente e serena come se niente fosse successo.
Gli anni erano trascorsi così: lui di giorno in ambulatorio e di sera al bar a giocare a scopa e tresette, lei a casa a curare i raffreddori dei figli, a disinfettare le loro ferite, a cantare interminabili ninne nanne. Ma anche a raccogliere la gioia delle loro risate e i baci bavosi dei primi anni. E abbracci morbidi come i petali dei fiori di pesco.
Più tardi erano arrivati, assieme ai primi turbamenti amorosi, le contestazioni giovanili. E lei dalla loro parte. Nevio no. Portava la sua intransigenza come una bandiera, non c'erano sfumature di colore e quella sua spaccatura netta fra bianco e nero con un muro in mezzo, aveva portato a volte a fratture dolorose, spesso insanabili.
Per l'ennesima volta in quei giorni, Giuliana si domandò se era stata una buona moglie. Le volte in cui glielo aveva chiesto, lui aveva sempre detto di si. Sempre con quella sua curiosa maniera di scherzare, un incrocio tra il burbero e il brusco. E sempre in privato. Pubblicamente la presentava come la classica donna capace di cavarsela solo in cucina e non sempre. In realtà faceva in modo che non avesse alcuna ragione di pensare occupandosi lui di tutto, spesa compresa.
E quando in casa loro arrivò il televisore, cominciò a spiegarle cose che comprendeva benissimo da sola. Sempre con il suo sorriso a mezza bocca. E lei a barcamenarsi con quel carattere incapace di concedere deroghe. Un continuo adattarsi alle sue esigenze, un incessante mediare tra lui e i figli. Virtuosismi e capolavori di diplomazia.
Non aveva avuto molto tempo per sostituirsi a lui, però stava facendo del proprio meglio. Perché non le bastava essere stata una buona moglie, voleva ora essere anche brava: per lei, per i suoi figli e per i nipoti. Lei, la nonna dagli occhi ridenti! Del resto era sicura che lui la vedesse. E magari stava ad osservarla con quel mezzo sorriso che le piaceva tanto. Naturalmente con gli occhiali sul naso, come una bandiera a mezz'asta!
Aveva già riposto la cassetta degli attrezzi, steso sul letto il cappotto di finta pelliccia e messo a bollire l'acqua per la pasta.
Stese una mano sulla tovaglia per togliere un'increspatura, poi apparecchiò per due e restò in attesa, come se lui dovesse arrivare da un momento all'altro.
Nell'immobile silenzio dell'appartamento sembrò di colpo ricordare qualcosa. Abbassò la fiamma sotto la pentola e marciò verso il telefono. La voce dall'altro capo del filo era pacata, di quelle che danno sicurezza.
“Lo sai che sono andata in banca? E quando sono tornata a casa ho detto: Nevio, hai visto che ci sono riuscita? Proprio come se mi sentisse. Ah, senti, devo andare per la tassa del pattume. Come si chiama quella strada? Tu ci sei appena stata, così mi sono detta: aspetta un po' che lo chiedo a mia nipote come si fa. Per non rivolgermi ai miei figli. Loro sono molto protettivi, io invece voglio fare da sola. Nevio a volte mi trattava come fossi un'oca. Lo sapeva che non era così, ma cosa vuoi farci! E' che una volta erano gli uomini ad occuparsi di tutto. A noi restavano la casa e i figli da crescere. Come dici?”
Fu una lunga telefonata, un saltellare fra i ricordi, quelli solo suoi, quelli che non aveva mai raccontato a nessuno. Oppure quelli che tutto il parentado conosceva. Il viaggio a Roma con il Millecento stipato fino all'inverosimile. E quando Giacomo aveva vomitato, Nevio non ne aveva voluto sapere di fermarsi perché: “...deve imparare a non fare il piagnone!” Solo che il piagnone era un bimbo di tre anni! Chissà, forse aveva sofferto per la sua incapacità di sciogliersi nella tenerezza dei figli che aveva generato! Un dubbio che nessuno ormai poteva più sciogliere.
Dopo Roma e la scuola di specializzazione in odontoiatria, erano ritornati al paese di origine. Alla bicicletta, alla casa senza riscaldamento.
Una nostalgia struggente per il focolare, per la fila di mondine che vedeva passare lungo il canale, per le nuvole rosa a primavera, quelle dei fiori di pesco. O forse per quegli anni che non c'erano più.
Non mangiò. Non ne aveva voglia. Prese a riassettare i cassetti, quelli che aveva svuotato e subito riempito alla rinfusa per non vedere la malinconia del vuoto delle sue cose, di lui che se ne era andato.
Quando aveva deciso di cambiare mestiere, aveva protestato con forza, poi l'idea di essere come lui, di lavorare con lui tra la gente aveva preso il sopravvento. La trattoria era stata un buon affare, con Giuliana che serviva ai tavoli, una cuoca che sembrava un armadio e Nevio che sembrava essere ovunque. Spesso i clienti diventavano amici a cui non fare mancare una disponibilità, la sua, tanto grande quanto pudica. Non aveva smesso di dire pubblicamente, sempre tra il serio e il faceto: “... mia moglie, no mia moglie... se non ci fossi io!”
Poi c'erano quelle specie di teleconferenze quando ancora la Telecom non le aveva inventate. Raramente rispondeva lui al telefono, quando lo faceva si limitava a un “Sono in piedi. Giuliana, vieni qua!” Le passava la cornetta per poi interromperla in continuazione e suggerirle cosa chiedere a chi stava dall'altro capo del filo. Perché era curioso, desideroso di conoscere la gente, i loro problemi. E offrire loro una generosità istintiva, rara. Sempre con un mezzo sorriso: Un po' burbero, come lui. Improvvisamente interruppe ciò che stava facendo e restò in ascolto. Fece un cenno di affermazione con la testa, e andò a prendere il libro dei conti.
“Faccio io, faccio io, faccio io!” Quante volte lo aveva detto? Le bollette erano in ordine, disposte secondo la data di scadenza, lei doveva solo andarle a pagare. Rinchiuse la cartella e restò assorta a guardare la sua fotografia, un ingrandimento appeso alla parete.
Riemersero il paese, le mondine, i peschi in fiore. E l'amore di un uomo che, alla sua maniera, l'aveva sempre protetta, magari scavalcandola.
Nemmeno con i nipoti aveva smesso i toni burberi, nemmeno durante le loro interminabili partite a tresette. E lei di nuovo a raccogliere ginocchia sbucciate, baci bavosi e morbidi abbracci.
