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Foto profilo

Mingoia Rosa: nasce a Palermo il 4 gennaio 1961. Diplomata al liceo classico,intraprende gli studi universitari conseguendo la laurea in Giurisprudenza e una specializzazione biennale in “Diritto delle Regioni e degli Enti locali”.
Lavora dal 1990 presso l’Università degli Studi di Palermo come funzionario amministrativo. 
Sin da piccola ha una predisposizione particolare per la pittura. Dipinge con diverse tecniche (pittura su vetro, carboncino e olio su tela) riscuotendo apprezzamenti da critici d’arte che la citano in alcune riviste (Effetto Arte diretto da Paolo Levi). Viene selezionata nel 2013 nella prima biennale internazionale d’arte di Palermo. Ha esposto in diversi luoghi (Museo Civico d’Arte Moderna e Contemporanea “Giuseppe Sciortino” di Monreale nel gennaio 2013, nella Galleria d’arte di Villa Niscemi a Palermo nell’ottobre del 2013, in Chiese e associazioni culturali ecc).
Nel 2013pubblica per Edizioni People &humanitiesun libro sulla vita di santa Rosalia, dal titolo “Rosalia De’ Sinibaldi – eremita per amore” scritto in collaborazione con il marito.
Nel 2014 pubblica un romanzo d’amore dal titolo “Si può sempre ricominciare”. 
Qualche anno dopo predispone la sceneggiatura teatrale del romanzo pubblicato nel 2013 “Rosalia de’ Sinibaldi” e si classifica seconda per la sezione Teatro nella "XVIII edizione del Premio internazionale Il Convivio 2018, Poesia, prosa ed arti figurative e XIII edizione del premio Teatrale Angelo Musco".
Amante della recitazione, nel 2017 e nel 2018 partecipa a corsi per “operatore teatrale” e per “attore” con saggio finale.
Nel 2018 consegue l’attestato di merito per il triennio di studi teologici. Scrive articoli e rilascia interviste presso Radio Spazio Noi dell’Arcidiocesi di Palermo.
Nel 2019 partecipa al concorso Premio per opere saggistiche inedite “Giuseppe Antonio Borgese” de “Il Convivio” e riceve la segnalazione di merito per l’opera “Crescere nella misericordia di Dio” con dignità di pubblicazione.
Partecipa attivamente alle attività pastorali della Parrocchia “Sacro Cuore di Gesù” di Palermo, in particolare come componente della Milizia dell’Immacolata ed esercita, con mandato del Vescovo, il ministero di ministro straordinario dell'Eucarestia. 





Con Carta e Penna ha pubblicato:

IL QUIETO RIPOSARE DELL'ANIMA

Copertina libro
Dalla prefazione di Maria Elena Mignosi Picone:
Rosa Mingoia ci offre la sua silloge di poesie dal titolo “Il quieto riposare dell’anima” che racchiude poesie che ella ha composto nel corso dei suoi anni, da quelli giovanili a quelli della maturità. È sempre giovane come lo è una persona che si accinge a compiere i sessant'anni, ed è proprio per questa ricorrenza che ha voluto farsi questo regalo: la pubblicazione di tutte le poesie scritte precedentemente e sino ad ora. Rosa Mingoia, persona sensibile e delicata, ridente e radiosa, di quella bellezza pura, autentica e genuina, che non è solo bellezza del fisico ma anche riflesso dello spirito, spirito, come il suo, rivolto alla terra e da questa al cielo, una persona che guarda all'orizzonte, che sente entro di sé i palpiti del divino.
È una donna ricca di fede, e di fede viva, vissuta nella preghiera e nella operosità, e anche nell'arte, nella poesia. È qui, in questo libro, che si avverte un crescendo, un anelito, pur nelle circostanze e nelle incombenze, della vita giornaliera (è sposa, madre, ha un lavoro di responsabilità nell'Università di Palermo, è poetessa e anche pittrice), si avverte un crescendo, dicevamo, della presenza della vita divina in lei, e che, illuminata dallo Spirito Santo, si avvia gradualmente ad una progressiva maturazione. È la ricerca dell'Assoluto, pur nella contingenza della vita, la ricerca di ciò che non passa su tutto ciò che passa, è la ricerca della vita eterna, già pregustata quaggiù. E Rosa Mingoia la conosce bene e la fa assaporare nelle sue poesie nelle quali ciascuno, animato da anelito del Trascendente, può riconoscersi. È una poesia dunque, imbevuta dell'acqua dello Spirito Santo, una poesia intrisa di spiritualità, intrisa di fede.
Nelle sue poesie troviamo anche la compassione verso l’umanità dolente. Molto vivo in lei è il sentimento, in questa opera, della misericordia. L’attenzione agli ultimi, agli infelici, agli oppressi. Ecco allora l’amore tradito, l’amore mancato, ecco l’amore dato male; non manca la sofferenza per la malvagità umana, con gli effetti della guerra, la violenza, le usurpazioni, e con riferimenti a fatti storici come la Shoah, o il fenomeno dell’Isis con il terrorismo. Alla compassione si accompagna anche una grande delicatezza con cui la poetessa esprime le sue considerazioni verso le vittime, la tenerezza, e invita i malvagi alla conversione. Ed esorta sempre al bene. Alla comprensione, al perdono.
Risaltano i valori cristiani; tutta l’opera è a questi improntata.
Rosa Mingoia, oltre ad essere una praticante, è anche attiva nella Chiesa in cui svolge il servizio di ministro straordinario della Eucarestia e di laica consacrata all’Immacolata, partecipa ai ritiri spirituali e a corsi di formazione cristiana. Tutto questo si avverte nelle sue poesie che ricalcano fedelmente gli insegnamenti della Chiesa.
Tenerissime sono poi le poesie che riguardano gli affetti familiari: le poesie al padre, alla madre, alla sorella, passata recentemente ad altra vita. Ma anche molto tenere quelle alle amiche, alle compagne di scuola, alcune delle quali ora non ci sono più. Per non parlare di quelle rivolte ai suoi amori più grandi, il marito e il figlio. Qui l’amore coniugale e materno è sviscerato in tutti i suoi particolari, in tutti i suoi aspetti, sin nelle minime emozioni degli innamorati; è sviscerato in tutte le sue ripercussioni sullo spirito.
È un libro delizioso, potremmo dire completo sotto l’aspetto letterario, umano, morale, spirituale. Un libro ricco sia di materia, il numero delle poesie è considerevole, sia di spirito.
Profondità di sentire, delicatezza d’animo, sensibilità spiccatissima fanno di Rosa Mingoia, scrittrice fine anche sotto l’aspetto formale poiché il suo stile è terso, limpido, cristallino, forbito e squisitamente elegante, fanno di lei, dicevamo, una letterata di ottima forgia, una letterata di elevata statura.
 


Per i lettori di Carta e Penna ha scelto:

I PARROCCHIANI DI FRA' GIUSEPPE (LI PARRUCCHIANI RI FRA' PEPPE)

PREFAZIONE


Commedia comica e drammatica nel contempo, ambientata nel dopoguerra.
Fra’ Giuseppe, anziano prete di un paesello di pochi abitanti si ritrova a relazionarsi con una mentalità popolare dell’entroterra siciliano.
La visione distorta di un ampio numero di paesani sulla religione cristiana avvilisce questo povero Parroco che tenta in tutti i modi di istruire i parrocchiani senza ottenere alcun successo.
Se a questo si aggiunge un intreccio di equivoci scaturiti da comportamenti scandalosi, capricci e delusioni, ne esce fuori un cocktail di umorismo e drammaticità.
La storia però si conclude con un lieto fine perché la realtà va sempre oltre ogni immaginazione e può regalare meravigliose sorprese.


I PARROCCHIANI DI FRA’ GIUSEPPE (Li parrucchiani ri Fra’ Peppe)

PRIMO ATTO

Fra’ Giuseppe, parroco della Chiesa Madre di un piccolo paese della Sicilia, sta confessando.
Scenografia: un tavolo lateralmente con diverse carte sopra e due sedie, un attaccapanni con i paramenti liturgici (abito che indossa il sacerdote per celebrare la messa), una sedia nel centro del palco, un cuscino a terra ai piedi della sedia per la confessione e un grande Crocifisso appeso alla parete.
Personaggi: Fra’ Giuseppe seduto al centro del palco, un fedele in ginocchio e tre in piedi in attesa del loro turno.
 
