Lucca Giuseppe: Dell’hobby, ha fatto professione; degli studi, umanistico diletto.
Tra loro miscelati, lascia alle spalle: - vent’anni di direzioni artistiche, - trenta in giro per il mondo assieme a Bach, - quaranta di insegnamento in conservatorio, - trasmissioni per la RAI, - pubblicazioni in note e in lettere.
Giunto all’età dei privilegi, ha ancora per le mani: - un amore che lo tiene in vita, - restauri di strumenti prediletti, - edizioni che attendono da sempre.
Chi aspira a qualche ragguaglio in più, può recarsi presso qualche loggia organaria, oppure qui:
- Poesie essenziali (Ed. Tracce, Pescara, 2004) - Chi dorme non piglia pesci ma io soffro d’insonnia (Ed. Graphe, Perugia, 2004) - Lustra miles carpe (Ed. Akkuaria, Catania, 2011) - Lapsus thalami – Levitas calami (Ed. Marcelli, Ancona, 2014) - A passeggio per l’anima (Letteremusica, Perugia, 2017) - A mio molesto parere (Letteremusica, Perugia, 2017) - Chi chatta con la luna? (Letteremusica, Perugia, 2017) - Parentesi grappa. Racconti ad alto contenuto alcolico (Pragmata Edizioni, Roma, 2022) - Ogni giorno trapiantare le tende (Ed. Carta e Penna, Torino, 2022) - Intro-estro versi (Leonida Editore, Reggio Calabria, 2022) (in pubblicazione) (continua) |
Con Carta e Penna ha pubblicato:
OGNI GIORNO TRAPIANTARE LE TENDE |
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Dalla prefazione di Fulvio Castellani: L’amore, è risaputo, riesce sempre a cogliere molte frazioni di infinito, un continuum di rintocchi del sole e di rugiadosi fraseggi di emozioni, sensazioni, arrampicate che vanno oltre il crepitìo monotono della quotidianità. È una festa, l’amore; è dolore, più o meno sopportabile, il distacco, la consapevolezza che il cerchio si è chiuso o si sta schiudendo. La poesia, in entrambe i casi, raggiunge momenti di alto lirismo, dilatando o aggiungendo spazi ampi, concerti malinconici, balenìi intimi che hanno il sapore agrodolce di un mattino o di una serata inattesa. Su tali giochi di luce e di penombre si muove, alla grande, la voce poetica di Giuseppe Lucca che, in questa circostanza, riesce a fare il pieno di fioriture liriche senza mai scadere nel trito e nel ritrito. Parole forti e alate, dunque, tracciano immagini e ricordi, sorrisi e malinconici risvegli su una tavolozza scritturale dal calco ben preciso: intenso e palpabile, giocoso e amarognolo, alato e riflessivo. Basterebbero questi versi a mettere in evidenza la pienezza delle immagini che riesce a trasmetterci Giuseppe Lucca: “Di te / unica memoria in avvenire / l’impronta polverosa / d’un quadro per anni appeso a una parete / scolorita / a mutarsi in muro eterno tra noi due”. C’è, in questi pochi versi il cuore vibratile del poeta, l’amaritudine e, in modo assai velato, anche la speranza che qualcosa si muti perché “il naufragar / proprio non mi è dolce in questo mare”... C’è un concatenarsi di sensazioni che supera la realtà individuale diventando un insieme di figure poetiche che non si estingue nelle ragioni di un respiro opaco o di un agitarsi affollato di memorie. La forza e la bellezza del suo dire e del raccontarsi, più o meno alla luce di un sogno o di una assenza, diventa via via un dialogo tra passato e presente: e tutto nel segno di un veleggiare costante in direzione del poi anche se “da sveglio / fa paura il buio / e i fantasmi non dormono mai”... Non possiamo che applaudire quanto ci ha fatto leggere e gustare Giuseppe Lucca, in quanto dimostra alla grande di avere fatto suo il fascino della parola e la geometria essenziale dei versi, la verticalità del pensiero, l’andamento vivido che ruota attorno al suo Io anche se non può evitare di ammettere che “da anni / la luna non parla coi miei sogni / e mi scalda a malapena il sole”... |
Per i lettori di Carta e Penna ha scelto:
GLI ESAMI NON SFINICONO MAI |