Giuliana si voltò verso la sala; le cassette, quelle grandi da frutta, stavano in bell'ordine sotto la finestra. Erano tante, tutte quelle necessarie per contenere duecento bottiglie di vino. Ognuna rigorosamente avvolta nella carta gialla e pronte per essere consegnate agli amici, quelli nuovi della trattoria, quelle della sua infanzia, gli amici di una vita.
Disse a sé stessa che stava facendo la cosa giusta, quella che lui avrebbe desiderato fosse fatta. Deglutì una, due volte. Gli occhi restarono asciutti.
Solo non avrebbe voluto tutto quel silenzio.

SILENZIOSO RUMORE

Un rumore di vetri infranti invase il cortile dove si affacciavano i balconi di alcuni palazzi simili fantasmi ai quali ai quali era stata dipinta la faccia. Sui fili appesi alle ringhiere i panni stesi aspettavano un raggio di sole che li asciugasse almeno un poco. Qua e là, tra vasi di fiori coperti da teli di cellophane, occhieggiavano alberi di Natale e file di lampadine colorate.
Le persiane spalancate mostravano il ricamo di una tendina o una stella di Natale.
Il rumore si ripeté, ma nessuno si affacciò ai balconi.
“Basta!” urlò una voce di uomo, forse lo stesso che stava scendendo le scale a precipizio, lasciando alle spalle il tuono di una porta sbattuta con forza.
“Sette anni di disgrazie!” mormorò Liviana osservando i frammenti di vetro disseminati un po' ovunque nel bagno. Alzò la mano destra in un maldestro tentativo di pulirsi la faccia. Una fitta feroce alla spalla. Tentò con la sinistra.
“Di solito non lascia segni! Il mio sedere è pieno e lì si picchia bene. Di capelli ne ho tanti! Così lunghi che li può strattonare a piacere e i pugni che mi da in testa non si vedono!”
Parlava adagio ai pezzetti di sé stessa sparsi nello specchio in frantumi. Parlava anche all'altra Liviana, quella che le diceva di scappare! Ma dove? E a chi poteva chiedere aiuto? Chi mai le avrebbe creduto?
Il naso non aveva smesso di sanguinare, sul viso cominciavano a comparire antiestetiche macchie bluastre. Lei continuava meccanicamente a tamponare con acqua fresca, come fosse davanti ad una catena di montaggio.
“Dai, sbrigati o faremo tardi alla Messa!”
La voce di una donna, la risata di un bambino e subito dopo solo il rumore di un martello nella sua testa.
“Sono uomini! – diceva sua madre – E tu poi con il tuo caratterino!”
Tornare da lei era fuori discussione. Era una donna in pace con sé stessa, soddisfatta di avere fatto il suo dovere di moglie, madre e nonna. E poi non si può restare in silenzio per quasi trent'anni e presentarsi infine alla propria madre per dire che no, niente era così idilliaco e che il suo fantastico marito era un violento, eccetera. Uno che ti presenta ai suoi amici come la regina della casa, che ti fa fare la vita da signora pubblicamente ma che ti rinfaccia in privato ogni centesimo speso. Uno che ti toglie la fatica di pensare perché lo fa lui per te. Uno che ti sceglie gli amici perché è giusto che piacciano ad entrambi, uno che dolcemente ti deride in presenza dei figli che ha procreato con te, uno che...
Il campanello alla porta suonò. Poteva fingere di non essere in casa!
Lo squillo riecheggiò seguito da un leggero bussare e da una voce:
“Sono Mirella, la sua dirimpettaia! Va tutto bene lì?”
“Si, va tutto bene.” sussurrò piano ai suoi frantumi.
Poi, in un impulso inspiegabile, Liviana abbandonò improvvisamente i pezzi di vetro e i frammenti della sua faccia riflessa. Spalancò la porta di colpo.
“Andiamo all'ospedale, prenda le chiavi di casa!”
L'aveva guardata semplicemente come fosse abituata a facce devastate, o fosse una cosa normale incontrare una faccia devastata.
“Posso uscire in pigiama?” chiese Liviana tenendo gli occhi puntati sulle ciabattine con la faccia da coniglio, dove una macchia di sangue aveva arrossato un occhio.
“Perché no?”
Il sorriso aveva qualcosa di magico, una sorta di calore che avvolgeva Liviana come una coperta facendole lievitare dentro ribellione, il riaffiorare flebile di una dignità perduta, la sensazione di non essere poi così sola.
“Mi sembra di essere una torta dentro il forno! Sa, quando inizia a lievitare ed emana un profumo e...!” se ne uscì con una risatina che sembrava il pigolio di un pulcino.
“Capisco!” disse Mirella a quel sorriso incerto, ad una piccola luce di speranza.
 
Nessuna delle due parlò fino all'ingresso del Pronto Soccorso.
Sedettero l'una accanto all'altra in attesa del loro turno.
“Dovrà fare una denuncia al posto di Polizia.”
“Lo so.”
“Bene.”
Era codice rosso e non dovettero aspettare molto.
Oltre alle ecchimosi i medici rilevarono una microfrattura al setto nasale confermata da un paio di radiografie. Il senso di sollievo crebbe perché certamente l'avrebbero trattenuta in ospedale. Così guadagnava tempo.
Seduta un po' di sghembo su un'anonima sedia verde penicillina, Liviana si stropicciava le mani perché non sapeva come affrontare un problema per lei in quel momento prioritario: non aveva biancheria con sé e niente di quelle cose che solitamente si mettono in valigia quando si entra in ospedale.
Mirella sorrise:
“Andrò ad acquistare ciò che le occorre.”
“Ma... E i soldi?”
“Dopo. Ci penseremo dopo.”
Liviana annuì gravemente sempre ferma sulla seggiola, compunta come se dovesse sostenere un esame. E forse nella sua mente così era. Perché era difficile credere che qualcuno stesse ascoltandola, anzi stesse aiutandola senza chiedere niente, occupandosi semplicemente di lei.
Più tardi un medico le chiese se intendeva sporgere denuncia.
“Lei ha dichiarato che è stata percossa da suo marito. Ha anche raccontato che questa non è la prima volta. E' mai ricorsa in passato a cure sanitarie?”
“Mai. Non c'era niente che lo potesse dimostrare. Lui sta sempre attento dove picchiare. Stavolta ha perso il controllo. Però se sporgo denuncia poi non posso ritornare a casa e non ho un posto dove andare! Non saprei nemmeno a chi chiedere aiuto.”
Mirella e il dottore scambiarono un'occhiata.
“Ha mai sentito parlare di un'associazione che si occupa delle donne che hanno subito violenze? Loro potrebbero aiutarla.”