Fra’ Giuseppe: Ti assolvo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Per penitenza reciterai tre Ave Maria. Vai in pace.
Parrocchiano: pace e bene a lei, Fra’ Giuseppe.
Esce di scena.
Si inginocchia una donna di mezza età per la confessione.
Fra’ Giuseppe: Figliola, da quanto tempo non ti confessi?
Teresa: 'n annu patri (un anno padre).
Fra’ Giuseppe: Un anno è  lungo. E dimmi, quali peccati ricordi?
Teresa: Siccomu a memoria nun mi aiuta, me li haju scritti accussì non ni dimentico mancu unu (Siccome la memoria non mi aiuta, li ho scritti così non ne dimentico neanche uno).
Fra’ Giuseppe: Bene figliola, hai fatto quindi un esame di coscienza, come Dio comanda.
Teresa: Si Patri. Mi lessi i deci cumannamenti e scrissi i mia piccati (Si padre, ho letto i dieci comandamenti e ho scritto i miei peccati).
Fra’ Giuseppe: Dimmi dunque.
Teresa: Vossia u sapiti cùosa dici u primu cumannamento ? (Lei lo sa cosa dice il primo comandamento?)
Fra’ Giuseppe: Se non lo so io (con tono impaziente), continua figliola.
Teresa: Havi raggiuni.  Lu sacciu chi Vossia sapiti tuttu. Ma iu ormai nun sunnu cchiù 'na ragazzina e u cirivìeddu  nun mi travagghia beni. U primu cumannamento dici “io sunnu u signuri Diu to'. Nun avirrai àutru Diu all'infuori ri me”. Uora iu sempri devota sunnu stata o Signiruzzu, u prego jornu e notti. Pirò…  mi deve consentire, patri Peppe, i mia figghi venunu apprima ri ogni altra cùosa (Ha ragione. Lo so che Vossia sa tutto. Ma io ormai non sono più una ragazzina e il cervello non mi funziona bene. Il primo comandamento dice “Io sono il Signore Dio tuo. Non avrai altro Dio all’infuori di me”. Ora io sempre devota sono stata al Signore, lo prego giorno e notte. Però… mi deve consentire, padre Giuseppe, i miei figli vengono prima di ogni altra cosa).
Fra’ Giuseppe: E che mi vuoi dire con questo!?
Teresa: Patri, m’aviti a capìri.  I mei figghi sunnu pezzi ri core.  Mi farei ammazzari pi iddi.  Unu partì pi l’america, a circari travagghiu e iu haju a so' fotografia supra u miu comò.  Mu vasu, gli parlo, nun mu pozzu scurdari. E Vossia pensa chi iu pozzu amare Gesù Cristo cchiù ri miu figghiu? Po ìessiri a la stissa manera ma chiu assai no.  Iu li haju partoriti i mia picciriddi, sunnu carni ri la me carni. (Padre, mi deve capire. I mei figli sono pezzi di cuore. Mi farei ammazzare per loro. Uno partì per l’America, a cercare lavoro e io ho la sua fotografia sul mio comodino. Me lo bacio, gli parlo, non me lo posso scordare. E Vossia pensa che io posso amare Gesù Cristo più di mio figlio? Forse allo stesso modo, ma di più no. Io li ho partoriti i miei bambini, sono carne della mia carne).
Fra’ Giuseppe: Ma benedetta figliola, cosa c’entra questo con l’amore verso Dio! Il Signore non ti chiede certo di non amare i tuoi figli. Il primo comandamento ci insegna che non dobbiamo adorare gli idoli perché uno solo è nostro Signore.  I figli sono una grazia di Dio, non te lo devi scordare. Il Signore deve essere sempre al primo posto… e poi vengono i tuoi picciriddi.
Teresa: hm.  nun lu sacciu.  Trùoppu mi chiedete patri, però… ci haju pinsari (Hm... non lo so. Troppo mi chiede padre, però… ci devo pensare).
Fra’ Giuseppe: Ah, così è? Ci devi pensare? E allora torna quando hai le idee più chiare.
Teresa: Chi fa, mi manna via? (Che fa, mi manda via?)
Fra’ Giuseppe: Ma tu perché venisti? Per confessarti o per contestare la Parola di Dio.
Teresa:  E patri, mi scusasse…se vossia rici chi si deve fari accussì, vorrà diri chi accussì sarrà fattu  (E padre, mi scusasse…se lei dice che si deve fare così, vorrà dire che così sarà fatto).
Fra’ Giuseppe: Ecco, brava, vedo che hai capito, c’è altro?
Teresa: Patri…. haju sulu accuminciato! Vossia u sapiti nzoccu c’è scritto ntu secunnu cumannamento? (Padre… ho appena cominciato! Lei lo sa che cosa c’è scritto  nel secondo comandamento?)
Fra’ Giuseppe: Di nuovo?
Teresa: Si, si, havi raggiuni.  U dicu tantu pi ripassarlo.  U secondo cumannamento dici chi nun si deve ammuntuari u nomu ri Diu invano.  Ùora iu nun mi permetterei mai ri bestemmiare contru u Signuri, Diu stissu m’è testimone. Pirò havjti sapiri chi a scorsa istati pi u forti càvuru, mi seccò tuttu u raccolto.  Iu pregavo u  Signuri  pi far chiùoviri, puri i cannile accese a Maronna, ma nè a Virgini Maria  né su Figghiu mi hannu ascutato. Iu lu sacciu chi nun sunnu all’altezza di la nostra Regina do' celu, lu sacciu chi Gesù Cristo jè nnostru re, sirbuto dagli angeli e dai Santi, ma caru patri, cùosa dici sempri vossia ai parrocchiani…? (Si, si, ha ragione. Lo dico tanto per ripassarlo. Il secondo comandamento dice che non si deve nominare il nome di Dio invano. Ora io non mi permetterei mai di bestemmiare contro il Signore, Dio stesso m’è testimone. Però deve sapere che la scorsa estate per il forte caldo, mi seccò tutto il raccolto. Io pregavo il Signore per far piovere, pure le candele accesi alla Madonna, ma nè la Vergine Maria,  né suo Figlio mi hanno ascoltato. Io lo so che non sono all’altezza della nostra Regina del cielo, lo so che Gesù Cristo è nostro re, servito dagli angeli e dai Santi, ma caro Padre, cosa dice sempre vossia ai parrocchiani…?)
Fra’ Giuseppe: Cosa dico?
Teresa: Bussate e vi sarrà aperto.  Chiedete e vi sarrà datu.  Uora iu haju tuppuliato e nuddu mi havi aperto, haju chiesto e nenti mi hannu datu.  Cùosa avja a fari secunnu vuatri? (Bussate e vi sarà aperto. Chiedete e vi sarà dato. Ora io ho bussato e nessuno mi ha aperto, ho chiesto e niente mi hanno dato. Cosa dovevo fare secondo voi?)
Fra’ Giuseppe: Dimmelo tu, cosa hai fatto?
Teresa: Litigai cu u Signuri.  Gli dissi: nuatri da ùora nun semu cchiù nenti e poi me ni andai dalla comare Giuanna a sparlarlo (Litigai con il Signore. Gli dissi: Noi da adesso non siamo più niente e poi me ne andai dalla comare Giovanna a sparlarlo).
Fra’ Giuseppe: Pure questo?
Teresa: Puri chistu.  vossia mi deve capìri.  Ero trùoppu siddiata.  Lu sacciu chi haju sbagghiatu e chiedo perdono.  Nuddu mi avìa rittu chi u signori avìa bisùognu ri 'n po’ ri tempu pi rispùnniri (Pure questo. Vossia mi deve capire. Ero troppo arrabbiata. Lo so che ho sbagliato e chiedo perdono. Nessuno mi aveva detto che il Signore aveva bisogno di un po’ di tempo per rispondere).
Fra’ Giuseppe: ma che stai dicendo?
Teresa: Si patri.  Avìa raggiuni vossia, pazienza bisogna avere…pazienza.  Iu nun l’ho avuta e haju piccatu.  Ma u Signuri chi jè misericordioso, ascoltò u stissu i meo preghiere e all’indomani fici chiùoviri pi tri jorna (Si padre. Aveva ragione lei, pazienza bisogna avere…pazienza. Io non l’ho avuta e ho peccato. Ma il Signore che è misericordioso, ascoltò lo stesso le mie preghiere e all’indomani fece piovere per tre giorni).
Fra’ Giuseppe: Mi pari che sei n’anticchia confusa.  A prossima simana, inizia a catechesi supra i deci paroli.  Viri ri vìeniri chi ni hai bisùognu (Vedo che sei un poco confusa. La prossima settimana, inizia la catechesi sulle dieci Parole. Vedi di venire che ne hai bisogno).
Teresa: Ma iu sugnu 'gnuranti, patri, nun haju tìesta pi sturiari (Ma io sono ignorante, padre, non ho testa per studiare).
Fra’ Giuseppe: E tu vieni lo stesso. Lo vuoi sapere cosa ci vuole dire lu Signiruzzu o vuoi sempre fare come ti passa per la testa?
Teresa: Ma chi dici, patri? iu gli vogghiu beni a lu Signuri.  Mica vogghiu iri all’inferno (Ma che dice, padre? Io gli voglio bene al Signore. Mica voglio andare all’inferno!)
 Fra’ Giuseppe sospira: Va bene, continua… se hai altro da confessare.
Teresa: E… si patri… nun haju finito.  Ci fussi u quartu cumannamento (E… si padre… in effetti non ho finito. Ci sarebbe il quarto comandamento).
Fra’ Giuseppe: Onora il padre e la madre.
Teresa: Iddu è! (Per l’appunto).
Fra’ Giuseppe: Cosa hai fatto in proposito?
Teresa: Cùosa nun fici volete diri!  (Cosa non ho fatto volete dire!)
Fra’ Giuseppe spazientito: Cosa hai fatto, cosa non hai fatto, parla per l’amor del cielo!
Teresa: Patri, siti nirbuso? (Padre, vi state arrabbiando?)
Fra’ Giuseppe: No, non mi sto arrabbiando, ma tra poco devo celebrare la messa.
Teresa: Havi raggiuni, havi raggiuni… vaiu lestu. Vossia  u sapiti quantu vogghiu beni a miu patri e a me matri.  Quannu mi chiamano iu corro sempri. Teresa, jè finito u pani, u accatti?  E iu u accattu.  Teresa, finì u furmaggiu, u accatti? E iu u accattu. Teresa, to' patri havi duluri gliela spalmi a pomata? E iu sempri a disposizione, jornu e notti, notti e jornu. Puri pi a festa nun pozzu manciàri tranquilla cu a meo famigghia.  Ùora iu  dissi a me matri.  L’avete a pensione? prendetevi 'na picciuttedda pi casa, 'na povera orfanella, e vi fate servire.  Sapete cùosa mi rispose? (Ha ragione, ha ragione, vado veloce. Lei lo sa quanto voglio bene a mio padre e a mia madre. Quando mi chiamano io corro sempre. Teresa, è finito il pane, lo compri?  E io lo compro. Teresa, finì il formaggio, lo compri? E io lo compro. Teresa, tuo padre ha dolori, gliela spalmi la pomata? Ed io sempre a disposizione, giorno e notte, notte e giorno. Pure di domenica non posso mangiare tranquilla con la mia famiglia. Ora io dissi a mia madre. L’avete la pensione? Prendetevi una ragazza in casa, una povera orfanella, e vi fate servire. Sapete cosa mi rispose?)
Fra’ Giuseppe: No. Non lo so. Cosa ti disse.
Teresa: Ma chi stai farneticando? Cu to' patri chi insegue i belle fimmine iu mi mìettu l’acqua rintra? Nun si ni parra.  Tu si a figghia fìmmina e ci devi accudire comu fici iu cu miu patri e me matri.  Chi avja a fari, patri? Mu voli diri Vvossia? (Ma che stai farneticando? Con tuo padre che insegue le belle ragazze io mi metto l’acqua dentro? Non se ne parla neppure. Tu sei la figlia femmina e ci devi accudire come feci io con mio padre e mia madre. Che dovevo fare padre? Me lo vuole dire Vossia?)
Fra’ Giuseppe: un po’ di pazienza figliola, sono anziani, sono malati, bisogna avere compassione.
Teresa: Compassione? E iddi ni hannu compassione pi mmia? Hannu i sordi e si li tengono stretti.  A la morti dicono, tuttu ti lassamo a la nostra morti.  E veni a festa ri natale e fannu finta ri nenti, e veni a festa ri pasqua e fannu finta ri nenti e veni u compleanno r'i mia figghie e u sa cùosa hannu regalato? (Compassione? E loro ne hanno compassione di me? Hanno i soldi e se li tengono stretti. Alla morte dicono, tutto ti lasciamo alla nostra morte. E viene la festa di Natale e fanno finta di niente, e viene la festa di Pasqua e fanno finta di niente e viene il compleanno dei miei figli e lo sa cosa hanno regalato?)
Fra’ Giuseppe: Non lo so e non mi interessa.
Teresa: E iu ciù ricu u stissu.  'n paru ri calzini accussì nun si raffreddano i peri ai picciriddi.  Ùora iu dicu, jè cristianu chi haju faticare iu sula picchì sunnu a figghia fìmmina e i mia frati chi sunnu maschi nun devono cùrriri? (Ed io glielo dico lo stesso. Un paio di calzini così non si raffreddano i piedi ai picciriddi. Ora io dico, è cristiano che devo faticare io sola perché sono la figlia femmina e i miei fratelli che sono maschi non devono correre?)
Fra’ Giuseppe: Figliola, ma qui sei venuta per confessare i tuoi peccati o quelli degli altri?
Teresa: Havi raggiuni patri, mi perdoni (Ha ragione padre, mi perdoni).
Fra’ Giuseppe: Non devi chiedere a me perdono ma a Gesù Cristo.
Teresa: Mi dispiace, mi dispiace assai, ma iu  haju a pinsari macari a la me famigghia, e ùora quannu mi chiamano iu nun ci vaiu cchiù (Mi dispiace, mi dispiace assai, ma io  devo pensare anche alla mia famiglia, e adesso quando mi chiamano io non ci vado più).
Nel frattempo un’altra parrocchiana, Assunta, in attesa di confessarti comincia a lamentarsi.
Assunta: Ma quantu ci sta Teresina! A na’nticchia accumincia a missa  e nun pozzu fàrimi a comunione (Ma quanto ci sta Teresina! Tra poco inizia la messa  e per colpa sua non posso farmi la comunione).
Calogero, l’altro parrocchiano in attesa della confessione: Lo sai quanto ha la lingua lunga.
Assunta: Già.  Tuttu u paìsi u sapi (Già. Tutto il paese lo sa).
Fra’ Giuseppe: Figliola, se hai finito, diamo spazio agli altri peccatori.
Teresa: N’avutra cùosa i haju diri patri.  Pozzu? (Un’ultima cosa le devo dire padre. Posso?
Fra’ Giuseppe: Se è un peccato mortale sì.
Teresa: Veramente nun lu sacciu si jè mortale.  Riguarda u quinto cumannamento. (Veramente non lo so se è mortale. Riguarda il quinto comandamento).
Fra’ Giuseppe: Il quinto comandamento?! Hai forse ucciso qualcuno?
Teresa: Patri nun  mi permetterei mai ri ammazzari ‘n cristianu! però… (Padre non  mi permetterei mai di ammazzare un cristiano! Però…)
Fra’ Giuseppe: Però cosa…?
Teresa: Havj’a sapiri chi u'me vicinu avìa 'n cani, ranni e grosso, bruttu assai (Deve sapere che il mio vicino aveva un cane, grande e grosso, brutto assai).
Fra’ Giuseppe: E allora?
Teresa: Chistu cani abbaiava da quannu agghiorna sino a chi scura, e da quannu scura sino a chi agghiorna (Questo cane abbaiava da quando aggiorna sino a che scura, e da quando scura sino a che aggiorna).
Fra’ Giuseppe: Cioè sempre.
Teresa: Precisamente! u sapevate macari puru vuatri? (Precisamente! Lo sapevate anche voi?)
Fra’ Giuseppe: Cosa dovevo sapere?
Teresa: Haju capito.  Nun mu volete diri chi macari vuatri nun riuscivate a ruormiri.  E 'n pensierino ci u fici macari vvossia (Ho capito. Non me lo volete dire che anche voi non riuscivate a dormire. E un pensierino ce lo fece anche Vossia).
Fra’ Giuseppe: Ma che vai farneticando?
Teresa: Patri, pensavo chi macari vuatri… (Padre, pensavo che anche voi …).
Fra’ Giuseppe: ancora…vuoi chiudere questo discorso?
Teresa: Allura, stavu dicendo chi passavo tutte i notti additta pi colpa ri chista infame bestia.  E glielo dissi o patruni ri farlo finiri.  Unu, dui, tri vùoti, e iddu da un’orecchio ci trasiu e dall’altro ci nesciu.  Chi havja a fari patri? (Allora, stavo dicendo che passavo tutte le notti in bianco per colpa di questa infame bestia. E glielo dissi al padrone di farlo smettere. Uno, due, tre volte, e lui da un’orecchio ci entrava e dall’altro ci usciva. Che dovevo fare padre?)
Fra’ Giuseppe: già che dovevi fare?
Teresa: Preparai 'n chilo ri puppetti cu chiste meo mani.  Belle eranu, grosse e saporite.  Li detti o cani e da allura nun abbaiò cchiù (Preparai un chilo di polpette con queste mie mani. Belle erano, grosse e saporite. Li detti al cane e da allora non abbaiò più).
Fra’ Giuseppe: e non ti vergogni di quello che hai fatto?
Teresa: Si, patri, 'n po’ ri rimorso ci l’ho, si no nun sarrìa ca a confessarlo a vuatri.  Ma oramai jè cùosa faciuta, nun pozzu cchiù turnari indietro (Si, padre, un po’ di rimorso ce l’ho, se no non sarei qua a confessarlo a voi. Ma oramai è cosa fatta, non posso più tornare indietro).
Fra’ Giuseppe: Va bene, va bene. Dì l’atto di dolore e non peccare più.
Intanto Assunta, impaziente, si rivolge all’altro parrocchiano: Ma chi ore fate vuatri? (Ma che ore fate voi?)
Calogero: Mancano 6 minuti alle 10.00.
Assunta: Matri Santissima.  A li 10.00 c’è a missa, nun fazzu pi tempu a confessarmi, nun fazzu pi tempu (Madre Santissima. Alle 10.00 c’è la messa, non faccio in tempo a confessarmi, non faccio in tempo).
Calogero: Forse ce la fa, ha finito la comare.
Assunta: Cu permesso, fazzu lesta(Con permesso, faccio in un attimo).
Uscita Teresa dal confessionale, si avvicina Assunta a fra’ Giuseppe.
Si inginocchia sul cuscino.
Fra’ Giuseppe: Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito santo. Figliola, quando ti sei confessata l’ultima volta?
Assunta: Ajeri matina, fra’ Giuseppe (Ieri mattina, fra’ Giuseppe).
Fra’ Giuseppe: Meno male!
Assunta: Comu ricite patri? (Come ha detto, padre?)
Fra’ Giuseppe: Eh…. ho detto figliola…parla più forte che ti sento male.
Assunta: Cchiù forti? mi devono sìentiri tutti? haju rittu chi mi confessai ajeri (Più forte? Mi devono sentire tutti? Ho detto che mi confessai ieri).
Fra’ Giuseppe: E quali peccati gravi puoi avere fatto?
Assunta: Gravi nun ni fici patri, pirò soffro tantu.  Penso sempri o Signuri chi jè mortu pi mia.  Sapesse quantu mi dispiace.  Iu vulissa fari qualcuosa pi iddu ma mi manca u coraggio (Gravi non ne feci padre, però soffro tanto. Penso sempre al Signore che è morto per me. Sapesse quanto mi dispiace. Io vorrei fare qualcosa per Lui ma mi manca il coraggio).
S: Figliola, non ti affliggere. Gesù ci ama così come siamo.
Assunta: Ma iu mi sentu in colpa, nun pozzu mancu ruormiri (Ma io mi sento in colpa, non posso neanche dormire).
S: Vai in pace figliola. Fossero tutti come te…
Assunta: Allura vaiu patri? mi date l’assoluzione? (Allora vado, padre? Mi date l’assoluzione?)
S: Vai, vai tranquilla.
Assunta: E l’assoluzione? (E l’assoluzione?)
Il sacerdote fa il segno della croce come per benedirla.
S: E ùora te ni po' iri (E ora te ne puoi andare).
Assunta si alza e  fra’ Giuseppe si alza pure per andare in parrocchia.
Calogero che attendeva si accosta al sacerdote: Padre non mi confessa?
Fra’ Giuseppe: Non c’è tempo figliolo, devo celebrare la messa.
Calogero: Ma è un’ora che aspetto?
Fra’ Giuseppe: Cosa vuoi che ti dica? E’ da molto che non ti confessi?
Calogero: Quasi trenta anni.
Fra’ Giuseppe: E ti lamenti pure? Il Signore è trent’anni che ti aspetta! Ritorna domattina di buon’ora.
Calogero: Come dice Vossia. Baciamo le mani.
Fra’ Giuseppe: Si, vai, vai.
Il sacerdote di avvicina al Crocifisso.
Fra Giuseppe rivolto al Crocifisso: Ma come devo fare con questi parrocchiani! Prima o poi mi faranno impazzire. Datemi vuatri a pazienza picchì iu nun cià fazzu cchiù. Lo so che non mi devo lamentare, però…Vorrà dire che questa è la mia croce. Voi avete la vostra ed io ho la mia.  Prima o poi dovremo scendere da questa croce. Basta, ho parlato assai. Sia fatta la Divina Volontà.
Il sacerdote si avvicina al Crocifisso e lo bacia ai piedi.
Entra in scena Francesco, il giovane sacrestano.
Francesco: Fra’ Giuseppe, meno male che avete finito di confessare. Io ho già acceso tutte le luci dell’altare. La chiesa è piena. Stanno aspettando solo a Vossia.
Fra’ Giuseppe: Presto, aiutami a vestirmi. Sono già le dieci e come al solito, sono in ritardo per celebrare la messa.
Francesco: Padre, me lo vuole spiegare perché si dilunga nelle confessioni?
Fra’ Giuseppe: Non ti ci mettere anche tu, Francesco, che oggi ne ho sentite abbastanza.
Francesco: Si calmi Padre, lo sa che le sale la pressione. Non si prenda dispiacere per chisti parrocchiani.  Gente di paese sono, ignorante ma buona di cuore.
Fra’ Giuseppe: Bene hai detto. Gente ignorante e che vuole rimanere nell’ignoranza. Comunque ne parliamo più tardi dopo la messa. Tu piuttosto non ti allontanare che deve venire quel giornalista, quel bravo picciotto, come si chiama …
Francesco: Non mi ricordo.
Fra’ Giuseppe: Vabbè, non ha importanza il nome, è per quell’intervista…
Francesco: Quale intervista…
Fra’ Giuseppe: La mensa a favore dei poveri. O Francè, anche tu sei stonato?
Francesco: Mi scusasse, fra’ Giuseppe. Proprio me ne ero dimenticato. Stia tranquillo, io qua sono, non mi allontano neanche se mi chiamano per un morto.
Fra’ Giuseppe indossa l’abito per la celebrazione Eucaristica. Fa alcuni passi verso l’uscita. Si gira poi indietro verso Francesco.
Fra’ Giuseppe: Io vado allora, mi raccomando.
Francesco: Ancora qua è? Come glielo devo dire! Stia tranquillo, padre. Vada.
Il sacerdote esce.
Mentre il sacrestano sistema altre carte entra in sacrestia una donna di mezza età, vestita elegantemente, con un bel cappello in testa, una lunga collana di perle e un ventaglio.
Contessa: Francesco, per favore, aiutatemi!
Francesco: Contessa, che vi succede! Vi sentite male?
Contessa: Una sedia, vi prego, mi sento svenire.
Francesco: Eccola, signora contessa! Accomodatevi. Volete un po’ d’acqua?
L’aiuta a sedersi. La contessa si sventola.
Contessa: Grazie, caro. Appena un sorso.
Francesco prende un bicchiere, versa all’interno un po’ d’acqua e lo porge alla contessa.
La contessa beve e continua sventolarsi.
Contessa: Meno male che ci siete voi!
Francesco: Ma cosa è successo, contessa!
Contessa: Un capogiro. Questo caldo soffocante. Ero entrata in chiesa. Non ho fatto in tempo a sedermi che mi girava tutto intorno. Sapete, non volevo dare spettacolo nella Casa del Signore e sono venuta a rifugiarmi qui in sacrestia.
Francesco: State meglio ora?
Contessa: Un pochino, grazie. Siete molto gentile. Fossero tutti come lei, Francesco.
Francesco: Troppo buona contessa. Se posso fare qualcos’altro. Non avete che da chiedere! Volete che chiami un vostro servitore? O che vi riaccompagni in Chiesa, se ve la sentite.
Contessa: No, no. Preferisco stare un poco qui, in vostra compagnia. Non vi dispiace, vero?
Francesco: Se fa piacere a voi! Non so però come potrei esservi di aiuto.
Contessa: Non parlate vi prego. Mi basta guardarvi.  Mi ricordate tanto il mio primo amore, era così educato! Sapete? Io gli piacevo assai, però il ragazzo era timido, non aveva il coraggio di dichiararsi.
Francesco: Succede, quando si è molto giovani!
Contessa: Si, forse avete ragione, ma prima o poi si deve quagliare. Voglio dire, in parole povere, che il fiammifero messo vicino al fuoco attizza.
Francesco: E già. Non fa una piega il vostro ragionamento.
Contessa, in tono molto sensuale: E quando attizza, non c’è verso di spegnerlo.
Francesco: Immagino a cosa vi riferite, una bella donna come voi! Ma anche vostro marito non è da meno, aitante, signorile, un vero rubacuori!
Contessa: Tutta apparenza, credetemi. E voi invece… ?
Francesco: Non capisco, cosa c’entro io?
La contessa si alza e si avvicina a Francesco sfiorando con il ventaglio il suo petto.
Contessa: Dietro quell’aspetto così serio e riservato scommetto che si nasconde un indomito dongiovanni!
Francesco, alquanto a disagio: Ma cosa dite, contessa?
Contessa: Suvvia, confessate. Di cosa avete paura? Non sono mica vostra madre o la vostra educatrice! Guardatemi, vi prego, sono forse da disprezzare? Ho appena cinquant’anni, ma la mia pelle profuma di rosa. E in quanto a seduzione…ne ho da vendere.
Francesco si ritrae balbettando: Io, veramente…
In quel momento entra in sacrestia Paolino, il chierichetto di appena 12 anni.
Francesco, paonazzo, si dà un contegno.
Francesco: E tu cosa fai qui? Non dovresti essere in chiesa?
Paolino: Sono arrivato in ritardo… la messa è già iniziata.
Francesco: Va bene. Rimani qua.
Poi rivolto alla contessa: Se state meglio, forse sarebbe il caso che tornaste in chiesa.
Contessa: Si, certo. Avremo modo di continuare altrove la nostra conversazione. Una buona giornata.
Appena la contessa esce, il ragazzo si rivolge al sacrestano con un sorrisetto malizioso.
Paolino: Compà, chi pi caso a contessa ti facìeva a corte? (Compare, ma che per caso la contessa ti faceva la corte?)
Francesco: Stai zitto. Che vai dicendo!
Paolino: Ma che m’hai preso per scemo? Quella ti mangiava con gli occhi!
Francesco: Finiscila impertinente. Non sono affari tuoi. E poi lo sai che io amo solo tua sorella.
Paolino: Certo, certo. Chi sta dicendo niente. Però bella donna è la contessa, se avessi dieci anni in più
ce lo farei io un pensierino.
Francesco: Se non la smetti ti do uno tumpulata…
Paolino: E io racconto tutto a mia sorella…
Francesco: Va bene, scusami. Fai finta che non ti ho detto niente. Però tu acqua in bocca. Lo sai quanto è gelosa Rosetta. E poi io non ho di che vergognarmi. L’hai visto pure tu che non ho fatto niente.
Paolino: Come no! Perché sono entrato io…sennò volevo vedere come andava a finire.
Nel frattempo entra Padre Giuseppe.
Fra’ Giuseppe: Che sono queste voci! Ah… tu qua sei? Bravo, anziché aiutarmi a servire la messa, stai qui a litigare con Francesco. Ma come devo fare con te! Tua madre non mi disse altro: “Patri si u pigliasse pi parrocchia a miu figghiu, ri sturiari nun ni voli sìentiri, sta sempri a tampasiare pi i strade, si nun mi aiuta vossia, laria fini fa (Padre se lo pigliasse in parrocchia a mio figlio, di studiare non ne vuole sentire, sta sempre a bighellonare per le strade, se non mi aiuta lei, brutta fine fa).
Paolino: E io qua sono, padre Giuseppe. In ritardo, ma sono venuto. Lei stava già celebrando all’altare. Dovevo entrare lo stesso?
Fra’ Giuseppe: Si, si, lasciamo perdere. Piuttosto, si è visto qualcuno?
Francesco: No, nessuno si è visto.
Paolino, facendo finta di niente: Tranne la contessa.
Fra’ Giuseppe: Cosa hai detto? La contessa?
Francesco: No, ha detto che gli dispiaceva che era iniziata la messa.
Fra’ Giuseppe: Meno male che un po’ di rimorso ce l’ha.
Francesco: Figuriamoci, rimorso!
Fra’ Giuseppe: Cosa hai detto?
Paolino: Ha detto, che non ce la feci ad arrivare in tempo anche se ho corso.
Fra’ Giuseppe: Ragazzino, domani anziché correre, devi volare, altrimenti mi prendo un altro chierichetto e te le puoi scordare le cinquanta lire che ti do a settimana.
Paolino: Va bene, padre, abbiamo capito.
Entra in scena un uomo.
L’uomo: É permesso?
Fra’ Giuseppe: Avanti, avanti, accomodatevi.
L’uomo: Sono il dott. Riccardo Manzella.
Fra’ Giuseppe: Manzella?
Manzella: Sì. Il dott. Manzella. Avevamo un appuntamento, non ricordate?
Fra’ Giuseppe: Ah, il giornalista! Eccovi finalmente. Mi avevano avvisato dalla redazione che avrebbero inviato qualcuno. Vi attendevo infatti. Paolino, un’altra sedia, per favore.
Il ragazzo avvicina una sedia al centro del palco.
Fra’ Giuseppe: Accomodatevi, prego.
Dott. Manzella: Grazie. Allora, ditemi, ditemi.  Il capo redattore mi ha riferito per sommi capi di un vostro progetto. Spiegatemi meglio, spiegatemi meglio.
Fra’ Giuseppe: Caro dott. Manzella, vi sarete accorto anche voi che questo è un quartiere povero assai. Tanti bussano al portone della Chiesa chiedendo aiuto. Da solo purtroppo non riesco più a soddisfare i bisogni di questa povera gente, la raccolta delle offerte nella messa della domenica non è sufficiente nemmeno a sfamarne la metà.
Dott. Manzella: E…comprendo, comprendo. E che volete fare, che volete fare?
Paolino rivolto a Francesco: Ogni tanto si inceppa il disco.
Fra’ Giuseppe:  Che voglio fare? Bella domanda. Intanto bisognerebbe sensibilizzare i notabili del paese della  condizione disagiata di tante famiglie. Sapesse quanta ignoranza c’è in giro! Gli anziani sono oramai  irrecuperabili. Ma i loro figli? Non li mandano a scuola perché devono lavorare nei campi.
Dott. Manzella: Poveri ragazzi!
Fra’ Giuseppe: Dice bene. Poveri ragazzi. Che avvenire possono avere? Se poi vedesse dove vivono! Alcuni nelle baracche, tre in un letto. E i genitori poi, più sono poveri e più mettono al mondo altri figli. Altre bocche da sfamare. Se li riprendo, apriti cielo! “I figghi hann’a jesser com’u vastune pi la vecchiaia” (I figli devono servire come il bastone della vecchiaia!). Così vanno dicendo.
Dott. Manzella: Comprendo, comprendo bene. Ma cosa vuole che io faccia?
Fra’ Giuseppe: Scriva, scriva quanto le sto raccontando. Denunci questo sfruttamento di minori alle autorità. Non si può mandare a lavorare un bambino di appena dieci anni. Alcuni di loro non hanno nemmeno completato la seconda elementare. Lo sa cosa vanno dicendo il padre e la madre di questi ragazzini?
Dott. Manzella: Che dicono, che dicono?
Fra’ Giuseppe: Il destino di mio figlio è già segnato. Non serve istruzione per badare alle pecore o sollevare massi.
Dott. Manzella: Brutta bestia la povertà! Lei mi accennava ad un progetto. Cosa vorrebbe fare.
Fra’ Giuseppe: Mi piacerebbe aprire un Centro di supporto per queste famiglie povere. Ma occorre personale per l’assistenza agli anziani malati e un servizio mensa per chi non può permettersi un pasto decente. Certo sarebbe bello anche un centro ricreativo per i poveri orfanelli ma questo in un secondo momento.
Dott. Manzella: Il progetto è assai interessante, ma il denaro per finanziarlo dove lo prendiamo?
Fra’ Giuseppe: In paese abbiamo diverse famiglie ricche, altolocate. La contessa Belfiore, ad esempio, è molto sensibile alle disgrazie altrui. Potremmo chiederle di collaborare.
Paolino: Uh, figuriamoci, te la raccomando quella!
Fra’ Giuseppe: Hai detto qualcosa, Paolino?
Paolino preso alla sprovvista: Ehm…. dicevo che è un incanto quella.
Fra’ Giuseppe: Già, è davvero incantevole, frequenta assiduamente la Parrocchia. Sapesse com’è devota alla Madonna e com’è innamorata du Signuruzzo .
Paolino: … e di Francesco.
Francesco dando una gomitata a Paolino, a voce bassa: Stai zitto, stupido.
Fra’ Giuseppe: Insomma, cosa avete da borbottare voi due?
Francesco: Ehm… Paolino mi stava dicendo che la contessa è innamorata pure di San Francesco.
Fra’ Giuseppe rivolto al giornalista: Avete sentito? Pure di San Francesco! Che brava donna la contessa. Ci sarebbe anche il sindaco che potrebbe aiutarci. Sa, detto tra noi, mi deve un favore. Se non fosse stato per il mio sostegno, col piffero che sarebbe stato eletto.
Dott. Manzella: Bene. Possiamo tentare. Stia tranquillo. Scriverò un bell’articolo. Parlerò personalmente con la contessa, conosco bene il marito, il sig. conte. In quanto al sindaco, considerati  i rapporti potrebbe parlargli lei. Credo proprio che non si rifiuteranno di darci una mano.
Fra’ Giuseppe: La ringrazio dott. Manzella, attendo sue notizie e che Dio la benedica.
Fine primo atto










