Brussolo Sergio:
è nato a Torino nel 1948; laureato, già dirigente pubblico e privato è musicista e scrittore per diletto; risiede a Venaria Reale, in provincia di Torino. |
Con Carta e Penna ha pubblicato:
QUADRI E RITRATTI DA GRUN (O IL VILLAGGIO CHE NON C'è) |
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Dalla prefazione di Lorena Isabellon: All'autore stanno a cuore le cose remote, ricche di memoria. Egli sente fortemente che la nostra umanità è tanto più dotata di spessore e di autorevolezza, quanto più si arricchisce del passato, che è la nostra più preziosa e autentica ricchezza. Quadri e ritratti da Grun è un racconto esemplare anche da questo punto di vista. Sotto molti aspetti Brussolo esaudisce i desideri e le nostalgie di chi ha amato i grandi romanzi della migliore tradizione: le storie ricche e avvincenti da cui è difficile staccarsi, le narrazioni totali che davanti agli occhi del lettore spalancano le porte di una grande avventura umana in cui perdersi o forse ritrovarsi. E proprio grazie a questo insolito dominio dei mezzi espressivi, l'autore sa di poter animare la propria materia sentimentale a piacere, sa di poter passare con naturalezza dai toni della rievocazione descrittiva di tradizioni e ambiente e della rappresentazione simbolica alla concretezza storica cronachistica, sostenuto da una scrittura vigorosa e classica. Io poco so di Brussolo, ma so che questo suo racconto mi ha fatto commuovere e pensare, ricordare e sognare. E di questo gli sono grata. Così come gli sono grata nell'aver contribuito a riportare a nuova luce le tradizioni di un villaggio di montagna, le piccole storie di tutti e di ciascuno, che alla Storia con l'esse maiuscola offrono perennemente legna da ardere. Il villaggio, sì, è fatto degli stessi elementi di una cittadina, case, vie, piazze, ma quanto diversi…Tutto è più modesto, più intimo, più noto. É un'altra dimensione, non solo dei luoghi, ma dell'anima, e chi se ne va, se la porta dietro, insieme con la nostalgia... continua |
Per i lettori di Carta e Penna ha scelto:
MEMORIA POSTUMA |
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Le vibrazioni del cassone rendevano il viaggio insopportabile e la mancanza di un telone coprente lasciava che la polvere, sollevata da quattro ruote motrici che mordevano un terreno arido e caldo, si infilasse ovunque, sopra di noi.
Una di fianco all'altra stavamo, adagiate su assi di legno che erano il nostro pavimento, sotto il sole impietoso e furente del tardo mattino.
Il rumore, monotono e cupo, del motore del camion era l'unico suono a squarciare il silenzio di quello spazio sempre uguale, dal quale non affiorava segno di vita apparente. Ad intervalli di circa mezz'ora il veicolo si fermava e, a motore sempre acceso, alcune di noi venivano fatte scendere.
Da lì, dentro quelle sponde, non vedavamo nulla e nulla riuscivamo a sapere, noi che eravamo rimaste, sulla sorte delle nostre compagne di viaggio.
Poi, dopo un po', la marcia riprendeva, e ancora polvere, cupo rumore, sole squarciante, vibrazioni e vana attesa.
Ad ogni fermata la intuita ripetitività di gesti mai accompagnati dalla voce di uomini che ci afferravano e ci facevano scendere a forza, riproduceva il suono appena percettibile di tonfi sul terreno, che generavano ancora polvere, in quell'aria immobile, pesante di calore.
L'autista non scendeva mai e il lavoro toccava a due figuri che gli stavano di fianco in cabina, che non si scambiavano parola.
Non capimmo mai se quel silenzio celasse grida di pensieri gravi e ribelli o se, contrariamente, tutto appartenesse all'atto unico di una squallida rappresentazione di indifferenza e apatia, figlia di una costrizione alla quale anch'essi, nel loro mimetico vestire, dovevano soggiacere.
Non c'era sofferenza nei loro sguardi, né rabbia, non c'era emozione, né ansia, non c'era luce.
Come previsto, accadde che toccò anche a me, e… allora seppi.
Fuori dal bordo del cassone, scaricata letteralmente a terra con altre compagne di sorte, venimmo, una ad una, prese e poste a forza dentro buche già pronte, appena capaci di contenerci, scavate in quel deserto polveroso e pietroso, quel tanto che bastava per lasciare emergere appena una piccolissima parte di noi , poi ricoperte di sassi e altra polvere, e lì, così, abbandonate.
Dai nostri terribili luoghi vedemmo l'autocarro allontanarsi, sentimmo attutirsi, poco a poco, il ben noto rumore di quel motore e perdemmo,infine, anche il riferimento di quel filo di polvere sollevata, sempre più da lontano, nel deserto di Kunduz.
Mentre il sole si abbassava, il calore, attenuandosi rapidamente, lasciava spazio a profondi brividi notturni e scorpioni giganti.