Di nuovo era apparso nei suoi occhi un guizzo di speranza.
“Aiutarmi come?”
“Legalmente, finanziariamente e offrendole un posto dove vivere fino al momento in cui deciderà cosa fare della sua vita!”
Liviana mise una mano nei capelli. Erano belli così setosi e con striatura ramate. Il viso, rimasto scoperto dal lato sinistro, mostrò la finezza di certe porcellane antiche. Attraverso il pigiama di seta s'intravedeva un corpo minuto, quasi anoressico.
“Io avrei fame! – esclamò con una risatina imbarazzata – Posso avere anche solo un pacchetto di cracker prima di fare la denuncia?”
Risero tutti poi qualcuno l'accompagnò al posto di polizia, passando prima da un distributore di merendine.
 
Suo marito arrivò con un mazzo di rose rosse dichiarandosi imbarazzato per non avere pensato a portare un vaso dove metterle. Lei sembrava contenta di vederlo e il medico che l'aveva visitata si augurò che non ritornasse sui suoi passi, come facevano spesso altre donne in situazioni analoghe. Vivevano la violenza familiare come una specie di martirio, riti sacrificali a cui si sottomettevano per non scombussolare la serenità dei figli.
L'altalena dei se e dei ma ritornò ad affacciarsi non appena suo marito abbandonò la stanza per tornarsene a casa. Era così contrito! Il lavoro, i clienti che ritardavano i pagamenti, la segretaria che faceva confusione con gli appuntamenti! Insomma era stressato. Beata lei che poteva starsene a casa senza pensieri!
“E senza uno stipendio che ti avrebbe assicurato l'indipendenza economica!” suggerì la vocina dell'altra Liviana.
Trascorse la prima notte in ospedale senza quasi chiudere occhio. Le avevano somministrato un blando sedativo che non aveva fatto effetto. Non chiamò l'infermiera nel timore che la ritenessero dipendente da ansiolitici o sonniferi.
Rimase rannicchiata su se stessa, in posizione fetale.
Poi venne il giorno e la denuncia partì. Senza nemmeno rendersene conto, si era trovata a fianco un avvocato, una donna, che aveva organizzato anche la parte pratica della situazione. Mirella si era offerta di darle assistenza durante la degenza in ospedale. Nell'armadietto c'era biancheria nuova della sua taglia, posate rosse e un'allegra tovaglietta sul tavolino da notte.
 
La canna della rivoltella era lunga e lugubre. L'aveva trovata nel comodino di suo marito, in parte nascosta tra i fumetti, giornaletti orribili che detestava.
“Sei rimasta a Topolino!” la rimproverava lui dolcemente di fronte ad amici e parenti!
“Si assomigliano tutti! – obbiettava debolmente lei.
In realtà detestava trovarli in bagno, sul ripiano della lavatrice, proprio alla pagina dove il marito riusciva in modo indolore a liberarsi della moglie. Che perdeva la vita per un'improvvisa rottura dei freni della propria auto o per una caduta accidentale dal balcone...
Terminavano tutti con esequie strazianti della moglie adorata pianta da mariti sconsolati. Gli stessi che, qualche mese dopo, incontravano un'altra santa donna capace di comprenderli ed amarli.
Qualcuno l'afferrò alle spalle e davanti ai suoi occhi sbarrati comparve la canna di una rivoltella. L'impugnava una giovane donna, circondata di luce e c'era una miriade di topolini che le solleticavano occhi, naso e bocca.
Avrebbe voluto almeno difendersi, ma non riusciva a muoversi.
Poi l'urlo esplose in tutta la sua potenza creando subbuglio tra medici ed infermieri.
Mirella era rimasta immobile, una mano posata su una spalla di Liviana e l'altra con ancora il biscotto usato per sollecitare il risveglio facendolo scivolare sul viso.
Dopo arrivarono le risate e un flebile:
“Non sono sicura di essere sveglia. Vorrei essere su una nuvola. Finalmente in pace.”
“E invece sei sulla terra, pronta a riappropriarti della tua vita se lo vorrai!”
 
Bologna, 20 luglio 1976
Cara Valentina,
oggi sono venuta davanti alla tua scuola. Avevo voglia di vederti. Dirti che mi manchi è poco e a volte, per consolarmi, mi dico che certamente mancherò pure a te. O forse hai dimenticato tua nonna. Forse ti hanno detto che sono volata in cielo!
Sei cresciuta Valentina, ti sei fatta grande e sei davvero carina. Anche il ragazzo che ti stava ha fianco era molto carino. Avrei voluto fermarti e farti gli auguri perché oggi è il tuo compleanno: sedici anni e sette che ti guardo di nascosto.
Ho dovuto farlo perché non avevo scelta. I miei figli si sono allontanati da me e i miei nipoti, tu compresa, erano troppo piccoli perché io potessi spiegare cosa stava succedendo tra me e il nonno.
Così mi sono messa in disparte, ho raccolto i cocci della mia vita, li ho rimessi insieme e ho ripreso a camminare.
Credo però che ora tu sia sufficientemente adulta per ascoltare anche la mia voce, quella che non hai mai sentito in questi anni. Non è bello ciò che devo dirti, ma è giusto che lo faccia.
Ho trascorso i miei ventisei anni di matrimonio in uno stato di sottomissione totale a mio marito, tuo nonno. Inizialmente mi sembrava una bella favola: le sue attenzioni nella scelta delle persone da frequentare, sua madre che mi seguiva nelle mie prime esperienze di moglie, compresa l'educazione dei figli. Vedova da alcuni anni, era anche un modo di non farla sentire esclusa o troppo sola. In realtà sola mi sono sentita io e anche intrusa nel volere a tutti costi un rapporto con i miei figli. Per evitare discussioni ho iniziato a tacere e ho iniziato a trascurarmi, a trascorrere le mie giornate impigrendo sul divano. I figli ormai cresciuti, il nonno sempre impegnato con il lavoro e le cene di lavoro. Le amiche e colleghe di un tempo ormai perse di vista. Mi sono convinta, o mi hanno convinta, che ero un'inetta, una nullità. E io mi ero convinta che meritavo i pestaggi a cui mi sottoponeva mio marito. Non voglio scendere nei dettagli. Ci sono gli atti del tribunale per questo e se un giorno tu vorrai potrai leggerli da sola!
Oggi si parla tanto di mobbing, le violenze nell'ambito famigliare sono sempre più di dominio pubblico. Se non altro il sessantotto tanto criticato, ha portato le donne ad avere una maggiore coscienza di sé. Hanno imparato a pronunciare quella parola in una lingua che non è la loro senza timore, perché è così che, quando lo hai perso, puoi recuperare il rispetto di te stessa.