SECONDO ATTO
Si svolge a casa della contessa
Vi è un divano al centro del palco, una poltroncina lateralmente e un tavolinetto.
La contessa Matilde Belfiore è in piedi, cammina avanti e indietro per la stanza, sventolandosi.
Contessa Matilde: Quel chierichetto è sempre tra i piedi! Non mi riesce di star sola con Francesco per più di cinque minuti. Devo escogitare qualcosa per conquistarlo. In fondo sono ancora bella e desiderabile.  Se penso che ha occhi solo per quella servetta da quattro soldi…  L’ho presa a servizio solo perché fra’ Giuseppe mi ha pregata notte e giorno. “O … quella povera fanciulla, così umile e sfortunata!” Lo ripeteva continuamente. Cosa avrei dovuto fare?! Perpetua oramai è troppo anziana per badare a questa casa e Rosetta, devo purtroppo ammetterlo, ha le qualità giuste per quel posto di cameriera.
Si è presentata qui, al mio cospetto, con quei miseri stracci, l’atteggiamento sottomesso, come è opportuno dinnanzi ad una gentildonna del mio rango, però… se avessi saputo che era fidanzata con Francesco, non l’avrei certamente assunta.
Ma oramai è cosa fatta. Solo che vederla ogni giorno così servizievole e paziente, mi fa sentire a disagio! Non posso nemmeno rimproverarla perché è precisa in tutto, anzi …oserei dire perfetta.
Un’ottima moglie e donna di casa.
Certo povera è, ma sfortunata non direi.  E devo pure sopportarmi i suoi sospiri “Com’è carino il mio Francesco! Pieno di attenzioni. Ringrazio Dio di averlo incontrato. Presto ci sposeremo e avremo anche noi il nostro nido d’amore”.
Oh… che sdolcinatezze. So io cosa ci farei con Francesco se lo avessi qui accanto.
Entra in scena la servetta.
Rosetta: Signora, mi perdoni. È venuta a trovarla la baronessa Sofia Castronovo. La faccio accomodare?
Matilde: Certamente.
Entra in scena la baronessa e abbraccia la contessa.
Sofia: Cara Matilde, è un piacere vederti! Come stai?
Matilde: Molto bene, grazie. Credevo ti fossi già trasferita nella tenuta estiva.
Sofia: Non ancora. Sai quanto è impegnato mio marito! Da quando è entrato in politica sta più fuori che in casa. Mi sono stancata di aspettare. Ho bisogno proprio di svagarmi. Così sono venuta a trovarti.
Matilde: Cara cugina, hai fatto benissimo. Anch’io sono molto sola in questo periodo. Il mio consorte è sempre in viaggio per affari. Londra, Parigi, Vienna.
Sofia: Perché non lo segui?
Matilde: Un tempo lo facevo. Era piacevole stare insieme a lui, visitare le grandi città e poi gli alberghi più importanti, i cibi più raffinati.  Ero la sua perla preziosa. Così mi definiva quando mi presentava ai suoi amici. Poi piano piano è cambiato.
Sofia: Cambiato? Ma non mi dire! Lui che ti ha sempre adorata.
Matilde: Vorrei tanto darti ragione…ma non è così. Non so cosa sia successo, non è più lo stesso. Spesso mi lasciava in albergo ad attendere, per ore e ore, il suo rientro. Mi diceva: “vai per i negozi, compra quello che vuoi. Io faccio tardi stasera, una riunione d’affari”. Talvolta rientrava a notte inoltrata. Mi chiedo se avesse altre donne. Non l’ho mai saputo ma il sospetto c’era e c’è ancora.
Sofia: Non puoi vivere con questo sospetto. Perché non lo fai seguire?
Matilde: No. Preferisco non sapere cosa realmente fa. Così me ne sto in questa bella casa a pensare che lui sia davvero in giro per affari.
Sofia: Non ti capisco. Proprio tu che sei stata sempre una guerriera. Quasi, quasi non ti riconosco!
La contessa Matilde suona il campanello. Sopraggiunge la serva.
Rosetta: Avete chiamato contessa?
Matilde: Si. Portaci un tè con biscotti.
Rosetta: Certamente contessa.
La servetta si allontana.
Sofia: Carina questa servetta. Discreta ed educata. Dove l’hai trovata?
Matilde: Me l’ha segnalata il Parroco. Appartiene ad una famiglia molto povera. Lei e suo fratello sono rimasti orfani di padre lo scorso anno per un incidente sul lavoro.
Sofia: O… che disgrazia!
Matilde: E si, proprio una triste disgrazia. Il padre era muratore. La sorte volle che cadesse da una impalcatura e battesse la testa su una pietra appuntita. Morì sul colpo.
Sofia: Una cosa terribile. E la moglie, e i figli? Come la presero?
Matilde: Male. Molto male! Non avevano di che campare. All’inizio la madre chiedeva l’elemosina. Poi fra’ Giuseppe pensò bene di raccomandarmi la figlia Rosetta per assumerla al mio servizio. E così mi sono lasciata convincere.
Sofia: Una buona scelta, suppongo, mi sembra a posto la ragazza.
Matilde: Si, non mi posso lamentare, se non fosse per…
Sofia: Se non fosse per…
Matilde: Devi sapere che nella sfortuna, la ragazza può dirsi fortunata.
Sofia: Fortunata? E perché mai?
Matilde: il Parroco ha preso a cuore l’intera famiglia, ha convinto Paolino, il fratello minore, a fargli da chierichetto in cambio di cinquanta lire a settimana.
Sofia: Una somma alquanto esigua mi pare.
Matilde: Non è questo il punto. Tramite il fratellino, Rosetta ha conosciuto il sacrestano della Parrocchia, un giovane a modo, tanto diverso dagli altri uomini così arrivisti e prepotenti, uno di altri tempi, oserei dire, un vero gentiluomo.
Sofia: Lo incontrassi io un uomo così.
Matilde: Già, certe fortune capitano solo alle altre. Ebbene, non ci crederai, ma tra i due è sbocciato un tenero amore.
Sofia: Oh…che storia romantica!
Matilde: Se penso che Francesco spasima per questa servetta!
Sofia: Non mi dire che sei gelosa! Giusto tu, che basta che schiocchi le dita e ti ritrovi un mare di spasimanti. Scommetto che se vuoi, riesci a portartelo a letto.
Matilde: Tu dici? Non ne sarei tanto sicura.
Sofia: Ma stai scherzando? Ti ha mai rifiutato un uomo?
Matide: Francesco è diverso. L’impresa è alquanto ardua. E poi c’è sempre quel ragazzetto impertinente a rompermi le uova nel paniere.
Sofia: Di chi parli?
Matilde: Del caro fratello di Rosetta. Sospetta certamente qualcosa. É furbo il ragazzino. Fa il chierichetto ma ne sa una più del diavolo.
Rosetta che stava per entrare con il servizio da tè, sentendo citare il suo nome, si ferma dietro la porta ad origliare.
Sofia: Ma cosa vai dicendo? Nessun uomo resiste alle tue avances. E quel Francesco, credimi, cadrà come una pera cotta, se tu lo vuoi.
Matilde: Ma sì! Hai ragione. Sarà la mia prossima preda. Tempo una settimana e potrò annoverarlo tra le mie conquiste.
Sofia: Poi mi racconterai i dettagli, cara cugina, come hai sempre fatto.
Matilde: Certamente! Le storie piccanti sono il mio forte.
E comincia a sventolarsi, accalorata in viso per l’eccitazione. Si odono risolini di entrambe le donne.
Rosetta, stordita e sconvolta dalla conversazione udita involontariamente, tossisce forte per manifestare la sua presenza. Entra nella stanza e col capo chino poggia il vassoio sul tavolinetto.
Rosetta come in trance, con voce bassa: Quante zollette di zucchero, contessa?
Matilde: Due, grazie.
Sofia: Anche per me.
Rosetta versa il tè con mano tremante.
La contessa si avvede del turbamento della giovane e del suo tremore.
Matilde: Cosa hai, stai male?
Rosetta: Non è nulla di grave, contessa. Credo di avere qualche linea di febbre. Se permette vorrei andare via un po’ prima oggi.
Matilde: Si, vai pure.
Rosetta: Con permesso allora.
La servetta si allontana a capo chino.
Sofia: Che faccia! Sembrava che stesse per piangere da un momento all’altro. Credi che abbia sentito?
Matilde: Non lo so. Spero proprio di no. In fondo mi dispiace. É una brava ragazza e non merita questo inganno.
Sofia: Cosa ti succede? Ti rimorde la coscienza?
Matilde: Non capisco…talvolta non mi riconosco. E come se avessi una doppia personalità.  A tratti sono accogliente, sincera, altre volte acida e crudele come una vecchia zitella delusa dalla vita. E pensare che non ero così quando sposai Carlo.
Sofia: Be’, eri molto più giovane ed inesperta.
Matilde: No, non è questo. Semplicemente amavo mio marito. Non avevo occhi che per lui. E anche lui mi desiderava, lo intuivo dal suo sguardo. Chissà perché si cambia con il passare del tempo, le relazioni si raffreddano e rimane soltanto il rimpianto e la voglia di ricominciare da capo, magari con un altro uomo. Ti confesso che se fossi certa che lui mi amasse ancora, non guarderei nessun altro. In fondo ho bisogno soltanto di affetto.
Sofia: E chi non ne ha bisogno? L’età avanza, mia cara, e la paura della vecchiaia prima o poi incombe su tutti. Non ci pensare. Forse non ha sentito nulla. Forse davvero ha qualche linea di febbre, come ha detto.
Matilde: Ma si, sarà così. Non voglio pensarci. Andiamo in giardino. Ho bisogno di respirare un po’ d’aria fresca.
Si alzano entrambe e escono di scena.
Si ode la voce di un maggiordomo che dice: Si accomodi, prego, la contessa sarà qui a breve.
Entra in scena un signore ben vestito con un cappello in testa, cravatta e giacca. In mano tiene dei documenti.
Si aggira per la stanza impaziente, non osa accomodarsi. Entra la contessa.
Matilde: Buongiorno, mi ha detto il mio maggiordomo che lei desidera parlarmi. Per quale motivo? Ma…si accomodi, la prego.
Uomo: Dopo di lei contessa.
La contessa si accomoda e così anche l’uomo.
Uomo: Intanto la ringrazio di avermi ricevuto. Lei in effetti non mi conosce, né immagina quale buon vento mi porti da lei.
Matilde: se è un buono o cattivo vento lo verificherò dopo averla ascoltata. Parli dunque.
Uomo: Mi presento, sono il notaio Lazzio.
Matilde: Un notaio? Non capisco. Non mi risulta che io o mio marito abbiamo bisogno di un notaio.
Notaio: Ora le spiego. É una questione molto, molto delicata.
Matilde: Non mi tenga sulle spine! Vada al dunque.
Notaio: Suo padre è morto circa un anno fa, giusto?
Matilde: Come fate a saperlo?
Notaio: L’ho conosciuto personalmente, tempo addietro, diciamo dieci anni fa.
Matilde: E allora?
Notaio: Tutta l’eredità è andata a lei, vero?
Matilde: Certamente, non c’era testamento ed io sono l’unica figlia, erede quindi legittima.
Notaio: Lei sapeva che suo padre era un uomo… come dire… amante del gentil sesso?
Contessa: Chi è quell’uomo che non ama le donne? Lei ne conosce qualcuno?
Notaio: A dire il vero no. Ma ci sono uomini per natura fedeli alle proprie mogli (pochi per la verità) che ciononostante si lasciano ammaliare, stregare dalle gentili movenze femminili e cercano in un’altra donna un ideale a lungo sognato o forse una dea che rischiari la loro esistenza.
Matilde: Continuo a non capire.
Notaio: Mi spiego meglio. Vostro padre amava vostra madre, come anche adorava voi, gentile contessa. Però aveva un debole per le donne, non per quelle altolocate, di nobile casato, né per le ballerine dalle forme procaci e voluttuose. Lui aveva un debole per le ragazze semplici e riservate. L’attirava la loro umiltà, la loro  timidezza, la loro genuina freschezza.
Matilde: Vi ripeto, continuo a non capire. Spiegatevi meglio!
Notaio: Per dirla in breve, vostro padre cercava nella donna ideale un rifugio dove evadere dalle responsabilità quotidiane, dalle convenzioni, per poter rivivere la spensieratezza degli anni verdi.
E così un bel giorno incontrò una giovane fanciulla, una verginella senza ambizioni, pura nei sentimenti. Si innamorò perdutamente di lei e da quel rapporto così delicato e segreto nacque una bambina. Non osò confessarlo a vostra madre alla quale voleva molto bene. Inoltre sarebbe stato uno scandalo un tale tradimento, avrebbe rovinato anche la sua carriera politica. Vostro padre preferì il silenzio.
Matilde: Non ne sapevo nulla. Ho sempre visto mio padre come un uomo integerrimo, legato a mia madre da un profondo affetto. L’ho visto piangere come un bambino al suo capezzale quando lei ci lasciò per quel brutto male.
Notaio: Talvolta si possono amare due donne contemporaneamente, quando ognuna di loro ha qualcosa che attira e che l’altra non ha.
Matilde: Ma perché non mi ha rivelato il fatto dopo la morte di mia madre? Perché non ha adottato quest’altra figlia? Sono passati così tanti anni da allora! Cosa è cambiato?
Notaio: Già, sono passati ben sei anni dal decesso della sig.ra contessa. Però c’era qualcuno che era ancora in vita e che non doveva sapere.
Matilde: Chi non doveva sapere? A chi vi riferite? Non sto capendo più nulla.
Notaio: Non vi agitate. Abbiate un poco di pazienza e vi sarà tutto chiaro.
Matilde visibilmente scossa: Pazienza? Vi presentate qui senza un preavviso. Mi dite che mio padre ha avuto una relazione con un’altra donna, dalla quale è nata una figlia. Il che vuol dire che io avrei una sorella, chissà in quale parte del mondo, che non conosco. E voi continuate a dirmi di avere pazienza, di non agitarmi? Ma io sono agitata, sono talmente agitata che temo mi venga un infarto.
Notaio: Contessa, vi prego, state tranquilla. Voi già conoscete vostra sorella.
Contessa: Ma cosa dite? Mio Dio, mi sembra di impazzire.
Notaio: Fatemi parlare, per l’amor del cielo.
Matilde: Va bene, sono calma. Raccontatemi tutto.
Notaio: Come dicevo, vostro padre ha preferito tacere su questa relazione per non dare un dispiacere a vostra madre e per non rovinare la sua carriera.
La fanciulla appena saputo di essere incinta, per evitare il disonore della propria famiglia, umile ma onesta famiglia, accettò di maritarsi con un uomo al quale era stata promessa in sposa, un giovane muratore, povero come lei, del quale non era innamorata. Ma che poteva fare quella benedetta figliola? Partorire un piccolo essere innocente senza un padre? Una piccola bastarda?
Nessuno sospettò nulla. Si pensò che la bambina fosse nata prematura considerato anche quanto fosse gracile alla sua nascita.
Nessuno doveva sapere la verità, per il bene della piccola e per la pace di tutti.
Matilde: Come ha potuto far questo mio padre? Mi sembra tutto così assurdo! Non posso credere che sia morto con il rimorso di avere abbandonato una figlia.
Notaio: Ascoltate, vi prego. Vostro padre, lo sapete, non era un cattivo uomo, anzi…ha sempre aiutato chi avesse bisogno. È sempre stato un politico onesto, ha fatto grandi cose per il nostro paese. Non c’era verso di corromperlo, vi assicuro che non avete nulla da rimproverargli.
Matilde: Ma allora, come spiegate tutto questo?
Notaio: Se non mi fate finire la storia, non capirete mai.
Matilde: Va bene, continuate.
Notaio: Il sig. conte, seppur da lontano, ha sempre seguito i passi di vostra sorella. Ha pagato gli studi, ha aiutato di nascosto la famiglia, senza che nessuno dei componenti ne venisse a conoscenza. L’unica che sapeva qualcosa era la madre naturale. Credetemi non è vissuta nell’indigenza. Vostro padre ha sempre fatto in modo che il capofamiglia avesse dove lavorare, lo raccomandava alle ditte che prendevano appalti di edilizia. Purtroppo circa un anno addietro, poco dopo il decesso del sig. conte, vostro padre, anche il padre non naturale di vostra sorella è morto e quella famiglia, prima benestante, è caduta subito in disgrazia.
Matilde comincia ad avere un dubbio, una strana verità le si prospetta dinnanzi.
Matilde: Mi avete detto che colui che ha cresciuto mia sorella, convinto di essere il padre biologico era un muratore?
Notaio: Si.
Matilde: E che dopo la sua morte la famiglia è caduta in disgrazia?
Notaio: Esatto.
Matilde: Come è morto quell’uomo? Ditemi, vi prego, forse un incidente sul lavoro? Avete detto che io conosco mia sorella. Parlate, vi prego. Chi è mia sorella? Chi è mia sorella? (lo chiede quasi gridando).
Notaio: Rosetta, la vostra serva.
Matilde: No, non è possibile.  Non sto bene. Aiutatemi, non respiro.
E si accascia svenuta sulla sedia.
Il notaio si alza di scatto e si avvicina alla contessa preoccupato.
Notaio: Contessa, contessa, cosa vi sentite? O mio Dio! Aiuto, accorrete, la contessa è svenuta.
Fine secondo atto
TERZO ATTO
Si svolge nella sagrestia della parrocchia
Scena I
Sono le ore 19,00. Fra’ Giuseppe si accinge a mettersi a tavola per consumare il pasto serale.
Fra’ Giuseppe: Le 19.00 in punto. Sono sfinito. Questa minestrina è proprio quel che ci vuole per rimettermi  in sesto. Questi parrocchiani sono difficili da gestire. Ce ne fosse uno che mi stesse a sentire! Hanno la testa più dura di un mulo… Signuruzzo, solo Tu mi puoi comprendere.
Si siede. Non fa in tempo a prendere un cucchiaio di minestra che suonano alla porta.
Fra’ Giuseppe. E chi è a quest’ora!? Neanche in pace si può mangiare?
Si alza e si avvicina alla porta.
Fra’ Giuseppe: Chi è che bussa!
Rosetta: Padre, apritemi, Rosetta sono.
Fra’ Giuseppe: Figliola mia, che fai qui a quest’ora? Entra, entra.
Rosetta entra e si avvede del piatto sulla tavola: Ma stavate mangiando? Mi dispiace, padre. Se vuole, torno domattina.
Fra’ Giuseppe: “Ormai che sei qui… sentiamo… cosa devi dirmi?”
Rosetta: Padre, lei mi conosce vero?
Fra’ Giuseppe: Ma certo, che domande! Non ti ricordi quando picciridda ti aggrappavi alla mia veste?
Rosetta: Come no! E lei mi dava le caramelle per farmi star buona.
Fra’ Giuseppe: Già, te ne ricordi. Sempre vivace sei stata ma anche obbediente. Una figlia per me, soprattutto dopo la morte di tuo padre.
Rosetta: Papà mi voleva bene assai.
Fra’ Giuseppe: E chi non te ne vuole? Francesco non fa altro che parlare di te. Ti adora quel ragazzo.
Rosetta: Ne siete proprio sicuro, Padre?
Fra’ Giuseppe: Ci metterei la mano sul fuoco!
Rosetta con voce triste: Io non lo farei, fossi in lei!
Fra’ Giuseppe: Che è questa voce così sconsolata! Non è mica morto qualcuno!
Rosetta: E invece sì. Francesco… jè mortu pi mia.  Mortu e sepolto. (Francesco… per me è morto. Morto e sepolto)
Fra’ Giuseppe: Benedetta figliola, ma che stai dicendo? Ti sei bevuta un litro di vino?
Rosetta con rabbia: Lei no ne sa niente, padre, ma Francesco è un vile traditore. Ha sempre detto che mi vuole maritare, che sono la luce dei suoi occhi. E invece… te lo raccomando, bugiardo come la luna.
Fra’ Giuseppe: Calmati per favore. Siedi qui e raccontami cosa è successo.
Rosetta: Francesco mi tradisce.
Fra’ Giuseppe: Ma che vai farneticando! Chi ti ha messo queste strane idee in testa. E dimmi, per curiosità, chi sarebbe questa gran bellezza che lo ha ammaliato.
Rosetta: La signora contessa Matilde Belfiore.
Fra’ Giuseppe: No, non posso crederci. Me ne sarei accorto.
Rosetta: È così, le assicuro, fra’ Giuseppe. L’ho sentito con queste mie orecchia, la contessa vantarsi di averlo in pugno, non so neanch’io come ho fatto a trattenermi dall’urlarle in faccia che è una donna perfida come una serpe. E pensare che le ero grata per avermi presa al suo servizio.
Fra’ Giuseppe: Non è possibile. Conosco troppo bene Francesco per dubitare della sua fedeltà. Non è tipo da lasciarsi trascinare in una avventura. E la signora contessa poi…così fine, sensibile. Possibile che possa architettare un tale inganno? Chissà cosa hai sentito!
Rosetta: Allora non mi crede, Padre. Pensa che sia un’esaltata oppure una bugiarda. È questo che pensa?
Rosetta scoppia in lacrime.
Fra’ Giuseppe si avvicina, le prende una mano: Niente affatto, Rosetta. Ti conosco bene e so che mai mentiresti ad alcuno. Forse ti sei sbagliata, magari hai frainteso i suoi discorsi. Non prenderti pena, stai serena. Vai a casa a dormire. Domattina, alla luce del sole, ne riparleremo. Vedrai che tutto si risolverà.
Rosetta angosciata: Niente si risolverà, Padre. Io a Francesco non lo voglio più vedere. Troppo mi ha delusa.
Fra’ Giuseppe: Mi fa male vederti in questo stato. Vai a casa. Parlerò io con Francesco. Abbi fiducia.
Rosetta : Va bene, fra’ Giuseppe, mi affido a lei e a lu Signuruzzo.
Fra’ Giuseppe l’accompagna alla porta: A domani Rosetta.
Rimasto solo fra’ Giuseppe cammina avanti ed indietro per la stanza.
Fra’ Giuseppe: Non posso crederci. Francesco che se la intende con la signora contessa. No…non è possibile, me ne sarei accorto. E se invece fosse vero? La contessa è ancora una bella donna e certamente saprebbe come ammaliare un uomo. Ma perché dovrebbe farlo? Che io sappia lei è innamorata del signor conte e anche se si vedono raramente non è certo questo un valido motivo per tradire il marito. Anzi talvolta la lontananza alimenta la passione e in un paese piccolo come questo si sarebbe risaputo se qualcosa non andava tra i due. La contessa è una donna così caritatevole! Non ha battuto ciglio quando le chiesi di prendere Rosetta al suo servizio. Era davvero soddisfatta della ragazza, mi ha sempre detto che non poteva trovare di meglio. Non credo fingesse.
Basta! Questa storia mi ha tolto l’appetito. Me ne vado a letto e domattina vedrò il da farsi.
Fra’ Giuseppe esce di scena.