Da quel momento stetti lì, impotente e immobile, arroventata dal calore di un vento asciutto e radente e di una devastante sfera di fuoco che percorreva lentissima il suo arco di cielo, vibrando in sfumature cromatiche diverse, dal rosso, ancora freddo, mattutino al rosso, soffocante, serotino.
Nessuna alchimia aveva potere di trasformare in pascoli quei sassi spaccati dal sole, far rivivere quelle secche spine grigie di polvere, far tacere quel silenzio assordante e immanente di giorni e notti sempre uguali a se stessi.
Nessun filo di speranza poteva muovere la ragione in quell'attesa indefinita, dentro un tempo senza confini.
Nessuna volontà riusciva più a corrodere lo stato sistemico dell'immobilità delle cose reali, sostanziate dentro quel quadro intimamente surreale.
Rintanata, ad attendere il mio momento, in quella landa desertica, stavo, non avendo altra possibilità.
Prima o poi tutto sarebbe accaduto.
Prima o poi il terribile incanto sarebbe stato vinto.
Prima o poi, da laggiù, si sarebbe delineato l'inizio della fine.
Era un mattino, forse, quando il sole, ampliando il raggio del suo percorso, illuminò qualcosa, ancora molto lontana. Qualcosa che prima non c'era. Qualcosa che ancora non riuscivo a definire.
Passò molto tempo, credo, prima che arrivassi a realizzare, dalla mia condizione di semisepolta nella terra, da dove era difficile distinguere il filo dell'orizzonte, l'avvento dell'evento.
Passò ancora del tempo prima che quell'immagine, mostrando i suoi contorni sempre un pò più nitidi, si rivelasse quella che era. Quella di un uomo, vivo, vero.
Incredibilmente solo, sotto un elmetto di metallo ricoperto da una rete, con zaino sulla schiena e borraccia, radio e chissà cos'altro appesi ad una sorta di morbida corazza color deserto. In braccio aveva un'arma e teneva il dito indice della mano destra a sfiorarne il grilletto… perché poi…per chi poi, in quell'assenza totale di presenze, dove la sua stessa materializzazione si presentava aliena.
Ma lui era lì, dietro uno sguardo coperto da occhiali scuri e con la faccia sporca di nero.
Avanzava lentamente, con movimenti gravi, attenti, costanti, meditati, solenni e circospetti.
Percepivo, in quel tempo ad entrambi estraneo, il tonfo leggero dei suoi passi, cadenzati, lentissimi e sempre un poco più chiari, più vicini.
Viveva, vibrante, il dialogo muto tra chi, sapendo dell'altro, non può agire e chi, potendo agire, sospetta, ma non sa dell'altro.
Lui, che mai avrebbe potuto scorgermi, cercava me, che lo stavo aspettando, e mi temeva, nulla potendo contro le parole scritte sul libro dei destini.
Una voce, roca e tremula, disperato grido di aiuto, ultimo tentativo per un improbabile ritorno, ruppe il cristallo che proteggeva l'omertà sonora.
L'avevo udito, quel richiamo radio a chi, troppo lontano, più non rispondeva.
L'avevo sentito, quel fiato ansante, sotto il peso di militari bardature, trasformarsi terribilmente in infantile, solitario pianto.
In ginocchio, lasciata l'arma, una testa bionda liberata da un casco ormai inutile, guardava attonito a terra.
Che l'inevitabile stesse per compiersi era ormai evidente.
In pochi passi la sua ombra arrivò, fino a sfiorarmi.
Lo spazio che ci separava, quasi nullo, annunciava che il tempo entro il quale mi avrebbe scorta stava in un battito.
Ma non fù così.
Si fermò ancora, lì, accanto a me, senza accorgersi della mia presenza.
Stentatamente, raccogliendo le residue forze, provò ancora a rialzarsi e quando la disperazione aveva vinto la sofferenza, quando lo sguardo riempiva di infinito vuoto quegli occhi belli di gioventù, quando nessun pensiero più riusciva a dimorare in quell'animo di soldato sperduto su un terreno ignoto, quando da quella borraccia strappata alla cintola più non usciva che polvere, quando il terrore asciugava i pori dal sudore, quando febbre di morte si diffondeva dentro quel corpo inutile…solo allora, lontanissimo, un cenno di crepitìo amico gli gelò il sangue.
Il giovane soldato sperduto, ora ritto su gambe malferme, ancora impietrito dallo straziante timore di una visione morganatica, seguiva nel cielo quel punto nero che sbatteva l'aria e si faceva, gli pareva, sempre più grande…
Ed era verità…stava arrivando…un elicottero.
Il giovane soldato sperduto sollevava le braccia al cielo, saltellava, gridava, rideva, mentre lacrime, ora di gioia, tracciavano il segno del loro passaggio solcando quelle guance scure di trucco mimetico e… in preda ad un fortissimo e assolutamente ignoto sentimento di felicità assoluta che un turbine di spettacolari immagini intrise di vita gli proiettava dentro, non potè evitare di muovere, non più di un soffio, un piede.