Mobbing non è solo violenza fisica, ma soprattutto psicologica. E' subdola e sottile perché chi la esercita nei confronti di un altro essere umano, gli fa terra bruciata intorno. Dopo, riuscire a sopravvivere è soltanto difficile.
In un angolino del mio cervello una piccola parte di me è sempre rimasta viva, un po' come il massello del pane, quella piccola parte di pasta trattata in maniera particolare e infine usata per fare lievitare l'impasto per la panificazione. L'unica volta in cui mio marito mi ha lasciato dei segni addosso, ho accettato l'aiuto che mi veniva offerto da una associazione per la tutela delle donne vittime di violenza. Ecco, è così che ho iniziato a lievitare.
Ora lavoro anch'io per questa associazione e mi piace aiutare le donne che come me hanno sofferto, si sono annullate credendo fosse una cosa giusta, normale per le donne e invece prima di essere tali siamo persone con braccia, gambe, un cervello, una bocca per mangiare e parlare, un naso per respirare. Come gli uomini. Poi c'è ciò che ci distingue da loro, ma è ciò che permette la compensazione. Quando questo concetto sarà di dominio pubblico, quando sarà entrato nel cervello e nel cuore delle creature, allora la violenza forse comincerà a sparire. Non è retorica Valentina, ma qualcosa in cui credo fermamente, qualcosa per cui combatto da quando ho ripreso coscienza di me stessa. Ho pagato un prezzo alto: i miei figli che mi hanno ripetuto fino alla nausea: “Ma che cosa ti sei messa in testa! Alla tua età!”. Si sono allontanati da me per stare accanto al padre affranto. Non hanno smesso mai, perdonandogli con tanta indulgenza le sue molte avventure giustificate con il suo bisogno d'amore.
Io non so che cosa ti abbiano raccontato, so che in tutti questi anni mi sono mancati i miei figli, quanto mi sei mancata tu e gli altri miei nipoti. Ho perso i vostri anni più belli, mi piacerebbe vivere da vicino la tua adolescenza, mi piacerebbe parlarti e farti conoscere l'uomo che mi è stato vicino in questi anni.
Lascerò questa lettera alla tua amica del cuore. Conosco lei e la sua famiglia.
C'è il mio indirizzo e il mio numero di telefono. Usali solo se lo vorrai
Ciao Nonna Liviana
 
Valentina girò e rigirò il foglio. Osservò la data e l'indirizzo sulla busta prima con attenzione, poi con orrore. E riaffiorò nella sua mente un episodio lontano, la voce squillante della sua compagna che le diceva eccitata: “C'è posta per te!”.
Aveva preso la busta infilandola in mezzo ai libri e se ne era poi dimenticata.
Ora era lì, ingiallita dal tempo, assieme ad altre cianfrusaglie dentro un cassetto. Come l'avesse trovata sua madre non poteva saperlo. Perché l'avesse rispedita al mittente nemmeno. Come non poteva comprendere tanto accanimento nei confronti di chi aveva difeso il proprio diritto alla dignità, alla propria vita. Ora di nonna Liviana avanzavano i ricordi che lei ereditava assieme ad una casa. Tutto legalmente.
Da qualche parte i rintocchi di un orologio l'avvertirono che doveva tornare a casa, passando prima da sua madre per il rituale saluto serale. Impossibile mancare, continuava ad essere una madre ineccepibile, molto affettuosa e straordinariamente umana. Questo diceva chi la conosceva bene.

IN FONDO AL BICCHIERE

La vidi cadere a terra a due passi da me e, subito dopo, i miei occhi incominciarono a fare la spola tra la distesa degli oggetti sparsi a terra e la faccia vagamente sbigottita della donna. Mi aveva superato pochi minuti prima con un passo incerto e una bicicletta, di un improponibile colore rosa, portata a mano.
“Sarà una drogata!”
Un pensiero fuggente, il mio, distratto da una vetrina ricca di abiti e suppellettili.
Mi fermai, incerta se offrirle il mio aiuto o proseguire indifferente come gli altri.
Lei incominciò ad alzarsi adagio, borbottando qualcosa di incomprensibile a mezza voce. A sedere per aria, si mise a raccogliere il contenuto della sua borsa, disseminato sul pavimento sconnesso di quel tratto di portico. Era una donna minuta, quasi anoressica, e piccola di statura. Sembrava perdersi nell'abito a minuscoli fiori colorati che faceva pensare ad un prato inondato di sole a primavera. Una ciocca di capelli, stopposi e sporchi, le ricadde sulla fronte.
“Posso aiutarla?” mi decisi finalmente a chiedere quando la vidi seduta per terra, la borsa aperta e gli occhi fissi sul resto degli oggetti stesi contro il muro di un bar. Lei non rispose. Quando sembrò accorgersi di me, rimase a guardarmi pensierosa.
Ripetei la domanda:
“Posso fare qualcosa per lei?”
Assunse un'aria imbronciata, quasi di rabbia:
“Aiutarmi? Nessuno mi aiuta! E' evidente, no? Sono caduta e tutti hanno continuato a camminare, come non m'avessero vista. Come non esistessi!”
“Io mi sono fermata!”
Non rispose e cercò nuovamente di alzarsi. La gente guardava e passava oltre. Soppesai l'idea di invitarla al bar. Se non era una drogata quasi certamente aveva dimestichezza con l'alcool. O forse aveva semplicemente un problema!
“Non sono un'alcolizzata. Io bevo e basta!”
Le sorrisi imbarazzata.
“Vuole entrare un momento? Aspetti l'aiuto a raccogliere le sue cose!”
Mi lasciò fare. Di tanto in tanto gettava un'occhiata curiosa e vagamente scettica nella mia direzione.
Dentro il locale, il barista la guardò con l'aria infastidita.
“Forse sa chi è!” dedussi imbarazzata.
La seguii e sedetti accanto a lei ad un tavolo d'angolo.
“Non mi offra un caffè, questa mattina ne ho già bevuti troppi!”
Io alzai gli occhi verso l'orologio appeso sopra il bancone del bar. Segnava le dieci.
“Un bicchiere di latte!”
“Per la signora?”
Il barista restò in attesa della seconda ordinazione. Anch'io la guardai interrogativamente. Lei aprì la bocca per dire qualcosa, sembrò ripensarci e infine ordinò un bitter rosso.
“Tutto bene?” non sapevo, o meglio, non mi veniva altro da dire. Desideravo solo ritornare al mio perbenismo, alla mia spesa non fatta, al mio mondo razionale con qualche sfumatura di idealismo prontamente accantonata.