Scena II
É già mattina e Francesco come al solito si reca in sacrestia per iniziare il suo lavoro
Entra in scena Francesco.
Francesco: Che strano. La tavola imbandita. E qui cosa c’è? Minestra. Mi sa che fra’ Giuseppe ieri ha fatto il digiuno. E questo foglio?
Francesco prende il foglio tra le mani e legge: “Per favore, togli tu tutto. Poi ti spiego”. Dove sarà andato di prima mattina? E perché ieri non ha mangiato?  Per la quaresima c’è ancora tempo. Si vede che ha anticipato il digiuno.
Francesco sparecchia mettendo tutto in un angolo della stanza.
Francesco: Ecco. Così è più sistemato.
Un uomo vestito elegantemente entra in scena: É permesso?.
Francesco: Oh, signor conte. Che piacere vederla! Quale buon vento.
Il conte: Cercavo fra’ Giuseppe.
Francesco:  É uscito di buon’ora, stamane.
Il conte: E quando viene, quando viene?
Francesco: Non si sa.
Il conte: E dove è andato, almeno questo lo sapete?”
Francesco: Neanche quello so.
Il conte: Scusate, ma voi non siete il sagrestano?
Francesco: Certamente.
Il conte: E com’è che non sapete niente!
Francesco: Ora vi spiego. Ma intanto accomodatevi signor conte, non c’è motivo che stiate in piedi.
Il conte: Accetto volentieri, ma non starò molto. Sono arrivato stamane da Roma e ho fretta di tornare a casa. Voglio fare una sorpresa a mia moglie. Non sa che sono tornato e questa volta, definitivamente.
Francesco: Comprendo l’impazienza di rivederla, se non sbaglio è da parecchio che siete lontano dalla nostra Sicilia.
Il conte: Si, avete perfettamente ragione. Ma ora basta viaggiare. Mi hanno affidato un incarico importante e delicato in questo bel paese dove sono nato, e dove spero di trascorrere la mia vecchiaia.
Francesco: E giusto voi parlate di vecchiaia? Avete un aspetto così giovanile? Vostra moglie sarà davvero felice di rivedervi.
Il conte: Credo proprio di sì, o almeno lo spero. Sapete, ultimamente l’ho un po’ trascurata. Il lavoro, la carriera, troppe cose ci hanno divisi. Ma l’amore quando è sincero non finisce per questi motivi. Saprò farmi perdonare. Guardate, guardate cosa le ho portato in dono.
Esce da un taschino un pacchetto. Lo apre.
Il conte: Che ve ne sembra?
Francesco: Meraviglioso!
Il conte: Sì, è davvero bello e prezioso. Glielo metterò al dito rinnovando il mio amore per lei.
Francesco: Signor conte, non la facevo così romantico, l’ho sempre vista sotto un altro aspetto.
Il conte: Sotto una scorza dura talvolta si celano buoni sentimenti. Piuttosto, visto che fra’ Giuseppe ritarda, dico a lei il motivo della mia visita. Stamane scendendo dal treno ho incontrato il dott. Manzella.
Francesco: Il dott. Manzella?
Il conte: Sì. Il dott. Manzella. Non ditemi che non lo conoscete!  É lui che coadiuva il capo redattore del nostro giornale locale.
Francesco: Sì. Ricordo perfettamente. É venuto qui in Parrocchia giusto l’altro ieri a parlare con fra’ Giuseppe.
Il conte: So tutto del vostro progetto e mi trovo perfettamente d’accordo con questa lodevole iniziativa. É  ora che si dia una svolta a questo Paese. C’è troppa povertà e ignoranza. Non si può continuare a far finta di nulla.
Francesco: La pensassero tutti come lei!
Il conte: Son ben lieto di mettere a disposizione la mia competenza e il mio denaro per questa giusta causa e ritengo che anche mia moglie la pensi allo stesso modo. Volevo riferire questo a fra’ Giuseppe, rassicurarlo  che avrà tutto il mio appoggio.
Francesco: Grazie, sig. conte. Questa è davvero una bella notizia. Frà Giuseppe le sarà immensamente grato. Riferirò per filo e per segno le sue parole.
Intanto entra in scena Rosetta.
Rosetta con voce ironica: Buongiorno! Guarda chi si vede, il sig. conte, bentornato, bentornato e come sta la vostra fedele consorte?
Francesco: Rosetta, cosa fai qua! E questo il modo di rivolgersi al sig. conte?
Rosetta: Tu non parlare, vile traditore.
Francesco: Vile traditore a me? Non capisco.
Rosetta: Ah, non capisce il signorino. Hai parlato con fra’ Giuseppe?
Francesco: Non l’ho nemmeno visto.
Rosetta: Ah, ora comprendo perché scendi dalle nuvole!
Il conte: Scusate io vado, penso di essere di troppo.
Rosetta: No, lei non va via. Lei sta qui ad ascoltare.
Francesco: Rosetta, ma che ti succede? Sei uscita di senno?
Rosetta: Forse tu vorresti che uscissi di senno… per fare i tuoi comodi liberamente, ma io sono lucida, perfettamente lucida.
Francesco: Continuo a non capire. Non ti riconosco.
Rosetta: Anch’io non ti riconosco. Pensavo di potermi fidare di te e invece… sei come tutti gli altri uomini, un vile traditore.
Francesco: Di nuovo con questo traditore?
Il conte: Scusate, ma io che c’entro?
Rosetta: C’entrate, c’entrate. Eccome se c’entrate!
Il conte: Forse se vi spiegaste meglio eviteremmo di prolungare questa discussione.
Francesco: Si, parla e facciamola finita con questa farsa.
Rosetta: Non è una farsa. É una tragedia.
Rosetta scoppia a piangere e a singhiozzare.
Il conte si alza. Si avvicina alla donna: Signorina, si calmi. Prenda un po’ d’acqua. Si sieda.
Rosetta: No, non voglio bere, non voglio sedermi. Ti odio Francesco, hai rovinato la mia esistenza e lei, sig. conte, stia attento a sua moglie, alla sua bella mogliettina che le è tanto fedele!
Rosetta si gira e scappa via mentre entra Paolino che intuisce dalle parole della sorella quanto può essere accaduto.
Francesco la insegue: Rosetta, dove vai? Lasciami spiegare.
Paolino incrociando Francesco: Te lo avevo detto che prima o poi se ne sarebbe accorta!
Francesco: Stai zitto tu che non capisci niente!
Poi Francesco si avvia verso l’uscita: Aspetta Rosetta! Fammi spiegare.
Rimangono in scena il conte e Paolino.
Paolino: Buongiorno, sig. conte…”
Il conte: Dì un po’ ragazzino, cos’è questa storia? Ho sentito quanto hai sussurrato al sagrestano.
Paolino: Quale storia? Iu nenti so”. (Io niente so).
Il conte: Ah, niente sai? E perché dicesti che tua sorella prima o poi se ne sarebbe accorta?
Paolino: Così, tanto per dire.
Il conte: Ah, tanto per dire! Mi sa che non me la conti giusta.
Paolino: Iu nenti so e mancu mi immischio. (Io niente so e nemmeno voglio essere coinvolto).
Il conte: E invece tu ora parli.
Paolino: Si u facci raccontare da so' mugghìeri! A signura contessa. (Se lo faccia raccontare da sua moglie! La signora contessa).
Il conte: Lo sai che ho l’autorità per farti arrestare se non parli.
Paolino: Tanto sono minorenne e niente mi può fare.
Il conte: Ti do uno scappellotto se continui a fare il finto tonto.
Paolino: Ed io tonto sono, parlo a vanvera e non capisco niente.
Il conte: Piccolo impertinente! Non sai chi sono io.
Paolino: Si, che lo so. Un bel cornuto.
E il ragazzino scappa via.
Il conte rimane solo. Si accascia su una sedia. China il capo. Le mani tra i capelli. É sconvolto da quanto ha udito. Stenta a credere che la moglie lo abbia tradito.
Entra in scena fra’ Giuseppe con la contessa.
Fra’ Giuseppe: Sig. conte, lei qui? Tutto solo?
La contessa stupita alla vista del marito, gli si avvicina per abbracciarlo: Caro, sei tornato? Non ti aspettavo!
Il conte velocemente si alza in piedi, scostandosi da lei, poi la guarda e con tono ironico: Già, proprio una bella sorpresa. Non ti aspettavi di rivedermi così presto, vero?
La contessa: Ma cosa dici?! Certo che mi fa piacere! Solo che di norma mi avvisi sempre quando torni per qualche giorno.
Il conte decide di non rivelare immediatamente quanto ha saputo, vuole sondare personalmente il terreno.
Il conte: E come mai sei qui, in compagnia di fra’ Giuseppe?
La contessa: É successa una cosa incredibile!
Il conte: Davvero? E chi riguarderebbe questa cosa incredibile?
La contessa: me, Francesco e Rosetta.
Il conte: Ah!
E volgendo lo sguardo al pubblico: Giusto quelli. Vedi che coincidenza.
La contessa: Devo vederli immediatamente. Ora che un legame profondo ci lega.
Il conte: E lo dici così, spudorata? E giusto a me che sono tuo marito?
La contessa: Ma che ti prende? Non capisco.
Il conte: Ah, non capisci. E lei, frà Giuseppe, mi meraviglio di lei, qui a tenere il moccolo. É inaudito!
Fra’ Giuseppe: Non sia così severo! Tutti possono sbagliare. E se poi da una relazione extraconiugale nasce pure una bambina, non la si può certo abbandonare al suo destino!
Il conte: Una bambina? Pure questo? Ed io, stupido, che non mi sono accorto di niente.  Da quanti anni dura questa relazione? Confessa sciagurata!
La contessa: Io ne sono venuta a conoscenza ora. Non capisco questa tua reazione.
Il conte rimane interdetto a riflettere: Un momento. Cosa hai detto? Ripeti.
La contessa: Che no ne sapevo niente della relazione di mio padre con la mamma di Rosetta. Anche per me è stata una batosta. Ho sempre visto mio padre come un uomo leale, sincero, innamorato profondamente di mia madre. Anche per me è difficile da accettare. Ma Rosetta è mia sorella. E mio padre non ha rivelato nulla per non turbare l’equilibrio di due famiglie.
Il conte: Cosa…cosa stai dicendo? Non capisco più nulla. Rosetta è tua sorella? E Francesco?
La contessa: Francesco è il suo fidanzato, tutti lo sanno qui in paese, ma che c’entra questo?
Il conte: Ma allora non è il tuo amante?
La contessa: Il mio amante? Che sia un bell’uomo lo riconosco e anche molto attraente, ma pensi davvero che un giovane a modo come lui possa mettersi con una donna della mia età?
Il conte: Ma io credevo…
La contessa: Cosa credevi! Forse che ci fosse una tresca tra me e lui? Non ti nascondo che la cosa mi intriga e che un pensierino avrei potuto farcelo…però….
Il conte, con il cuore in gola: Però…
La contessa si avvicina al conte, gli prende entrambe le mani: Sai bene per chi batte il mio cuore.
Il conte si addolcisce: E allora dimmelo.
La contessa: Dimmelo tu. Una donna ha bisogno di sentirsi amata dal proprio uomo.
Il conte: É vero perdonami, ti ho troppo trascurata, ma oggi ho capito quanto sei importante per me. Se ti perdessi non avrebbe senso la mia vita.
Fra’ Giuseppe spazientito: E allora, voi due, non pensate e quei cari ragazzi che per una serie di equivoci stanno forse litigando?
Il conte: Sapete tutto anche voi, fra’ Giuseppe?
Fra’ Giuseppe: Si, so tutto. Mi ha raccontato per filo e per segno ogni cosa, vostra moglie.
La contessa: Oh, sono stata una stupida, egoista e superficiale. Non voglio che Francesco e Rosetta si lascino per causa mia. Io amo te, mio caro (rivolgendosi al marito) e nessun altro.
Entrano in scena Francesco e Rosetta tenendosi per mano.
Francesco: Non abbiate timore, signora contessa, io e questa incantevole fanciulla, abbiamo chiarito tutto.
La contessa: Davvero? Questo è un giorno meraviglioso, ho scoperto quanto mio marito tenga ancora a me  e ho trovato una sorella.
Francesco e Rosetta all’unisono: Una sorella?
La contessa: Sì, Rosetta. Tu sei mia sorella.
Si avvicina a Rosetta e l’abbraccia.
Rosetta: Ma come è possibile, sig.ra contessa.
La contessa: Non chiamarmi più signora contessa. Io sono Matilde, la tua sorella maggiore. Ti racconterò dopo, ora dobbiamo festeggiare.
Entra il dott. Manzella: É permesso?
Fra’ Giuseppe: Entri, entri pure dott. Manzella. Mancava solo lei.
Manzella: Ho capito bene? Quindi si festeggia? Lo sapevo che il sig. conte e la sig.ra contessa avrebbero finanziato il suo progetto!
Fra’ Giuseppe: Davvero? Davvero contribuireste?
Il conte: Senz’altro, fra’ Giuseppe. Per questo ero passato. Avrà tutto quello di cui ha bisogno. Sono stato incaricato della gestione contabile delle finanze di questo comune. Il suo progetto sarà tra le mie priorità.
Fra’ Giuseppe: O Dio misericordioso, ti ringrazio. Lo sapevo che avresti ascoltato le mie preghiere.
Entra Paolino.
Paolino: Fra’ Giuseppe, veda che i paesani è mezz’ora che l’aspettano per confessarsi.
Fra’ Giuseppe: Vengo, vengo. Lo sapevo che non si può stare mai in pace.
Rivolgendosi poi al pubblico continua con le mani alzate al cielo: Comu haju a fari cu chisti parrocchiani! (Come devo fare con questi parrocchiani!)
Gli altri attori sul palco in coro: aviti raggiuni, fra’ Peppe, comu duviti fari cu nuatri parrocchiani!
E scoppiano tutti a ridere abbracciandolo.