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(dall'intricato ingegno... al totale disimpegno) Dai tempi ruggenti, oggi arrugginiti, della grande contestazione giovanile e non, ove – oltre tutto – non sempre si contestava con la testa, ancora sogno la notte, ad incubo, i passati esami di maturità. Dicono gli strizzacervelli che sia una manifestazione classica di misurazione con se stessi, un passo indispensabile, un tunnel d’attraversare, più arduo del Frejus, una scalata verso la propria affermazione, ma mi sa che mi son fermato lì, a giudicare quanto ancora ho da maturare, per evitare l’incubo ossessivo di queste fantasie. All’epoca, eravamo tutti un po’ esagitati, tanto d’aver con noi esaurito l’intera angoscia del mondo, sì che i soli problemi giovanili d’oggi sembrano ravvisarsi nelle funzioni e disfunzioni d’un telefonino, col quale parlar gratis per ore ed ore, anche se talora da dire si ha poco o niente... Come se noi, con qualche reumatismo in più e un po’ di romanticismo in meno, non avessimo mai parlato gratis, per di più senza scaldarci le orecchie con tante microonde, anche perché non avevamo messaggi da inviare e – privi com’eravamo di beauty-farms – ci massaggiavamo da noi o a Vicenza. Sembra, al contrario, che la morale d’oggi abbia perduto quel dignitario tenore di vita dei bei tempi, e pare pur scaduta a così bassi livelli, da esser divenuta perlomeno un rauco baritono di vita, dove l’etica viene relegata in angoli remoti, o tout-court dai media regalata. Ma noi volevamo, più che di media, parlare dei licei, magari su su fin verso gli Atenei: pertanto licet fare qualche osservazione in proposito, pur senza proporci superiori mire. Gli studenti dei nostri giorni, che studenti poi non sono, per quel non studiare alcun sistema per cavarsela da soli, non mi sembra che se la prendano più di tanto… O meglio: più che prendersela, se la fanno direttamente dare, e magari gratis. Non è poi così difficile imbattersi in esaminandi, che alla maturità, si presentano con magliette recanti scritte del tipo: “Dalla! / Non è un cantante: / è un consiglio!”. Più maturi, anzi più precoci di così, proprio non si può; salvo rimaner precotti anzitempo per gli anni a venire… e andare. Non che ce l’abbia coi ragazzi del nostro acquietato tempo… Tutt’altro! Potessi spezzare una Lancia in loro fervore, lo farei; magari anche una Ford, un’Opel o una Renault, ma proprio non riesco a trovarne il motivo, oltre che non me lo posso più permettere, dimostrando altresì l’infondatezza che tutto sia appunto permesso a tutti. In quegli anni. che i poeti dicono di verde età, ero anch’io al verde e rugoso come un cetriolo, con tanta voglia di giocare, anche se la vita con me non sembrava mostrasse una gran voglia di scherzare, ed era così arduo trovarsi in dialogo con qualcuno, che ogni volta toccava chiedere il ‘la’ per accordarsi ed aprir bocca col prossimo tuo, fuori di te stesso… Ed in effetti si rimaneva chi di là e chi di qua, ed in mezzo nessun ponte… Volete un esempio illuminante? Una sera uggiosa (ricordo era il 2 novembre) riuscii a trainare in mia compagnia una ragazza, che a vederla così, chissà perché, sembrava più smorta che viva! Eravamo in pieno Sessantotto, anche se avrei preferito un numero più avanti, dato che tutto sommato era assai carina, e all’epoca sembrava proprio tutto permesso. Mi sembrò normale chiederle con naturalezza: “Come ti chiami?”, e sapete lei che cosa mi rispose con aria impegnata com’era d’uso allora? “… In che senso?”. Rimasi lì impanato come un pollo a fettine, di fronte a siffatto favellare… E dopo un quarto d’ora di tira e molla, che a me sembrava un secolo nel mio trasecolare, nonché di molla e tira su un materasso senza molle e sgangherato come il mio imbarazzo, lei – cruda – fissandomi nelle palle degli occhi, smarriti ormai assieme all’entusiasmo, si degnò d’una frase un po’ più umana: “Io mi chiamo Irene… E tu?”