“Mi chiamo Rita!” tentai di nuovo sorridendo. Lei tardò a stringere la mia mano tesa.
“Barbara! disse poi fissandomi con curiosità Vuole che le racconti la mia storia?”
“Se non ha altri impegni più importanti!” aggiunse in fretta, ma con sfida.
Certo che avevo altre cose da fare! No, non avevo tempo per ascoltare lacrimose storie. C'era un pranzo da preparare, almeno il minore dei miei figli da andare a prendere a scuola e poi anche camice da stirare, e... Si, invece! Avevo tutto il tempo che occorreva. Solo un paio di telefonate per organizzarmi...
Prima di avere una famiglia “normale”, pure io avevo rischiato di diventare come Barbara. Una sbandata, un amore che credevo eterno e invece rimiravo dal fondo di un bicchiere, autocommiserandomi, macerandomi e tante altre cose. A pensarci ora mi viene da ridere e mi sento sciocca. E' passato del tempo, sono stata aiutata, ho risalito la china!
“Allora?” Barbara sembrava impaziente.
“Qui o al supermercato?” dissi d'impulso.
“Qui!” Una parola piccola, un piccolo sussurro.
Aveva chinato la testa e i capelli sembravano ancora più stopposi e sporchi. La tinta ormai non mascherava più la sottile riga bianca della crescita.
Osservai il viso minuto, le ciglia lunghe, setose e opache. Mi chiesi quanti anni poteva avere.
“Ho quarantacinque anni!” Per la seconda volta sembrava avermi letto nel pensiero.
“Siamo coetanee.” Le sorrisi.
Lei sembrava calamitata dalla mia camicetta di lino.
“Fa fresco!” disse puntandomi il dito contro.
“Si, amo il lino.”
Ritornò l'impaccio e la difficoltà, almeno per me, di una conversazione con una sconosciuta.
“Non abito molto lontano da qui.” Iniziò rigirando tra le mani il bicchiere. Indecisa se bere o meno, pareva facesse una specie di danza con il vetro e il liquido che lo colorava. O forse ci dialogava, un dialogo muto che apparteneva solo a lei. Avevo la sensazione di essere un'intrusa, una che stava spiando dal buco della serratura. Ma stavo spiando la sua mente, i suoi pensieri. La stavo giudicando senza nemmeno conoscerla, senza attendere ciò che aveva da dire.
“Abito in un attico!”
Di colpo aveva posato il bicchiere sul tavolo e alcune gocce fuoruscite stavano disegnando, sulla tovaglia, piccoli fiori come quelli del suo vestito.
“Non sono una stupida che va in giro a piangersi addosso! Solo che non ho mai nessuno che abbia tempo di ascoltarmi. Tutti hanno sempre qualcosa da fare!”
Aveva ripreso in mano il bicchiere.
“Vai avanti!”
“Per favore!” aggiunsi poi.
“E' solo un momento di difficoltà. Sai della serie di quando non hai nessuno intorno a cui chiedere di darti una mano!”
Parlava soppesando le parole, come fosse alla ricerca di una certa proprietà di linguaggio. Chissà che mestiere faceva, ammesso che ne avesse uno!
“Mio marito dice che mi lascerà se non smetto di bere. Ma non sono un'alcolizzata. Se bevo un goccio mi sento meglio. Mi dà la carica. Capisci cosa intendo?”
“Se per darti la carica hai bisogno di un goccio, un motivo ci deve essere! Può venire dall'ambiente di lavoro...”
“Per forza ci deve essere un motivo per ogni cosa?”
Di nuovo ebbi voglia di scappare via nel mio mondo. Che s'arrangiasse. Basta con le patetiche storie di vita! Che facesse come me che mi davo i colpi di coda e affrontavo le situazioni!
“Finché è stata al mondo mia madre tutto andava bene. Morta lei è come se si fosse spezzato il filo di una collana. Tu senti il tintinnare delle perle che rimbalzano, rotolano, vanno a nascondersi da qualche parte. Tu le insegui, cerchi di raccoglierle da sotto i tavoli, le sedie, i divani. Non le trovi mai tutte, una manca sempre come fosse volata via. Mia madre è volata via troppo presto, troppo in fretta. Io... Mio padre ci ha lasciato quando ero piccola. Non so dove sia, ma non ne ho mai sentito la mancanza. Mia madre ha fatto in modo che non la sentissi. Lei è vissuta per me. In realtà non è vissuta. E' stata la mia guardia del corpo pronta a proteggermi, a parare i colpi, a farmi da confidente. Mio marito ci ha sposato entrambe. Credo lo abbia sempre saputo. Ma era normale, quello che non trova normale è che, dopo un anno, io mi sciolga in lacrime ogni volta che guardo il ritratto di mia madre. E' nel salotto sai! Non voglio che sia spostato. Lui dice basta. Sbatte le porte e se ne va. Dove non lo so. Così bevo un goccio e cerco di essere carina per farlo contento, ma lui si gira dall'altra parte.”
Aveva assunto un tono piagnucoloso. Il bicchiere era ancora pieno. Continuava quell'assurda danza, incerta se continuare a farsi del male o cercare di risalire la china. Essere la padrona della propria vita o lasciarsi trascinare.
“Da quando hai sentito il bisogno di un goccio? E perché lo chiami goccio e non... che so... aperitivo, bicchiere di vino. Insomma, quello che bevi ha un nome? O no?”
La molla della buona samaritana era ormai scattata. Mi accinsi ad ascoltare il resto, caso mai avesse voluto raccontarmelo.
“Io bevo.” Disse Barbara con decisione.
La guardai senza rispondere.
Lei posò di nuovo il bicchiere e, di nuovo, alcune gocce andarono a formare altri fiori dorati sulla tovaglia.
“Hai figli?”
“Giacomo non ne ha voluti!”
Supposi che Giacomo fosse suo marito.
“Che fai tutto il giorno?”
“Perché, bisogna avere dei figli per avere qualcosa da fare?”
“Non necessariamente! Importante è avere qualcosa da fare. Uno scopo, degli obbiettivi, degli interessi. Qualcosa che ci gratifichi.”
Lei non rispose. Restò ancora a gingillarsi con il bicchiere.
“Esattamente dove abiti?”
“Te l'ho detto. Non troppo lontano da qui!”
Sembrava diffidente.
“Non ti fidi!” accusò.
“Non più di te, mi pare!”
Improvvisamente sorrise.
“Io ti conosco. Ti ho vista al supermercato e anche in quel piccolo teatro che Don Carlo ha ricavato nel locale adiacente la sagrestia.”