Fatalmente… mi toccò appena e…inesorabilmente…senza un grido, ma con violenza satanicamente devastante … mi saltò addosso…
A quel punto era davvero tutto finito…per me… e per lui. |
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TORTINO SOGNO |
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Tu prendi un po' di sole dal tuo cielo
e spolvera di zucchero un bel velo
poi cerca attorno a te una luce vera
e posala da crema pasticcera.
Se vuoi sai star felice anche con niente
su questo sciogli del cacao fondente
Impasta la tua vita con speranza
e ti darà dolcezza e anche fragranza.
Adesso è tutto pronto e il caldo forno
libererà profumo tutto intorno
E' vero che non è la torta paradiso
però costa soltanto il prezzo di un sorriso.
Ingredienti:
- un attimo di caldo sole
- zucchero a velo q.b.
- un intenso raggio di luce
- un riflesso di crema pasticcera
- cacao fondente a piacimento
- un pensiero di speranza
- sorriso a volontà |
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RACCONTO DI UN QUALSIASI POMERIGGIO (O SERA) DI MEZZA ESTATE (O INVERNO) IN UN QUALSIASI ANNO DEI PRIMI '70 |
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Un po' più di freddo, o di caldo, patiti nel viaggio sul pulmino dell'impresario bastavano a spostare , anche se di poco, l'accordatura delle chitarre. Prima dello spettacolo mezz'ora di prova d'ambiente, regolazione di toni e volumi e accordature degli strumenti, calibrate sul “La” o sul “Si bemolle” dell'organo elettronico, i cui circuiti oscillatori, non soffrendo degli sbalzi di temperatura, davano sempre la frequenza giusta.
Non facevano parte dell'attrezzatura strumentale, ma saldatore e filo di stagno con anima di pasta-salda erano sempre presenti in quella robusta scatola di cartone marrone che ci seguiva ovunque, assieme ai fusibili, nastro isolante e altre diavolerie che stavano tra l'elettronica, la meccanica e il bricolage. Capitava anche che fossero questi ad entrare in scena per primi quando, accendendo gli impianti di amplificazione e collegandovi strumenti e microfoni si realizzava, imprecando, che “mancava” questo o quello strumento, oppure la voce , e, in quel caso, non era certo quella elettrica la tensione che aveva la meglio nel gruppo in panico…
- Porc…(omissis)…… si è cimito l'ampli del basso…
- Ma dai, se funzionava fino a quando siamo partiti...
- Ti dico che non va, lo saprò bene , no?
- Ma hai cambiato il filo dopo i casini che hai avuto l'altra volta?
- Guarda un po', adesso arriva lui…ma certo che l'ho cambiato…e anche il jack
Già…il jack. Lo stramaledetto jack che per il novanta percento delle volte era il responsabile del disastro…quel disastro che si trasformava in tragedia quando il fatto pioveva in piena esibizione, mollandoci lì con assoluta noncuranza, a fare tripli salti mortali con avvitamento all'indietro, per coprire l'improvvisa venuta meno di quello o quell'altro strumento.
E allora taglia, spella fili, salda, soffia sulle saldature (e sui polpastrelli..), incrocia le dita (quelle rimaste sane…) e…prova a sentire se va…
Intanto il cantante intrattiene il pubblico con aneddoti e notizie dalla “beat-generation”, sempre pronte nello scomparto delle emergenze, o ,se di domenica pomeriggio, comunicando i risultati del campionato di calcio…cosa che funzionava sempre…
Poi , alla fine, tutti di nuovo sul pulmino, senza strumenti se si doveva tornare nello stesso locale per altri servizi o con tutta l'attrezzatura se l'esibizione era unica…e la volta successiva non era raro che la nemesi, facendo la sua parte, ci portasse a riprendere con un “Porc…(omissis)…. si è cimito….”.
Ma l'entusiasmo della gioventù vinceva sempre…e allora… vai con Rock e Rhythm & Blues… |
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ASPETTATIVE OLTRE EUCLIDE |
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Ognuno sta nel proprio, puntuale spazio dentro il segno dell'invalicabile confine che traccia l'area geometrica del territorio fruibile.
Oltre, al di là della linea netta, vive l'universo esterno, estraneo, di figure e dimensioni che arrivano, nel tempo, a trascendere il reale.
Dentro, vive il luogo degli elementi di un insieme definito, tracciato, circoscritto, chiuso, isolato e autonomo, oggetto, mai soggetto, di astratte e accademiche controversie.
È storia antica, questa.
Storia di un popolazione che viene da prima, molto prima di Euclide il greco, e serie numeriche e storiche dimostrano che non si estinguerà.
E' storia difficile, questa.
Storia di una popolazione che faticosamente si trasforma, nell'aspettativa dell'oltre confine, e che esiste in un solo, preciso e inequivocabile termine:
recluso. |