. Preso alla sprovvista, mi si intrecciarono le dita dei piedi e delle mani tra di loro, ché ormai non attendevo più risposta, ma – data la mia timidezza e la sua tracotanza – non mi scappò di dire che un becero: “… io no!”. E così fu il suo di ‘no’ a cancellarmi da quella sera e quelle poi a venire, come oggi si fa con il computer, con un click! Come vedete, era tutto un complicarsi, un discutere a pieni giri, un criticare arrovellato. Tutto e tutti, all’infuori di Totti che ancor non c’era, anche cani e pòrci, abbaiando alquanto, divenivano per noi angoscianti problemi da porci, affrontati comunque con una particolare foca fuori dal Comune, dentro le Università, e fuori di testa pure. Non era un’epoca di preghiera, e pur si invocava assiduamente da ogni parte: “Dacci oggi la nostra discussione quotidiana, e rispetta noi e i nostri dialoghi, come noi non rispettiamo quelli dei nostri interlocutori. E non ci indurre in tentazione di liberarci da questa mole! A men che non finisca presto la nostra pace pure…!”. E la pace ti veniva subito tolta, appena la politica accendeva gli animi e smorzava altri interessi a te più congeniali. Vedi la diatriba sul ‘Finanziamento dei Partiti’, argomento appunto di pane quotidiano d’una stagione intera. Mi chiedo ancora come fosse possibile finanziarli se appunto erano partiti, senza sapere la loro destinazione. Altri, più furbetti, avevano pensato bene di partire invece nottetempo con i soldi dello Stato, ma allo stato attuale delle cose, nessuno ha ancora ben capito che fine abbiano fatto, tanto gli uni quanto gli altri… Solo si sa che qualcuno se n’è poi lavato le mani, e per questa arietta che tirava, hanno poi chiamato il tutto mani pulite! E la giustizia che lamentiamo, dove la mettiamo? Hai voglia tu a fare ricorsi al tarlo, tanto ti rodi quanto lui, senza ricavarci un ragno dai buchi (in primis quelli dell’Erario, che mai è in orario coi pagamenti suoi; e forse per questo lo chiamano Demonio dello Stato). Forse sarebbe stato meglio far ricorso al bar: un grappino, e via. Ogni spunto diveniva pretesto per dissertare di politica, e anche se non ti interessava affatto, dovevi pur fingere di capirci qualche cosa, per stare à la page (di qualche testo predisposto), quando poi pro bono pacis (eternam) non riuscivi mai a spuntarla. Di politico avevamo persino il voto: 27, in piena concordanza col professore, che pure lui aspettava il 27 del mese, rimanendo così appagati ciascuno a suo modo. E solo Dio sa quante stagioni siamo riusciti a trascorrere in dibattito serrato (mentre avrei preferito batter l’ali per scomparire in più respirabil… aere!) circa la collocazione in Senato di un Crocifisso, artistico quanto volete, ma secondo me incompleto della frase: “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno!”. Si sa che, nei nocumenti dello Stato, gli omissis sono alquanto numerosi – a secondo delle opportunità – a cominciare da quel punto interrogativo, che a tutt’oggi nessuno s’è preso la briga (sottintendendo altri brigantaggi) d’apporre a fine dicitura nelle aule dei tribunali: “La legge è uguale per tutti?”. Mah!... In ben altre aule, chiamate magne per motivi che ancora posso solo supporre, si faceva invece a gara a chi sparasse per Priamo le idee più originali, il più delle volte solo orinali veri e propri, a demolire tutto ciò che capitasse per le mani, cultura classica compresa, o scientifica che fosse, che più volgarmente chiamavamo erudizione, forse perché ci rodeva dentro come un’ulcera eterna! Oggi io mi rododendro per ben altro. Era infatti ogni scelta motivo di decisioni drastiche assai, al punto che dividevamo la società (di cui ovviamente nessuno dei contestatori s’era mai accorto di fare anch’egli parte in qualche modo) in chi da sempre aveva l’ulcera – per duo... denari - e chi (per lo stesso motivo) l’avrebbe regalata agli altri. Uno per tutti, valga l’esempio del professore di fisica: si sentì male, non so se dopo aver spiegato