Allora anch'io capii chi fosse, capii perché sentivo un istintivo bisogno di esserle amica. Forse non sarei stata capace di aiutarla, ma di ascoltarla sì. Di fare in modo che quel bicchiere restasse sempre pieno, di consentirle di continuare le sue danze per pochi intimi sul minuscolo palcoscenico della parrocchia.
“Devo andare! disse improvvisamente – Torneresti qui domani?”
“Magari mezz'ora prima. Così potremmo fare colazione insieme!”
Annui. Si alzò di colpo e uscì. Io mi attardai a pagare il conto.
L'urlo e l'urto arrivarono all'unisono.
Appoggiata ad una colonna c'era una bicicletta di un assurdo color rosa. Sul selciato una massa di capelli stopposi e un abito a fiori che rivestiva un corpo un po' malconcio.
Barbara restò tre mesi all'ospedale; le curarono le ferite e la misero in condizioni di affrontare il problema dell'alcolismo. Io le feci, se non da mamma, almeno da sorella maggiore. Di quelle che sanno essere toste, se occorre. Dal nostro primo incontro sono passati più di due anni. Barbara ed io lavoriamo insieme: organizziamo spettacoli per il teatrino, manifestazioni culturali, raccolte di beneficenza. Lei oggi è una donna serena, con un suo equilibrio anche con il bicchiere pieno in mano. Sa quando e come bere.
E mentre, da una poltrona di prima fila di un piccolo teatro sconosciuto ai più, applaudo instancabile una piccola donna che sta danzando come una farfalla, penso ai misteriosi meandri del destino, alle sue bizzarrie, a come sia cambiata la vita di Barbara per un incidente, ma anche perché qualcuno si è fermato a tenderle la mano.

IL MURO

Era grigio come quelle giornate lunghe, infinite. Nonostante i suoi sforzi, peraltro condizionati da un'immobilità forzata, non riusciva a vedere altro al di là del muro. Prima dell'incidente non si era curata eccessivamente di ciò che poteva esserci oltre. Sì, apparteneva ad una casa, ma tutto finiva lì!
Se anche incrociava i suoi abitanti, si comportava come fossero trasparenti. Non per alterigia. No, a lei sarebbe piaciuto parlare con la gente, ma Carlo non ne voleva sapere. Diceva sempre che erano un branco di curiosi impiccioni curiosi e le donne pescivendole da cortile. Aveva cercato più volte di fargli capire il suo punto di vista, di spiegargli i suoi desideri, ma era stato come scontrarsi con il muro della casa di fronte, indistruttibile e impenetrabile.
Sospirò. Se almeno ci fosse stata Mercedes! La prima volta che suo marito aveva pronunciato quel nome, Laura aveva creduto parlasse di un'automobile! Si trattava invece di una donna il cui passato avventuroso riusciva ad incuriosire anche un uomo come Carlo. Misteri che nessuno era mai riuscito a penetrare. Un confine invalicabile, impossibile da sconfiggere. Però lei entrava nelle case degli altri, compresa quella dal muro grigio, e le raccontava vizi e virtù dei suoi abitanti.
Mercedes la lavava, la pettinava, si occupava delle faccende domestiche, interrompeva la staticità delle ore.
Da giovane doveva essere stata una bella donna, almeno a giudicare dalla tracce ancora evidenti sul viso. Il corpo, quello no; non solo per i salsicciotti ben piazzati nei punti strategici, ma anche per una artrite all'anca che le rendeva la camminata fortemente claudicante. E se anche lei si fosse trovata a camminare zoppa? Nessuno le aveva dato certezze! Neppure i medici. Ma quelli non le danno mai!
Laura sospirò. Il dolore al bacino stava diventando insopportabile, ma la tentazione di muoversi era frenata dal timore che una gamba scivolasse dal letto. Erano attaccate al suo corpo come fili che il burattinaio non riusciva più a gestire. Tre fratture al bacino e il rischio di immobilità a vita. Nella sua vita c'era già una sorta di paralisi per una sorta di non comunicazione con Carlo. Un muro, più impenetrabile di quello della casa di fronte!
Spesso si era chiesta quando fosse sorto. Se un po' per volta o all'improvviso. Che cosa aveva potuto determinarlo. Come mai non se ne era accorta! Non era mai riuscita a darsi delle risposte.
Le tornò in mente un episodio, lassù alla diga nella Valgrisanche. Lui, il sedicenne scontroso di cui si era innamorata vent'anni prima, era rimasto a lungo a fissare l'acqua torbida del bacino, i piedi affondati nel fango. Lei non era scesa dall'auto. Non si era mossa nemmeno quando aveva percepito quella retromarcia tanto azzardata. Carlo aveva ripreso a parlare il giorno dopo, allegro e burlone come succedeva di rado.
Da fuori qualcuno chiamò qualcun altro. Una finestra si aprì. Voci e risate di bimbi, forse i gemelli. Li aveva intravisti qualche volta, e c'era stato, da parte della loro madre, un tentativo di conversazione naufragato miseramente contro i suoi mugugni di risposata.
Di quella stanza Laura conosceva ormai ogni granello di polvere. Lo specchio era quello di sempre, come il televisore posato sul comò e il grande armadio laccato di bianco. Girò di nuovo la testa verso la finestra. Voleva sentire quello che non vedeva. Quello che non poteva vedere. E non solo per la sua immobilità.
C'erano, da parte sua, parecchie resistenze verso il mondo esterno, una paura innata di uscire dalla propria tana, di vedere cose poteva esserci oltre i muri.
Eppure c'era stato un tempo in cui lei era diversa. Laura era stata una bambina straordinariamente vivace. Nel cortile e tra le pareti di casa, risuonava spesso la sua risata argentina e le sue urla ribelli per le trecce che sua madre si ostinava a farle. Nessuna delle sue amichette le aveva! Ormai non usavano da anni!
Poi era cresciuta, al liceo aveva conosciuto Carlo, diventato in fretta il suo asse portante, il baricentro dei suoi pensieri. Tanto innamorata da lasciarsi avviluppare dalla sua introversione. Ed era cambiata.
Scostò una ciocca di capelli resi rigidi dal detersivo ormai secco. Dell'incidente ricordava poco, e meno che mai come avesse fatto a trascinare con sé, in quel volo oltre al portellone dell'auto in corsa, il fustino del detersivo liquido per i piatti. Un bagno. Chiuse gli occhi e immaginò di essere dentro una enorme vasca piena di acqua azzurra, profumata. E immaginava i capelli fradici e puliti che sembravano ancora più lunghi. E la mamma dei gemelli che le parlava. Chissà com'era suo marito. Non lo conosceva. Mercedes le aveva raccontato che era un funzionario di banca e, come hobby, allenava la squadra di calcio della loro parrocchia.