L'AVVENTO DI CRISTO

Testo teatrale di Rosa Mingoia
 
 
PERSONAGGI:
 
Narratore
Giuseppe
Maria 
Vinicio
Gioacchino
Anna
Dio
Elisabetta
Arcangelo Gabriele
Angelo 
Sacerdote
N. 2 Ostesse
N. 2 Pastori  
Re Magi 
Gesù Bambino
Ismaele
N.3 Dottori della Legge
Mercanti e donne
Per le parti danzate (Adamo ed Eva e donne del popolo).
 
 
Atto I
 
Scena I
 
Giuseppe rivela a Vinicio il suo amore per Maria di Nazareth
 
Narratore (dietro le quinte)
 
Nella piccola città di Nazareth, più di duemila anni addietro, viveva un umile falegname di nome Giuseppe, grande lavoratore, benvoluto da tutti, uomo senza pretese, legato alla sua terra e alle sue tradizioni. Ma Dio aveva un progetto su di lui, un grande progetto che lo avrebbe innalzato all’apice della Santità e indotto l’intera umanità a riconoscere in lui il custode del nostro Redentore e il Patrono della Chiesa universale.
 
Entrano sul palco Giuseppe da una parte e Vinicio dall’altra.
 
Giuseppe (canticchia):
Piallo e sego, sego e intaglio, tronchi di legno trasformerò.
Legno di noce, di pioppo o di pino, 
con queste mani modellerò.
Grazie al buon Dio, son forte e onesto,
di lavorare sempre mi va’. 
Corro, fatico e non mi lamento,
lodi e preghiere a lui eleverò.
Mi basta un pasto e un amico sincero
nulla di più di quello che ho.
Piallo e sego, sego e intaglio, tronchi legno trasformerò.
Legno di noce, di pioppo o di pino, 
con queste mani modellerò.
Legno di noce, di pioppo o di pino, 
con queste mani modellerò
 
Vinicio: Salve, Giuseppe. La pace sia con te.
 
Giuseppe: E con te, Vinicio. Qual buon vento ti conduce qui?
 
Vinicio: Nazareth era di passaggio lungo il mio cammino verso Cafarnao e una sosta nella tua dimora mi fa molto piacere.
 
Giuseppe: Il piacere è reciproco, caro amico. Il sole sta calando e presto sarà sera, resta con me.
Divideremo il mio frugale pasto e, se vuoi, mi racconterai di quel che accade a Gerusalemme e di questo tuo viaggio. Cosa ti spinge a raggiungere Cafarnao!?
 
Vinicio: Affari, dimentichi forse che sono un mercante di stoffe? Ti ringrazio per il tuo invito. Ho proprio bisogno di rifocillarmi e riposare queste membra. Piuttosto, ti sei deciso a prender moglie? Ho qui una stoffa di pizzo che andrebbe bene per un abito da sposa.
 
Giuseppe: È un bel pezzo che ci penso, e forse…
 
Vinicio: Forse cosa? Dai, parla! Non tenermi sulle spine.
 
Giuseppe: Non ci crederai, penso proprio di averla trovata.
 
Vinicio: Questa sì che è una bella notizia! E racconta… la conosco? 
 
Giuseppe: Maria di Nazareth è il suo nome, figlia di Anna e di Gioacchino. Una fanciulla incantevole, bianca come la luna e bella come il sole.
 
Vinicio: Che aspetti allora a chiederla in moglie?
 
Giuseppe: È molto giovane. Potrei non piacerle.
 
Vinicio: Suvvia, non ti perdere d’animo. Quando mai si è detto che sia la donna a scegliere il marito! Offri al padre abbondanti capi di bestiame e vedrai che ti concederà la sua mano. Un grande  lavoratore come te è un ottimo partito. Cosa temi? Le donne ti desiderano. Tante sarebbero disposte a giacere sul tuo talamo.
 
Giuseppe: Con Maria è diverso.
 
Vinicio: Che vuoi dire? Non capisco.
 
Giuseppe: O, se tu la vedessi? Maria…quanto mi è soave pronunciare il suo nome. La carezzerò con gli occhi. Sarà la mia regina, l’angelo della mia casa e se Dio vorrà, la mia sposa.
 
Vinicio: Ed io il tuo testimone. Ma ora andiamo, mi è venuta proprio una gran fame, se è ancora valido il tuo invito…
 
Giuseppe: Certamente! Andiamo, caro amico.
 
Giuseppe prende a braccetto Vinicio ed escono dalla scena.
 
 
 
Scena II
 
La promessa di matrimonio
 
Narratore
 
Passarono alcuni giorni e Giuseppe decise di far visita a Gioacchino ed Anna, genitori di Maria. Li conosceva bene, erano due cari amici e sicuramente avrebbero acconsentito a dargli in sposa la figlia. Eppure, una strana inquietudine permaneva nel suo animo, si sentiva emozionato come un giovinetto di appena vent’anni.
“Se il Volere di Dio è che mi unisca a Maria, nessun ostacolo si frapporrà tra noi due” pensò tra sé. E senza più alcun timore si recò nella casa di Anna e Gioacchino.
 