Qualcuno aprì il portone del suo palazzo. Forse era proprio lei che tornava. Il rumore della chiave nella toppa e nella sua solitudine entrò un uragano, quello che mette a soqquadro l'ordine delle cose.
"Sono qui. Ha bisogno? Perché, se vuole... oppure... altrimenti..."
Parlava senza interruzioni, nemmeno per tirare il fiato. La bocca a cuore nel viso paffuto, gli occhi tondi e la fascia nei capelli, sembrava la Trudy di Gambadilegno! Mercedes era lì, per aiutarla, per consolarla, per colmare i vuoti lasciati dal suo marito fantasma. Laura si lasciò travolgere da un fiume di parole. Rotolavano, rimbalzavano, affondavano e tornavano a galla. Attraverso i muri della stanza o delle porte rimaste aperte.
"Mi piacerebbe essere come lei. Così la gente mi parlerebbe!"
"E io parlerei a loro."
Un desiderio di cui aveva pudore, nel quale si cullava sempre più frequentemente. Mercedes prese a spingerla verso l'altro lato del letto, adagio, per non farle male. E finalmente lo vide. Un minuscolo frammento di cielo, quello che poteva vedere solo quando le cambiavano le lenzuola. Quel giorno era azzurro, terso come solo può esserlo in una fredda giornata di inverno. Allora fare scomparire il muro si poteva! Non ci aveva mai pensato. L'idea, un embrione, ingigantì in fretta. Fino ad esplodere. "Mercedes, può chiedere alla mamma dei gemelli se viene a farmi una visita?”
“Non importa quello che dirà mio marito." Aggiunse in fretta!
La bocca a cuore prese ad allargarsi sempre più: sembrava non dovesse arrestarsi mai.

IL PESCATORE

“Ma voi scrivete sempre?” aveva chiesto senza guardarmi.
“Quasi.” avevo risposto guardinga.
Al porto ci venivo spesso. Mi mettevo in un angolo, seduta a gambe incrociate, a leggere, a scrivere, a riflettere. E di tanto in tanto alzavo gli occhi per osservare quell'insenatura naturale, inondata dal sole al mattino e circondata dall'ombra dei monti prima che facesse sera.
Passata la curiosità iniziale, in paese nessuno sembrava più fare caso a me, una solitaria sempre in calzoncini e Tshirt, inseparabile dal suo taccuino con matita annessa.
“E andate sempre in giro con il quaderno e la matita?”
“Più o meno. Mi servono per prendere appunti.”
“Ma che scrivete?”
“Storie di vita, romanzi...”
“E sono vere le storie che scrivete?”
“Spesso!”
Aveva ripreso a lavorare sulle reti. Io rimasi a guardare la sua “polo” rossa, stinta e lisa e i pantaloni con le toppe ai ginocchi, tenuti in vita da un grosso spago.
Controllava le reti con sveltezza e altrettanto rapidamente eseguiva le riparazioni.
Improvvisamente si fermò. Immobile tra due barche rovesciate, sembrava annusare il vento come fanno i cani quando avvertono la selvaggina, un pericolo o qualcosa di insolito. In quel corpo in tensione solo le narici sembravano vive. Guardava forse le vele, ali di gabbiano all'orizzonte.
Poi mosse il capo verso i monti quasi rispondesse a un richiamo. Anche i brevi sospiri di brezza, che di tanto in tanto interrompevano la calura pomeridiana, sembravano sospesi.
Il pescatore, o quello che credevo fosse tale, si voltò dalla mia parte. Con l'indice e il medio alzò ed abbassò la visiera del berretto da marinaio.
La faccia cotta dal sole era una ragnatela di rughe.
“Questo non è il mio mestiere.”
Non commentai. Non volevo ascoltare quella che, supponevo, fosse la solita storia sciropposa di miseria e croste di pane.
Feci per alzarmi.
“Non volevo disturbarvi!”
Mi fermai. Lui aveva continuato a rattoppare reti. Di nuovo lo osservai o, meglio, osservai la pacatezza di cui sembrava impregnato.
“Nessun disturbo. Posso sedermi qui, su questa barca?”
Annuì.
Per un poco restai a cincischiare con i fogli, tracciando dei ghirigori con la matita. Cercavo qualcosa da dire, volevo farlo parlare.
Fu lui a togliermi dall'impaccio.
“Vedete quel monte? Quello con la cima brulla che sembra toccare il cielo? E' là, in mezzo ai suoi boschi, che un giorno sono cambiato dentro.”
“Pescatore – monte – illuminazione.” Scrissi nel mio taccuino
Si era seduto anche lui sulla chiglia di una barca rovesciata. Da una tasca aveva estratto un pacchetto di Nazionali stropicciato e aveva acceso la sigaretta sfregando il cerino su un minuscolo sasso, raccolto tra la sabbia. Dopo lo aveva lanciato lontano e con lui ero rimasta a guardare i cerchi nell'acqua. Aveva detto di chiamarsi Giovanni e che la sua città di origine non era quella. Lì era arrivato anni prima per caso e, per un qualcosa che gli era capitato, aveva deciso di restare.
Il villaggio al quale lui e la moglie erano diretti, qualche chilometro più a sud lungo la costa era uno di quei posti dove le giornate sono completamente organizzate dagli animatori. Un posto dove tutto è programmato, tutto costruito su misura per gli ospiti. Un posto dove non c'è spazio per l'immaginazione.
Stava litigando con sua moglie quando perse il controllo dell'auto che, uscita di strada, andò ad arrestarsi contro una vecchia quercia. Oltre c'era una profonda scarpata e, più giù, le rocce e il fiume. Parlava adagio, con un accento lievemente strascicato. Accese l'ennesima sigaretta e riprese gettando un'occhiata al mio telefonino.
“Non esistevano ancora i cellulari. – scarabocchiai veloce – Furono costretti ad aspettare parecchie ore, prima che passare qualcuno.”
Giovanni raccontò della sua auto portata in paese al traino di due placide mucche, del suo inveire contro il meccanico inetto e sprovvisto di carro attrezzi, del suo attendere furioso l'arrivo di quel pezzo da sostituire.
Sua moglie si era placata, sembrava completamente a proprio agio fra la gente del posto. “Avevano trovato alloggio presso una famiglia che affittava stanze e, volendo, per una cifra più che ragionevole, offriva pure alloggio. La rabbia continuava a riempirgli le giornate.” aggiunsi di mia iniziativa.
Lui proseguì parlando del suo camminare avanti e indietro attraverso l'unica strada di quello scricciolo di paese, fino a quando decise di spingersi lungo il sentiero che, qualcuno gli aveva detto, portava alle rovine di un castello. Si era incamminato solo, in un pomeriggio inoltrato, sotto un cielo che prometteva un temporale. Quando le prime gocce cominciarono a cadere, pensò di tornare indietro, ma non lo fece. Non sopportava di restare un solo minuto fra quella gente che si lasciava trasportare dal tempo... Di tanto in tanto Giovanni si interrompeva e restava in silenzio per un poco quasi a soppesare ciò che avrebbe detto dopo. Riprendeva con una specie di cantilena, quasi una ninna nanna. La voce, roca dal troppo fumare, faceva pensare alle carezze del vento sulle rocce.
Aveva ripreso ad aggiustare reti spiegando di quanto fosse poco avvezzo al non fare niente, lui, un tempo giovane dirigente rampante e di quanto poco conoscesse la montagna, le sue bellezze e i suoi pericoli.
Due bambini passarono correndo. Una voce di donna chiamò. Noi due stavamo lì, lui a rievocare e io a scrivere.
“Giovanni raccontava del grosso temporale e del cielo che sembrava essersi frammentato fra le fronde degli alberi per piombargli addosso, con sempre maggiore violenza, mille e una volta accecandolo, respingendolo, cancellando ogni traccia di sentiero. Non aveva mai pensato di potere avere paura e invece gli stava arrivando addosso, viscida come un serpente. Lo attanagliava fino a soffocarlo... Scivolò e rotolò in una caduta che sembrava inarrestabile.
Quando riprese i sensi c'erano rimaste sole le ultime code del temporale. Il cielo era ancora gonfio di nuvole. Provò a guardare l'ora, ma l'orologio si era rotto.”
Giovanni ansimava leggermente mentre ricordava il suo inciampare sulle radici degli alberi che spuntavano dal terreno, il suo farsi strada tra rovi che gli graffiavano la faccia. In quel lento misurare le parole, sembrava essere diventato un'altra persona. Le sue mani non erano più nervose sulle reti e quando portava la sigaretta alle labbra, lo faceva come se si lasciasse trasportare dal tempo di quel paese e di quel luogo.
Riuscivo e vederlo, attraverso il suo racconto, raggomitolato su se stesso, dolorante per la caduta, fradicio di pioggia. E riuscivo a vedere anche l'espressione della sua faccia quando si era reso conto di essere, per la seconda volta nel giro di pochi giorni, sul ciglio di un burrone.
Mi pareva anche di vedere il vecchio, di cui Giovanni mi stava parlando, appoggiato al tronco di una piccola, giovane quercia.
“Sembrava un pastore. – scrissi rimpiangendo il mio portatile – I suoi abiti non erano bagnati; molto probabilmente proveniva da un ricovero nei paraggi.”
Così ragionava Giovanni mentre cercava di parlargli nel vento che portava via la voce. L'uomo gli gettò addosso il proprio mantello, poi tornò da dove era venuto sordo alle suppliche di non lasciarlo solo. Restò a terra senza voce, dolorante e infreddolito, a pensare. D'altra parte non gli rimaneva altro, incapace com'era di muoversi e con una slogatura a una caviglia. In ognuna delle gocce di pioggia che aveva ripreso a cadere, c'era un frammento del suo passato. Il suo frenetico correre, le amicizie utili alla carriera, il rapporto sempre più distratto verso la sua compagna, l'arroganza con i subalterni, le scuse verso suo padre che non vedeva da un anno, le segretarie che lo rincorrevano per riassumergli le notizie dei giornali o l'andamento della borsa. Mai un momento per sé stesso, per una riflessione, per dormire senza pensieri. Una vita convulsa, un treno in corsa.
Quando dal paese arrivarono i soccorsi, si dissero dispiaciuti del ritardo, ma sembrava che le sue richieste di aiuto provenissero sempre da punti diversi, come giocassero a nascondino. Lui però non avevo chiamato.”
Di nuovo aveva girato la faccia verso le montagne ed era rimasto in ascolto.
Insistette nel dire che quel vecchio lo aveva visto sul serio, anche se in paese si affannavano a spiegargli che si trattava di un pastore, appunto, sfracellatosi proprio nel burrone dove aveva rischiato di precipitare lui.
Al di là della paura, dei fastidi vari, ciò che aveva maggiormente scosso Giovanni erano quelli che riteneva segnali. Il burrone dove non era precipitato, la vecchia quercia che aveva salvato lui e sua moglie e la giovane quercia che sembrava aver vegliato su di lui, la gente generosa che lo aveva aiutato con discrezione. Si era chiesto se non fosse per caso superstizioso. Oppure fosse tutto semplice suggestione dovuta a un evento inusuale per lui.
Nelle ore, apparentemente interminabili, dove in certi momenti disperò di venire ritrovato, Giovanni ebbe modo di riflettere. E si convinse che quanto gli era successo era servito per dar corpo al bisogno di un mutamento interiore, quasi certamente, avvertito anche prima ma a livello inconscio. C'era da un lato la necessità di essere razionale, dall'altro l'impellenza di fermarsi, di smetterla con la vita frenetica. Dentro non era più lui.
Decisero, lui e sua moglie, di restare. In breve organizzò la nuova vita tra gli abitanti di quel grappolo di case e fatta di tante piccole e semplici cose.
C'era stato un mutamento, una trasformazione nel concepire il suo rapporto con gli altri. Ma non era solo per quella vena artistica che si era scoperto di colpo. Poco per volta aveva adottato il gergo del luogo, si era incastonato nei ritmi del paese. Giovanni affermava di avere acquisito calma e pace interiore; diceva che in paese lo consideravano un saggio. Solo un'attenta osservazione delle sue mani, sempre nervose e scattanti, poteva fare intuire l'uomo che un tempo era stato.
Al bosco tornava quando sentiva la necessità di riflettere, di meditare, di stare solo con sé stesso. Il pastore non lo aveva visto più. La quercia era cresciuta.
I momenti liberi li trascorreva a chiacchierare e ridere con sua moglie, a giocare con i nipoti, a pescare, ad aggiustare le reti di tutti.
Un ragazzo venne a dirgli qualcosa nel dialetto locale. Lui sorrise e la sua faccia di pietra tornò liscia come se il tempo e la vita non l'avessero mai incisa.
L'ennesima sigaretta si stava spegnendo; le volute di fumo salivano gioiose verso l'alto per dissolversi nell'aria che, a momenti, sembrava fatta di polvere di sole.

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