Entrano in scena Gioacchino e Giuseppe.
 
Giuseppe: Messere Gioacchino la saluto e riverisco.
 
Gioacchino: O Giuseppe, che bella sorpresa. Stavo giusto pensando a te. Mia moglie è da stamane che mi tormenta per un tavolo che traballa. Ci vogliono le tue mani per rimetterlo a posto.
 
Giuseppe: Lo riparerò con piacere, messere Gioacchino. 
 
Gioacchino: Sapevo bene di poter contare sul tuo aiuto, come sempre d’altronde, ma dimmi, a che devo la tua visita!? É successo qualcosa?
 
Giuseppe: No, no. Ringraziando Dio, tutto va bene. Son qui per chiederle…non è facile però. 
 
Gioacchino: E allora? Cos’è questo timore? Non dirmi che hai soggezione di me.
 
Giuseppe: No. Non è questo. Da quanto tempo ci conosciamo, messere Gioacchino?
 
Gioacchino: Anni direi, tanti anni. 
 
Giuseppe: Già. Lei è come un padre per me, quantunque non vi sia molta differenza di età tra noi due. Eppure sono emozionato come un discente dinnanzi al suo maestro.
 
Gioacchino: Giuseppe, Giuseppe, cosa può dirmi una brava persona come te! Di cosa devo preoccuparmi?
 
Giuseppe: Di nulla, credetemi. Anzi, son qui per una richiesta che forse le farà piacere, o almeno lo spero.
 
Gioacchino: E allora, non esitare a parlare.
 
Giuseppe: Ecco, mi sono innamorato di vostra figlia e desidero maritarla, se mi concedete la sua mano. Naturalmente questa mia proposta di nozze è accompagnata da una cospicua dote. Sarete voi a quantificarne l’ammontare.
 
Gioacchino: Caro figliuolo, nulla può farmi più felice. Questo è sicuramente il Volere del Signore. Anche Anna ne sarà ben lieta e ringrazieremo Dio per questa inaspettata notizia.
 
Entra Anna in scena.
 
Anna: Di quale inaspettata notizia state parlando voi due? Orsù, ditemi! Non tenetevi sulle spine.
 
Gioacchino: Sapessi, cara muglieri! Dobbiamo festeggiare! Oggi è giorno grande!
 
Anna: Festeggiare cosa? Spiegati meglio
 
Gioacchino: Questo mio caro amico ha chiesto la mano di nostra figlia.
 
Anna alzando gli occhi al cielo: O, sia lodato il Signore… Maria sposa di Giuseppe? Devo dirglielo subito. Vado, vado a chiamarla.
 
Anna esce dalla scena frettolosamente. 
 
Gioacchino: Amico mio, hai fatto un’ottima scelta. Mia figlia è una perla rara. Ti sarà fedele e obbediente come si conviene a ogni moglie e tu, rispettala e amala più di te stesso. 
 
Entra in scena Maria con Anna al suo fianco. Maria ha il capo chino.
 
Maria alzando lo sguardo verso il padre: Padre, son qui. Cosa volete dirmi?
 
Gioacchino: Figlia mia, vieni, vieni vicino a me.
 
Maria fa un passo in avanti.
 
Gioacchino: Oggi è un giorno benedetto dal Signore.  Giuseppe mi ha chiesto il permesso di unirsi a te dinnanzi a Dio con il sacro vincolo del matrimonio. Io sono ben lieto di questa sua proposta e son sicuro che lo sei anche tu.
 
Maria: Padre, sapete bene che nulla può rendermi più felice del far la vostra volontà. 
 
Maria (volgendo lo sguardo verso Giuseppe): Accetto… sarò la tua sposa.
 
Giuseppe sorride e bacia la mano a Maria.
 
Anna (alzando gli occhi al cielo): Sia ringraziato Dio per la sua benevolenza. Mi occuperò dei preparativi per le nozze. Vi sarà un grande banchetto. E l’abito bianco, con pizzo e merletti. Inviteremo tutti i nostri amici e sarà festa, festa grande nel nome del Signore.
 
Giuseppe: Vado allora, deciderete voi la data. La pace sia in questa famiglia.
 
Gioacchino: E sia sempre con te, Giuseppe.
 
Escono dalla scena prima Giuseppe, poi Anna con Gioacchino.
 
Maria rimane nel centro del palco, si inginocchia, con le mani giunte.
 
 
Scena III
 
L’annunciazione
 
Entrano sul palco due angeli: l’Arcangelo Gabriele si posiziona a distanza di fronte a Maria e l’altro angelo con le mani giunte si posiziona in piedi alle spalle di Maria.
 
Maria è sempre inginocchiata sul palco.
 
L’arcangelo Gabriele (rivolto al pubblico):
 
Se ne stava Maria nella sua stanza, rannicchiata in preghiera,
le braccia incrociate sul petto e il capo chino.
Quante volte ha invocato il tuo nome, mio Signore,
Divino Amore che non conosci fine!
Nel silenzio meditava sulla tua Parola,
isolando la mente da materiali pensieri,
quando, ecco, all’improvviso,
nella penombra dell’umile dimora,
i miei raggi di luce avvolsero il suo viso.
Gli occhi alzò, ricolma di timor di Dio,
e incrociò il suo innocente sguardo con il mio.
Turbata rimase alle mie dolci parole:
“Ti saluto, o piena di grazia, con te è il Signore. Non avere alcun timore, Maria, hai trovato grazia presso Dio. Concepirai un figlio, lo chiamerai Gesù. Sarà grande e chiamato Figlio dell’Altissimo; Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine”.
 
Teso era il suo orecchio a quel messaggio Divino,
grata infinitamente all’Onnipotente Signore, 
pur non capendo 
come potesse compiersi un tal privilegio 
in una casta vergine che mai conobbe uomo.
Eppur credendo a quelle Sante Parole sospirò
 
Maria si alza da terra, allarga le braccia come ad accogliere l’invito: “Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga in me secondo la tua Parola”.
 
L’arcangelo continua: E a quel “SÍ”, in lei si fece carne Cristo, il Redentore.
 
L’arcangelo Gabriele si posiziona dietro Maria (accanto all’altro angelo e a questo punto si ode la voce di Dio, tra le quinte, con il sotto fondo musicale della Placida progressione del mare.
 
Dio:
Il Verbo si è fatto carne. 
Sì, si è fatto carne.
Sembra incredibile, vero?
Un Dio che assume l’umana natura
in tutto fuorché nel peccato.
Perché? Direte voi. 
A qual buon fine?
L’ho sempre voluto, fin dalla notte dei tempi.
Non potevo abbandonare le mie creature in balia del male.
 
Entrano in scena due ballerini che interpretano Adamo ed Eva e danzano felici mentre Dio continua a parlare.
 
Dio:
Quando creai l’uomo e la donna con infinito amore li plasmai con il fango 
e col soffio Divino donai loro la vita. 
Donai anche la terra, il cielo e il mare, 
e quanto di più bello catturasse i loro occhi. 
Ruscelli di acqua limpida scorrevano ai loro piedi 
e canti di augelli festosi animavano i loro giorni. 
 
Eva danzando si avvicina ad un angolo del palco e prende una mela da terra. La solleva verso l’alto e la guarda, poi corre verso Adamo e gli mostra la mela, gira intorno a lui con movenze suadenti per indurlo a prenderla e morderla. Nel frattempo Dio continua a parlare.
 
Dio:
Ma l’invidia è una bestia feroce, 
logora chi ne è pervaso, 
suscita disprezzo per la vita, desiderio di vendetta.
Una torcia, accesa d’ira e di superbia, eri angelo del male, 
le unghia affilate, protese sulle mie creature.
O misere, deboli creature umane! 
Trascinate con l’inganno nel fango, 
succubi del maligno, 
immerse nel peccato, nel dolore e nel pianto.
Non volevo lasciarvi annegare.
Fu così che vedendo in me cotanto amore,
l’Unigenito, mio diletto Figlio, 
per opera dello Spirito Santo, 
si incarnò nel grembo di questa giovane vergine, Maria,
concepita, per mio Divino Volere, senza macchia di peccato originale.
Nulla è impossibile a Dio.
 
Escono di scena Adamo ed Eva. 
 
Maria:
Cosa succederà ora?
Adesso, che ho detto “Sì” con tutto il mio cuore.
So solo che immensa è la mia gioia 
e l’anima esulta in Dio, mio Salvatore.
È un mistero questo che non mi so spiegare,
che mi avvolge e mi sconvolge,
è un rivolo d’acqua pura che dalle viscere sale e disseta ogni umana creatura.
 
L’angelo dietro Maria esclama con il sottofondo musicale:
 
Signore del Cielo e della terra,
vedi come questa vergine ti adora?
Del tuo profumo si inebria
e come candida colomba si adagerà tra le tue sante mani 
e canterà in eterno la tua misericordia
perché il tuo Spirito già trabocca in lei.
 
Maria continua a parlare:
 
Cosa dirò a Giuseppe?
Quali parole pronunciare!
La ragione non può spiegare 
quel che è avvenuto in me,
ma ho fede nell’Onnipotente Signore, 
Lui mi proteggerà dall’ira 
di chi non potrà capire.
E gli occhi di ogni uomo si apriranno
e vedranno la Divina Luce.
 
Maria esce di scena
  
L’angelo continua:
 
Maria ti adora, Signore del Cielo e della terra,
del tuo profumo si inebria
e come candida colomba si adagerà tra le tue sante mani
e canterà in eterno la tua misericordia
perché il tuo Spirito già trabocca in lei.
 
Interviene l’arcangelo Gabriele:
 
O, Divina Maestà, quale grande privilegio hai concesso a quest’umile fanciulla, 
è la Madre del Messia, tanto atteso. Eppure in lei non vi è orgoglio, né vanità, solo amore, amore verso Te, Signore e verso ogni umana creatura, amore che si spande d’intorno come raggi che rischiarano tortuosi sentieri e conducono alla meta. Vedi, mio Re, come lungi dal pensare a se stessa, si preoccupa di Giuseppe e come allorché le rivelai che anche sua cugina, Elisabetta, nella vecchiaia ha concepito un figlio, lesta si sta mettendo in cammino per farle visita e condividere la gioia per la buona novella. Maria, vive pienamente nella tua Volontà.
 
Quando termina la musica i due angeli escono dalla scena
 
 
SCENA IV
 
La visita di Maria alla cugina Elisabetta
 
 
Entrano sul palco Elisabetta e Maria
 
Elisabetta: Cugina cara, che meraviglia averti qui! Entra nella mia modesta casa. Appena ho udito la tua voce il mio piccolo ha sussultato di gioia nel mio grembo. Benedetta sei tu fra tutte le donne e benedetto il frutto del tuo seno. La madre del mio Signore si è degnata di venire a me, tu che sei la beata perché credesti all’adempimento della Parola dell’Altissimo.
 
Maria: “L'anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore, perché ha guardato l'umiltà della sua serva. D'ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata.
Grandi cose ha fatto in me l'Onnipotente e santo è il suo nome: di generazione in generazione
la sua misericordia si stende su quelli che lo temono. Ha spiegato la potenza del suo braccio, ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili;
ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote.  Ha soccorso Israele, suo servo,
ricordandosi della sua misericordia, come aveva promesso ai nostri padri, ad Abramo e alla sua discendenza, per sempre. 
 
Elisabetta: Sì, Maria, è veramente Santo e glorioso il suo nome. Vieni al tempio con me e Zaccaria a rendere grazie all’Altissimo. Spero ti tratterrai a lungo. Abbiamo tante cose da dirci. O, come sono felice di rivederti!
 
Maria: Anch’io Elisabetta. Ma dov’è Zaccaria?
 
Elisabetta: Di là, nella sua stanza. Sapessi, Maria, quel che è accaduto! Zaccaria non ha più parlato da quando l’angelo gli ha predetto la nascita di nostro figlio. Abbiamo tanto desiderato questa mia gravidanza, per un lungo, lunghissimo tempo. Mi sono sempre nascosta per la vergogna come se la mia sterilità fosse una colpa. Ed ora, che siamo avanti negli anni, il Signore, nella sua infinita bontà, si è ricordato di noi, ha ascoltato le nostre preghiere. Ma Zaccaria non ha creduto e da allora nessun suono esce più dalla sua bocca. Perché non credere, mi son chiesta mille volte? I pensieri di Dio son ben diversi da quelli dell’uomo, non possono essere compresi ma accettati sì. 
 
Maria: Elisabetta, non temere, Dio non conosce l’ira.
 
Elisabetta: O, lo so bene. Non sono preoccupata. Riacquisterà la parola, l’angelo lo ha detto, quando mio figlio nascerà, Zaccaria riacquisterà la parola. Dobbiamo solo aver pazienza.
Orsù, andiamo adesso, andiamo a ringraziare il Signore.
 
Escono entrambe dalla scena.
 
 
Scena V
 
Maria rivela a Giuseppe che in lei si è incarnato il Figlio di Dio
 
NARRATORE
 
Maria rimase dalla cugina circa tre mesi. Poi tornò a casa. Era giunto il momento d parlare con Giuseppe, non poteva più tacere. Uscì di casa all’alba col pretesto di andare a riempire l’acqua alla sorgente. E mentre percorreva a piedi quei viottoli erbosi che la separavano dalla bottega del suo promesso sposa, tra se pensava alle parole che avrebbe dovuto pronunciare. Come spiegare quel che le era accaduto? Come non arrecare alcun dolore? Ecco! Si sarebbe affidata a Dio. Se questo era il suo Volere, tutto si sarebbe risolto per il meglio. Con fede e con speranza si recò dal suo promesso sposo. 
 
Entrano in scena Giuseppe e Maria. Inizia un dialogo tra i due.
 
Giuseppe: Maria, tu qui? A che devo tanto onore? 
 
Maria: Posso entrare nella tua casa?
 
Giuseppe: Ma certo. In verità non mi è concesso ricevere la mia diletta sposa in quest’umile dimora prima del grande giorno. 
 
Maria: Ti prego. Devo parlarti.
 
Giuseppe: Devo forse preoccuparmi? Non ti ho mai vista così pensierosa!
 
Maria: Perdonami Giuseppe, non voglio farti soffrire, ma non posso tacere.
 
Giuseppe: Suvvia! Quale grande segreto può celarsi dietro questi limpidi occhi!?
 
Maria: Un segreto? No, non un segreto, ma un Mistero sì.
 
Giuseppe: Un mistero? Non comprendo. 
 
Maria: Sì, Giuseppe, un Mistero, inafferrabile, incomprensibile all’intelletto.
Nel mio grembo, in questo mio virgineo grembo che mai conobbe uomo, si son compiute le Sacre Scritture. 
 
Giuseppe barcolla.
 
Giuseppe: Cosa vai dicendo! 
 
Maria: Ricordi Giuseppe? Le parole del profeta Isaia, ricordi? “Il Signore stesso vi darà un segno: Ecco, la vergine concepirà e partorirà un figlio e lo chiamerà Emmanuele….” 
 
Giuseppe ricorda e prosegue con voce flebile: Egli mangerà panna e miele finchè sappia rigettare il male e il bene….”. O sì, certo!…La profezia di Isaia….ma non comprendo…
 
Maria: É tutto vero, Giuseppe. Dio ha posato gli occhi su di me, su questa umile creatura che mai conobbe uomo. Non so perché. So solo che questo è il suo Volere. 
 
Giuseppe (colmo di disperazione): No, non posso crederti.  Il Figlio di Dio che si fa uomo! E perché mai ha voluto scegliere te, proprio te, che sei la mia promessa sposa? Non può avermi fatto questo! Non il Dio di Abramo, il Dio dei miei padri; il Dio che conosco e che amo è un Dio giusto, non agirebbe mai come un tiranno.
 
Maria: Non è un tiranno.  Il suo Santo Spirito è sceso su di me, ha preso la nostra umanità. Lo ha fatto per amore verso le sue creature. Credimi…solo per amore…
 
Giuseppe: Non voglio ascoltarti.
 
Maria: Ti prego. Devi credere. Devi aver fede.
 
Giuseppe (sconvolto e abbattuto): Non ora. Dammi tempo. Io non so, non comprendo. Lasciami solo, ti prego.
 
Maria esce di scena affranta.
 
Giuseppe alza la testa e grida nella disperazione.
 
Giuseppe: Perché, mio Dio, perché proprio lei? Ed io …cosa farò ora? Ascolta, Signore, il mio grido di dolore. Sollevami da questa angoscia che mi opprime.
Era la mia promessa sposa, pura, candida e sincera, l’amavo più di me stesso. Mai con un dito l’avrei sfiorata, regina era nei miei sogni, rosea nella pelle e profumata. E adesso, non so, non comprendo questo inafferrabile mistero.
Cosa fare adesso?
Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, cosa è giusto fare?
 
Giuseppe china il capo e a voce bassa riflette.
 
Giuseppe: E se quello che Maria ha detto fosse davvero il progetto di Dio? Non posso ripudiarla come una donnaccia, non posso lasciarla lapidare.
L’allontanerò da me, in silenzio, e annegherò nel mio dolore.
Non voglio più pensare. Pesanti son divenute queste palpebre, confusa è la mia mente. Chiuderò gli occhi per avere un po’ di pace.
 
Giuseppe chiude gli occhi, ha il capo chino e ode la voce di un angelo
 
Angelo (fuori dal palco si ode la sua voce):
 
Giuseppe, figlio di Davide, non temere. Sono messaggero dell’Altissimo.
Placa la tua ira, abbandona ogni paura.
Le tenebre si dissolveranno e una nuova alba sorgerà per l’uomo. 
Casta è la tua sposa, come un giglio pura, fedele alla sua promessa.
Ma Dio l’ha scelta, l’ha plasmata immacolata per accogliere il suo diletto Figlio.
Non c’è tradimento, non c’è offesa. 
Questa è la Volontà Divina per salvare ogni umana creatura.
Sii fiero e riconoscente a Dio, uno e trino, che per troppo amore si è fatto uomo.
Destati, ora! 
Vai e sii paziente e retto. 
Non dubitare mai più di Maria, non allontanarla come un’indegna sposa.
Cresci Gesù, l’Emmanuele, come un vero figlio.
Lodato sarai in eterno nei cieli e sulla terra per il tuo paterno gratuito amore.
 
Giuseppe a quelle parole riemerge come da un torpore. 
 
Giuseppe: Cosa mi succede? Non provo più rancore nel mio cuore. È come se una fiamma avesse bruciato la mia ira ed ora ardo ancor più d’amore per lei, …la mia diletta sposa. Queste parole, udite come in un sogno, esprimono la Volontà di Dio. Voglio credere. Voglio fidarmi anche se non comprendo. Ho sbagliato, ho dubitato della fedeltà di Maria. Come ho potuto farle questo? Le parlerò. Le chiederò perdono. La nostra unione è benedetta dal Signore. Si compiano le Sacre Scritture.
 
Giuseppe esce di scena.
 
 
 
 
FINE PRIMO ATTO
 
 
 
 
II ATTO
 
Scena I
 
Le nozze tra Maria e Giuseppe
 
 
Narratore:
 
Volle l’Onnipotente rivelarsi all’uomo attraverso l’Unigenito Figlio. Così fu scritto e così avvenne.
Giuseppe credette alle parole dell’angelo e non ripudiò, né allontanò in silenzio la sua promessa sposa,  consapevole oramai del grande privilegio che il Signore volle concedere a Maria, la maternità di  Colui che avrebbe redento e salvato il mondo. E Giuseppe, un povero falegname, avrebbe cresciuto, custodito e amato come suo figlio quel tenero bambino. Venne così il giorno delle nozze e per le vie di Nazareth si udivano canti festosi.
 
Entrano in scena donne in costume che danzano.
 
Quando termina la danza, i danzanti si posizionano in fondo al palco ed entra in scena un sacerdote, seguito da Giuseppe.
 
Il sacerdote si posiziona nel centro del palco, mentre Giuseppe lateralmente.
 
Una danzante  grida con voce festosa: “La sposa, arriva la sposa”.
 
Entra Maria accompagnata dal padre Gioacchino .
 
Si posizionano al lato opposto di Giuseppe.
 
Gioacchino: Giuseppe, ti consegno mia figlia, quanto di più prezioso Dio mi ha donato. Ora è tua, veglia su di lei e amala più di te stesso.
 
Gioacchino si allontana e si posiziona accanto ai danzanti.
 
Il sacerdote, al centro tra Giuseppe e Maria: 
 
Siete qui figlioli per unire le vostre vite e camminare insieme lungo la strada che conduce al Signore.
Poi volgendo lo sguardo a Giuseppe continua: Vuoi tu, Giuseppe, prendere come tua sposa Maria, sinché morte non vi separi?”
 
Giuseppe guarda Maria, le sorride e risponde al sacerdote “Sì, lo voglio”
 
Sacerdote (rivolto a Maria): E tu, Maria, vuoi prendere come sposo Giuseppe, sinché morte non vi separi?
 
Maria volge lo sguardo verso Giuseppe, sorride e risponde: “Sì, lo voglio”.
 
Sacerdote: Sia benedetta questa unione dal Signore. L’uomo non divida ciò che Dio unisce. Andate e moltiplicatevi, la luce di Dio risplenda sempre nei vostri occhi.
 
Giuseppe e Maria si voltano verso il pubblico scambiandosi queste parole.
 
Giuseppe: Tu sei mia moglie e né acqua, né fuoco, né spada mi separeranno da te in questa terra. Sarò il tuo scudo, la tua roccia, perché così ha voluto il Signore. Ma tu appartieni a Dio ed io mi inchino dinnanzi alla Divina Maestà. L’Onnipotente ha benedetto la nostra unione e la nostra discendenza. Ti prometto, e il Signore mi è testimone che non sto mentendo, che amerò questo bambino che custodisci nel tuo grembo come mio vero figlio, lo difenderò da ogni insidia, lo crescerò e gli insegnerò il rispetto, la giustizia e il perdono. Gli parlerò di Jahvè e di Mosè che condusse il nostro popolo fuori dall’Egitto. Finché avrò vita nulla dovrà temere, perché io veglierò su di Lui e su di te, mia dolce sposa.
 
Maria: Benedetto sia l’Onnipotente Signore per questo gratuito dono. 
 
Una danzante grida: Forza, riprendiamo le danze. Lunga vita agli sposi!
 
Tutti in coro: fecondità agli sposi!
 
E mentre riprendono le danze sul palco con la musica, Giuseppe  mette un braccio intorno alle spalle di Maria ed escono di scena. Alla fine della danza escono anche i danzatori.
 
 
 
 
Scena II
 
La nascita di Gesù
 
 
Narratore (con sottofondo musicale)
 
Maria era già al nono mese di gravidanza quando un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento su tutta la terra e così i due sposi dovettero recarsi a Betlemme, la loro città natia.
 
Entrano in scena due ostesse e si posizionano ai lati opposti del palco. 
 
Entrano sul palco Giuseppe e Maria. Giuseppe ha un braccio intorno alle spalle di Maria. Cerca di coprirla con il suo mantello. Si avvicinano alla prima ostessa.
 
Giuseppe: Scusate, è tanto che giriamo in lungo e in largo e nessuno ha un posto per me e mia moglie.
 
Ostessa: Non sapete che c’è il censimento? Non abbiamo più letti a disposizione. 
 
Giuseppe: Vi prego, per carità, ci basterebbe un angolino all’interno, anche sul pavimento. Qua fuori fa troppo freddo e mia moglie è in procinto di partorire. 
 
Ostessa: È inutile che insistete. Se non c’è posto, non c’è posto. Credete forse che mi faccia piacere lasciarvi fuori con questa neve? Ma non posso accontentarvi. Andate più avanti. Forse troverete qualcosa.
 
Giuseppe: Sì, scusate. Proverò più avanti.
 
L’ostessa esce di scena. 
 
Giuseppe fa un giro largo del palco, tenendo a se stretta Maria.
 Poi si rivolge alla seconda ostessa 
 
Giuseppe: Vi prego, avete…
 
Ostessa: Prima che parliate vi dico subito che non c’è posto. Siamo pieni sino al collo.
 
Giuseppe: Abbiate pietà di una giovane donna gravida. Fate entrare almeno mia moglie, io rimarrò fuori. 
 
Ostessa: Non se ne parla nemmeno. C’è un bordello qui dentro e voi mi dite di far entrare una donna incinta? E per giunta con le doglie? Andate via. Non voglio una rissa.
 
Si allontana dal palco la seconda ostessa.
 
Giuseppe al centro del palco si copre il viso con le mani, disperato, poi alza gli occhi al cielo.
 
Giuseppe: Mio Signore, vieni in nostro soccorso. Dove possiamo andare?
 
Si ode una voce dietro le quinte.
 
Angelo: 
Non disperare. Dio non abbandona chi ha bisogno. Prendi Maria, cammina ancora, vai avanti, troverai una stalla.
 
Giuseppe abbraccia Maria.
 
Giuseppe: Vieni, Maria.
 
Maria: Sono stanca, non ho più forze.
 
Giuseppe: Ancora pochi passi, c’è una stalla là in fondo.
 
Maria: Come lo sai?
 
Giuseppe: Ho udito una voce, un angelo del Signore. Non siamo soli Maria. Coraggio.
 
Maria si aggrappa a Giuseppe ed escono di scena.
 
Entrano in scena due pastori.
 
Pastore n.1: Guarda lassù. È una notte piena di stelle.
 
Pastore n. 2: E quella? Non l’ho mai vista. Sembra che stia cadendo su di noi.
 
Pastore n. 1: Non sta cadendo. È solo grandissima.
 
Pastore n.2: È vero. È bellissima. Sembra quasi di toccarla.
 
Si ode una musica celestiale. La musica è quella “Nel dipinto d’amor”
 
Pastore n.1: E questo suono? Da dove viene?
 
Entra in scena l’arcangelo che annuncia la nascita di Gesù.
 
Arcangelo:
 
È nato Gesù, è nato il Redentore del mondo. 
La volta stellata del cielo si incurva come fosse un manto. 
Il cielo e la terra, uniti quasi in un sol respiro, 
si inchinano innalzi a questo tenero bambino 
mentre soave si espande un armonico canto.
Venite, accorrete, viandanti e pastori. 
Voi che cercate la pace, che afflitti piangete sulle vostre miserie. 
Rallegratevi, esultate, lodate il Signore perché infinito è il suo amore. 
Quando mai si è visto un re che si abbassa a soccorrere il suo servitore? 
Che abbandona il suo regale palazzo per abitare in una misera stalla? 
Dove son finite le sue vesti dorate, le gemme preziose e le ghirlande di fiori? 
Guardate, umane creature, come si è fatto simile a voi il Creatore dell’intero Universo. 
Non c’è frusta, né scettro tra le sue mani. 
Ha sembianze di un bimbo che brama carezze, 
che si abbandona docilmente tra le tenere braccia di una giovane e dimessa vergine, 
per smorzare gli insani rancori, per commuovere i vostri duri cuori.
 
Pastore n.1: che musica celestiale!
 
Pastore n.2: Guarda, la stella si muove!
 
Pastore n.1: È vero! La stella si muove. Seguiamo la stella.
 
Pastore n.2: Sì, seguiamo la stella.
 
Escono i due pastorelli dalla scena. 
Entrano sul palco Giuseppe e Maria con in braccio Gesù bambino, seguiti da un angelo. Si posizionano al centro del palco. L’altro angelo che aveva prima annunziato la nascita si posiziona anche lui dietro la Sacra Famiglia con le mani giunte.
 
Giuseppe depone a terra una cesta con paglia.
 
Giuseppe: Ecco, adagialo qui, su questo fieno.
 
Maria pone Gesù nella cesta.
 
Maria: È bellissimo! È il Figlio di Dio ed è anche nostro figlio.
 
Giuseppe: Gesù è il suo nome. Dio me lo ha rivelato, Gesù, colui che salva.
 
Maria: Li senti anche tu, Giuseppe? Li senti questi cori di angeli? Benedetto l’Onnipotente Creatore, 
che si è fatto piccolo per venire in mezzo agli uomini e ha scelto me, umile serva, come sua regale dimora.
 
Giuseppe : Sì, Maria, ho udito. È tutto vero quello che l’angelo mi aveva predetto in sogno. 
Ed io ho creduto. 
Le Sacre Scritture si sono compiute. Il Signore è tra noi.  È in questa mangiatoia che sorride beato, è negli animi di chi soffre e cerca consolazione, di chi ha atteso a lungo la sua venuta.
 
Ora Maria e Giuseppe si pongono dietro la culla sempre nel centro del palco.
 
I due angeli iniziano a lodare il Signore.
 
Arcangelo:
Suonate or dunque arpe e violini, 
ogni ginocchio si pieghi in preghiera.
Lodate tutti la misericordia di Dio
che ha a cuore la sorte dei propri figli 
e li condurrà nell’eterna sua Gloria alla fine dei tempi.
Benedetto il suo Santo nome e chi lo invoca con rispetto e timore. 
Alleluia, alleluia, è nato il Redentore.
 
Finisce la musica “NEL DIPINTO D’AMOR”.
 
L’altro angelo canta “LA SACRA FAMIGLIA” di cui è autrice sia del testo che della musica la soprano Dora Saporita.
 
Entrano in scena i pastori che offrono una cesta di viveri e i re magi che offrono l’oro, l’incenso e la mirra.
 
Termina la canzone “La Sacra Famiglia” e il coro canta “Tu scendi dalle stelle” e “Astro del Ciel”.
 
 
 
FINE SECONDO ATTO
 
 
 
 
III ATTO
Scena I
L’infanzia di Gesù 
 
Narratore (dietro le quinte)
Quaranta giorni dopo la nascita di Gesù, Maria e Giuseppe si recarono al tempio di Gerusalemme per presentare il bambino al Signore e offrire in sacrificio una coppia di tortore o di giovani colombi, come prescrive la Legge del Signore. Fu lì che Maria incontrò un anziano sacerdote di nome Simeone, il quale, alla vista del Messia, lo prese tra le braccia e benedisse Dio dicendo: “Ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace secondo la tua parola; perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli, luce per illuminare le genti e gloria del tuo popolo Israele. Egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione perché siano svelati i pensieri di molti cuori. E a te, Maria, una spada trafiggerà l’anima”. Nell’udire queste parole, ricolma di stupore, la Vergine comprese di aver condotto Gesù al Tempio non tanto per riscattarlo come gli altri primogeniti, ma piuttosto per essere offerto a Dio in autentico sacrificio.
Intanto Gesù cresceva.
Si apre la scena con Giuseppe che lavora il legno, Gesù di circa 8 anni seduto a terra e Maria che cuce.
Gesù (si rivolge a Giuseppe): Padre, come si lavora il legno?
Giuseppe: Se vuoi imparare, figliolo, guarda me. Lo vedi questo bel tronco? Va lavorato con cura, con amore. C’è vita anche in questo pezzo di legno. Prima era un imponente faggio, robusto e rigoglioso. Gli uccelli facevano i loro nidi tra le foglie e crescevano i loro piccoli. E i viandanti riposavano ai suoi piedi, al riparo della calura. Da piccolo mi arrampicavo tra i suoi rami per non farmi trovare quando giocavo a nascondino. Era davvero divertente. 
Gesù: Perché lo hai tagliato padre? Un albero così bello!
Giuseppe: Vedi, figliolo, tutto è bello quel che è creato da Dio. Ma nostro Signore ha voluto donarci  ogni cosa per il sostentamento dell’uomo. Quest’albero non è morto, non è sprecato. Diverrà un solido letto, oppure una bella credenza dove riporre le pentole e i piatti. Lui vive ancora sotto un’altra forma. Si è sempre vivi quando si è utili agli altri.
Gesù: Hai ragione, papà, continua a vivere chi ama.
Giuseppe: Vai ora, vai un po’ a giocare con gli altri bambini. Lo sai che ti aspettano. Ti chiamerò io se avrò bisogno di te.
Gesù si alza, dà un bacio sulla guancia al padre e alla madre ed esce di scena.
Maria guarda con affetto Giuseppe.
Maria: Grazie Giuseppe, ti prendi cura di Gesù e di me come un buon padre e un fedele marito. Grande sarà la ricompensa nei cieli. Gesù ti ama, ma io so che la sua mente e il suo cuore sono un tutt’uno con l’eterno Padre. Talvolta mi soffermo a guardarlo mentre prega Dio nell’oscurità della sua stanza e il suo fervore è così intenso da travolgere tutta me stessa. Non riesco a staccare gli occhi da Lui e avverto in fondo all’anima che pur essendo la madre che lo ha generato, sono io piuttosto la figlia che confida in Lui. E imparo da questa innocente creatura, umana e divina, e custodisco la sua Parola nel mio cuore.
Entra Gesù in casa piangendo: Madre, madre!
Si getta nelle braccia di Maria.
Maria: Gesù, che è successo? Ma tu sanguini!
Maria lo abbraccia e gli tampona con la veste il sangue che esce dalle ginocchia. Poi gli asciuga le lacrime con un bacio.
Maria: sei caduto? Ti fa tanto male?
Gesù: No madre, tra le tue braccia non sento più il dolore.
Maria: Capita di cadere quando si corre.
In quel momento entra un bambino più grandicello di Gesù e più robusto di nome Ismaele.
Ismaele: Gesù, mi dispiace, non volevo spingerti, non intendevo farti del male. Volevo solo vincere la corsa e non ti ho visto. Perdonami.
Gesù: lo so che mi vuoi bene. Non ce l’ho con te. Sono corso dentro casa perché mi faceva tanto male e avevo bisogno dell’abbraccio di mia madre. Ora è passato. 
Ismaele: siamo sempre amici, allora?
Gesù: siamo più che amici, siamo fratelli. 
E Gesù lo abbraccia.
Ismaele: Nessuno mi ha mai detto così. Tutti mi prendono in giro perché sono grosso e rozzo. Non sono abituato alle belle maniere. I miei genitori quando sbaglio mi puniscono con la cinghia. La tua invece è una bella famiglia. O Gesù, vorrei tanto anch’io un abbraccio da mio padre e da mia madre.
Gesù lo guarda commosso.
Gesù: Vieni, torniamo a giocare. Non avere timore. Vedrai che nessuno alzerà più le mani su di te.
Gesù ed Ismaele escono di scena.
Maria alza gli occhi al cielo e sospira: Il tuo Spirito è in Lui, Padre misericordioso. Gloria e lode nei secoli al mio Signore.
Maria poi si rivolge a Giuseppe: Andiamo di là mio consorte. É quasi l’ora di consumare il pasto e anche tu hai bisogno di riposare.
Escono entrambi di scena.
 
 
 
 
Scena II
Maria e Giuseppe smarriscono Gesù a Gerusalemme
 
Entrano in scena dei venditori ambulanti con alcune stoffe sulle spalle. Si posizionano ai due angoli del palco.
Un mercante: Accorrete gente. Tre denari, solo tre danari per questa stoffa ricamata a mano con fili d’oro. 
Un altro mercante: Avanti, che aspettate! Mantelli di pura lana, caldi ed eleganti. Venite. Tutto a buon prezzo. 
Entrano in scena signore che si fermano a guardare. Danno monete in cambio di stoffe ed escono dalla scena. Entrano sul palco Maria e Giuseppe.
Giuseppe: Quanta gente. Come ogni anno Gerusalemme si riempie di stranieri per la festa di Pasqua. Stiamo vicini, Maria, per evitare di perderci.
Maria: Sì, Giuseppe. Tieni tu la mano a Gesù.
Giuseppe: Perché non è con te?
Maria: No. Era qui, ma non lo vedo più, pensavo che fosse accanto a te. 
Giuseppe: Non perdiamoci d’animo. Stai tranquilla, si sarà fermato più indietro a guardare.
Giuseppe fa qualche passo indietro e si rivolge al primo mercante.
Giuseppe: Avete visto un bambino di circa dodici anni, gracile, con una piccolo tunica?
Mercante: Chi volete che veda in questa confusione! Cercate altrove.
Giuseppe si rivolge ad un altro mercante che sta vendendo una stoffa ad una donna.
Giuseppe (con tono preoccupato che denota ansia): Scusatemi, sto cercando un bambino di dodici anni, capelli corti, castani, era qui accanto a me, l’avete visto?
Mercante: No, mi dispiace.
Giuseppe si gira intorno, e chiama: Gesù, Gesù, dove sei?
Maria al centro del palco, stordita, guarda Giuseppe che corre da una punta all’altra del palco fermando i passanti che incrocia.
Giuseppe si rivolge ad una donna che entra in scena.
Giuseppe: Avete visto un fanciullo? Ha solo 12 anni, si chiama Gesù.
La donna interpellata esclama: Gesù? Non so chi sia. Potevate tenerlo per mano! Chissà dov’è finito?
Giuseppe si avvicina a Maria.
Giuseppe: Non lo trovo. Vieni. Allontaniamoci da questa folla. Torniamo più indietro. Forse si è fermato a Gerusalemme.
Maria: Giuseppe ho paura!
Giuseppe: Maria non temere, lo troveremo. Dio è con noi. Non gli è accaduto nulla di male. Vieni.
Giuseppe e Maria escono dalla scena.
Un mercante (rivolgendosi ad un altro mercante): Hai visto quei due? Hanno perso il figlio.
L’altro mercante: Poveretti! Che Dio li assista!
Escono tutti dal palco.
 
 
Scena III
Gesù predicava alle genti
 
Entrano in scena alcuni dottori della legge, si posizionano l’uno accanto all’altro davanti al pubblico.
Primo Fariseo: Ebbene, chi è questo fanciullo che osa competere con i dottori della legge?
Secondo Fariseo: Non lo sappiamo. Ieri lo hanno interrogato. Dicono che conosce a fondo le Sacre Scritture.
Terzo Fariseo: Sono testimone di quanto avvenuto. Ha lasciato sbalorditi tutti per la sua saggezza. 
Primo Fariseo: E perché oggi non è qui al tempio? Vorrei conoscerlo anch’io.
Il terzo Fariseo: Ieri erano già tre giorni che predicava nel tempio quando entrarono il padre e la madre. Lo cercavano accorati ma non ebbero parole di rimprovero nei suoi confronti. Solo gli dissero “Perché ci hai fatto questo? Ti cercavamo angosciati”.
Primo Fariseo: E lui cosa rispose?
Terzo Fariseo: “Una risposta alquanto strana. Perché mi cercavate? Non sapevate che devo occuparmi delle cose del Padre mio? E da allora non si è più visto”.
I dottori della legge escono di scena.
Entra l’arcangelo sul palco e si rivolge al pubblico: 
Altri anni passarono e Gesù ne aveva già compiuti trenta quando iniziò a predicare, prima in Galilea e poi a Gerusalemme. Schiere di uomini e di donne lo seguivano incuriositi, attirati non tanto dalla sua Parola quanto piuttosto dai miracoli che faceva lungo il cammino. Chi è quest’uomo? Si chiedevano sbalorditi dai suoi gesti. Non si era mai visto alcuno che guarisse i lebbrosi, che restituisse la vista ai ciechi e l’udito ai sordi, né che risuscitasse i morti o cacciasse i diavoli. Ma Gesù sfuggiva alla folla. Non era la fama che cercava ma l’apertura dei cuori, cuori umili, disposti ad accogliere il suo messaggio di fratellanza, di amore tra le genti. Lui era venuto sulla terra per salvare l’umanità intera, un’umanità fragile, indifesa, in balia del male. Questa era la Volontà del Padre e tutto avrebbe sopportato pur di ricondurre le anime alla Divina Fonte, tutto, finanche la morte. Alcuni discepoli, da Gesù scelti, lo seguivano ovunque Lui andasse, e pur non capendo appieno le sue Parole, in cuor loro cresceva la fede, la certezza che quel figlio di falegname fosse il Messia, profetizzato e tanto atteso. Dovevano compiersi in Cristo le Sacre Scritture e le attese di Israele. Ma a quale prezzo? Sarebbe bastato il sangue dell’agnello, immolatosi per la redenzione di tutti i peccati ad indurre ogni creatura alla conversione? O sarebbe stato l’inizio di persecuzioni, di vittime innocenti? La lotta tra il bene e il male non conosce soste, né confini, ma il sacrificio di Gesù sulla Croce ha già salvato l’uomo. Alla fine dei tempi tutto ricapitolerà in Cristo e le forze oscure soccomberanno gettate negli abissi infernali. Questa è la fede della Chiesa, di una Chiesa in cammino sotto la guida di Maria, Madre dell’umanità per Volontà Divina. Accogliete, umane creature, con riconoscenza, il gratuito dono della salvezza e ritornerete alla vera Fonte della vita.
Entra un secondo angelo sul palco e canta l’Ave Maria.
Riprende la parola l’arcangelo e chiude la recita con le seguenti parole.
 
Arcangelo:
Popoli tutti vicini e lontani, oggi e per sempre, elevate al Redentore del mondo quest’umile preghiera.
 
Sei nato per amore, solo per amore.
 
Non hai voluto un castello per dimora, pur essendo il re dell’Universo, 
né scegliesti una città vetusta come Roma, sede di gloria e di potere.
 
No. Ti bastò una piccola grotta nella dimenticata Betlemme, 
e in quella gelida notte d’inverno preferisti il calore delle braccia di tua madre e il debole tepore del soffio di un bue e di un asinello.
 
É l’amore che scalda i cuori e alimenta la vita, e Tu, sei la Fonte di quell’amore.
 
Nulla poteva sopprimerti, né il freddo o la fame, né l’odio di Erode.
 
E quando poi hanno lacerato le tue membra, crocifisso in due assi di legno, 
neanche allora ti hanno tolto la vita.
 
Si, è vero, è cessato il battito del Tuo cuore dopo un ultimo sospiro: 
“Padre, rimetto il mio spirito nelle tue mani”.
 
Ma quella morte non fu la fine, ma l’inizio di tutto.
 
Hai aperto i nostri occhi alla Verità.
Con la tua risurrezione hai sconfitto la morte, dimostrando a tutti che la vita esiste ed è eterna.
 
Cos’altro dovresti fare per convincere noi misere creature? Nulla, mio Signore.
 
Hai voluto donarti a noi assumendo la nostra stessa condizione umana, 
sperimentando il dolore ed una morte cruenta.
 
Nulla abbiamo più a pretendere da Te.
 
Solo una cosa ti chiediamo, Dio misericordioso. 
Apri il nostro arido cuore quel tanto che basta per comprendere il Tuo Amore. 
Il resto verrà da sé.
 
 
FINE TERZO ATTO
 

IN CAMMINO CON MARIA

L'autrice, inoltre, cura la pubblicazione della rivista In cammino con Maria;
A questo link il numero 1 in formato pdf;
qui il secondo numero, sempre in pdf;
terzo numero;
quarto numero;
quinto numero.

RECENSIONE AL TESTO TEATRALE

Ancora una volta Rosa Mingoia, con la trasposizione teatrale del suo romanzo, “Rosalia De’ Sinibaldi”, rivela le poliedriche qualità artistiche che la caratterizzano. Infatti, oltreché essere nota scrittrice, poetessa e pittrice, adesso rivela le sue ottime qualità drammaturgiche, mettendo in scena il suo omonimo romanzo che tratta, come il titolo stesso comunica, la storia di Santa Rosalia, patrona di Palermo, per aver liberato i suoi cittadini dalla pestilenza.
L’opera è un inno alla libertà, una denuncia delle convenzioni sociali che talvolta, proprio presso la nobiltà, erano inoppugnabili ed inderogabili, pena la reputazione della famiglia, l’offuscarsi della sua fama, ma a Rosalia poco interessa tutto ciò, perché lei è innamorata di qualcun altro, di qualcuno che trascende i limiti delle convenzioni sociali, di qualcuno che è al di là dei limiti umani: lei è innamorata di DIO, che trascende il tempo e la storia e non condivide i compromessi a cui spesso si adegua il genere umano. 
Rosa Mingoia, con abilità, sa rendere il travaglio psicologico della ragazza che con tenacia resiste sino ad allontanarsi dalla famiglia e ad andarsene da sola sul monte Pellegrino, in un grotta dove, pur subendo varie tentazioni demoniache, può esplicare appieno il suo Amore, prima da viva verso Dio, attraverso un continuo dialogo con Lui e gli Angeli e poi da morta per la sua città, liberandola dalla peste. 
Un dramma sostanzialmente a lieto fine, caratterizzato da battute pregnanti, tutte confluenti appieno a rendere vivi sia i parametri mentali della nobiltà del tempo, quanto il travaglio interiore di Rosalia che, nell’ assolutezza del suo amore verso Dio, riesce a sconfiggere sia le imposizioni familiari, sia le tentazioni demoniache. 
Le didascalie ampie e dettagliate aiutano il lettore e il regista a costruirsi l’immagine mentale dei luoghi e alla conoscenza del contesto sociale che lo caratterizza.
Una rappresentazione scenica fedele anche nei costumi, sicuramente potrebbe avvalorare il valore storico, religioso ed artistico del dramma.  
Prof.ssa Francesca Luzzio


Primo atto del dramma ROSALIA DE' SINIBALDI (dramma in tre atti) pubblicato con IL CONVIVIO EDITORE;
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SI PUĂ’ SEMPRE RICOMINCIARE

Prefazione
 
Andrea è un modesto operaio che si innamora di Marianna, ricca studentessa universitaria. Il loro è un amore contrastato perché i genitori della ragazza desiderano per la figlia un matrimonio con qualche ricco rampollo della cittadina dove risiedono. Ma Marianna è determinata, per seguire l’uomo che ama, rinuncia a tutto, ricchezza, studi, l’affetto dei genitori. Questo scatena in Andrea una ossessione: conquistare una posizione sociale e guadagnare parecchio denaro per restituire alla moglie quello che ha perduto. Tale obiettivo lo spinge a lavorare senza sosta, a trascurare le persone che più ama. Non si rende conto che la vera felicità non consiste nel possedere. Divenuto imprenditore di successo, sarà proprio l’utilizzo smodato della ricchezza ad incrinare il legame d’amore con Marianna, a condurre sulla cattiva strada la moglie e il figlio, viziati ma carenti del suo affetto. Purtroppo la vita è imprevedibile e riserva sempre delle sorprese. Per una serie di sfortunate circostanze, la ruota gira nuovamente all’inverso ed Andrea si ritrova all’improvviso pieno di debiti e in fallimento.
Sarà la sua misteriosa morte a scuotere le coscienze, ad indurre Marianna e il figlio Luca, ridotti in povertà, a ritrovare i valori della vita, a riacquistare la loro dignità di essere umani perché, quando si vuole, si può cambiare, se si vuole… si può sempre ricominciare. 
Non è solo un semplice romanzo d’amore, è qualcosa di più. É uno scavare a fondo nei sentimenti dei protagonisti di una storia nata nel dopoguerra e raccontata sin quasi ai nostri giorni. Una storia di relazioni tra coniugi ma anche di rapporti difficili con figli adolescenti, calata in un contesto sociale in continua evoluzione che può influenzare anche negativamente le persone. É uno scontrarsi con una società consumistica ed arrivista in cui bisogna talvolta scendere a compromessi per poter emergere, per essere accettati dagli altri. É un intrecciarsi di eventi d’amore e di grande sofferenza, di altruismo e di corruzione.
É un romanzo che scuote le coscienze, facendo emergere la sensibilità del lettore, inducendolo a riflettere sui valori dell’esistenza, regalando nel contempo un messaggio positivo, di voglia di cambiamento e di speranza.

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VORREI ESSERE LIBERA

Vorrei essere libera,
realmente libera dai condizionamenti 
di una società arrivista
che impone regole di convivenza
basate sul compromesso 
e non sul rispetto della dignità di ogni uomo. 
 
Vorrei essere libera dai pregiudizi della gente
che cataloga ogni essere umano,
lo etichetta quasi fosse merce di scambio,
lo emargina come uno straccio vecchio 
o lo esalta al pari di un Dio.
 
Vorrei essere libera dalle mie paure
su un domani incerto,
per le malattie che mi colpiranno,
per le sconfitte che questa vita riserva 
senza alcuna pietà.
 
Vorrei essere libera dalle prevaricazioni,
di chi insegue falsi idoli,
di chi si impone senza autorevolezza,
di chi non ha nemmeno una coscienza.
 
Vorrei essere libera dalle tentazioni,
dalle lusinghe del maligno
che raggira e ammalia con le sue movenze
mostrando bello e attraente
ciò che è orribile e perverso.
 
Vorrei librarmi nello spazio infinito
come le rondini che solcano l’azzurro del cielo,
come gli augelli di bosco 
che cantano tra arbusti verdeggianti,
nutrendosi di bacche e di mirtilli.
 
Invece mi ritrovo inchiodata su questa misera terra,
dove regna vanità e superbia,
dove è debole chi insegue la giustizia,
chi si sforza di agire con misericordia. 
 
Vorrei possedere la determinatezza dei Santi,
il coraggio di rinunciare alle cose futili
e alzare gli occhi oltre la sommità dei monti
con le braccia spalancate
come l’umile fraticello d’Assisi
e ripetere con incontenibile fede nel petto:
"Sono libera, mio Dio,
perché ho Te nel mio cuore
e il tuo amore mi basta".
 
 

E MI INTERROGO

Se volgo lo sguardo all’intero cosmo,
alle molteplici varietà delle tue creature,
allo scorrer sempre uguale delle stagioni,
al susseguirsi delle genti nel corso dei secoli
animate dal tuo alito di vita che muove ogni cosa,
mi chiedo chi son io che m’incanto e mi perdo
dinnanzi all’immensità dell’universo.
 
Sconvolta mi interrogo su questa mia persona
che pensa, gioisce e si addolora,
che brama talvolta l’impossibile
e disperatamente cerca ciò che non sempre trova
e afflitta, sospira e si abbandona all’incomprensibile,
ad una realtà difficile da metabolizzare se vacilla la fede.
 
Eppure so quanto mi ami, Signore del cielo e della terra,
più di quanto io possa amare me stessa
e giustifichi le mie debolezze
che non riesco sovente ad accettare
perché vorrei essere paziente e buona come Te.
 
Ma Tu guardi al cuore di ogni uomo e di ogni donna
e se scorgi anche un barlume di bene,
l’umiltà nel riconoscersi indegni peccatori,
il travaglio spirituale che conduce alla purificazione,
non ti assurgi a giudice,
non condanni le tue piccole creature
ma mosso a compassione, le prendi per mano
perché nessuno si perda lungo il cammino.
 
Sì, mio buon Gesù, resta al mio fianco,
affinché avverta la Tua presenza nel momento della prova.
In Te confido, in Te spero,
in Te rinasco e glorifico l’eterno Padre.
 


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