il fungo dell’atomica, o in seguito a un piatto di porcini. Sta di fatto che lo portarono d’urgenza al Soccorso che ancora non era Pronto, dove i Sanitari (lavandino, water e bidet compresi) optarono subito per una decisione gastrica, e gli fecero una lavanda, sciacquandogli così la bidella… Che c’entrasse lei, poveretta, proprio non si sa, ma tutto sta ad avvalorare quanto sostenuto poco sopra. Se poi non si aveva niente di cui discutere, bastava istituire (ma solo perché si era contro le Istituzioni) una bella tavola rotonda, dove nessuno mai si dimostrava cavaliere e tutti si davano d’Er-tu come a Came-lotte (di classe), sul primo tema che passava per la mente all’ultimo intellettuale di turno. La si faceva girare per bene questa tavola, tonda tonda come le pelotas dei molecolarmente presenti ma con la zucca altrove, fin che non si svitasse a fondo, lasciando il tutto così com’era dal principio, in base al principio che la filosofia fosse una scienza con la quale, e senza la quale, il mondo restasse poi sempre tale e quale. Hai voglia che qualcuno tentasse di sfilar la spada dalla roccia, per giungere a qualche coraggiosa soluzione: se ci provavi, t’avrebbero scaraventato subito per l’Escalibur. A che servissero queste onnipresenti riunioni l’ho capito dopo anni; al disordine del giorno, i punti eran sempre quelli: definire come era andata la riunione precedente, per organizzare quella seguente, seguitando all’infinito, che di poetico e d’infinito non aveva proprio niente. Insomma, poche idee, ma in compenso, ben confuse! (con quelle degli altri). Per non dire dei quotidiani cine-forums, dove il primo cane che s’alzava ad abbaiare dimostrava tutti gli ossi books del suo gran sapere, simile alquanto a un colabrodo. E, in fondo, mi pareva questo il brodo culturale in cui si navigava, lessandoci un po’ tutti le meningi. Oggi, no! La squola non è più così, se vi pare! Secondo me, anzi primo me (scusate, ma son sempre apparso un po’egoscentrico), la Pubblica Distruzione è solo fumo e niente Ariosto, e pure a Tasso… zero. A nulla son valse le recenti indisposizioni circa il fumo nelle aule di scuola, dove di fumo già se ne vendeva anche senza il tabaccaio: delle due, se mai, è divenuto un modo - sottobanco - di autorizzare uscite d’aula anzitempo, impippandosi ovviamente di quel poco che si è appreso per volatilizzarlo di lì a poco, sì che qualcuno, furioso più di Orlando, ha ben notato – urlando – che la Gerusalemme è rimasta lì dov’era, senza che alcuno l’avesse Liberata o tentasse mai di farlo in qualche modo. Come son cambiati i tempi, ed anche i ritmi di vita! Dev’esser senz’altro colpa delle mezze stagioni, che si sono defilate pure loro. In ben altre stagioni, a tempo pieno, alle Elementari, scrivevamo pensierini un po’ utili e un po’ cretini, e guai a non far la rima. Imparavamo a leggere, ma non con leggerezza, e a far di conto, tenendo da conto quel poco che avevamo. Si studia oggi, invece, almeno fino a diciott’anni, per scrivere al massimo 160 caratteri digitali, dimostrando così poco carattere e assai scarsa fantasia. Li chiamano messaggi, perché è divenuta una sorta di quotidiana Messa, con le mani giunte sul telefonino, unica cosa sacra che è rimasta nella mente di qualcuno, dove persino si abbrevia CH in K, pure con il bene-stare (e ti credo) degli Svizzeri, che han proposto di recente l’aggiornamento di targhe e documenti in K! Quest’ultimi, precisi come sono, attenti al correre più in fretta delle sfere applicate agli orologi, facendo girare alquanto le eliche a qualcun altro, pensano bene d’essersi così messi al passo con l’andar dell’Europa, illudendosi di non vivere più in disparte, isolati come in un Cantone. Ma, sì, lasciatemi sfogare! Eduardo stesso si rivolterebbe nella fossa e son sicuro che sparerebbe a raffica più d’una defilippica contro i moderni andazzi di certi ambienti scolastici e societari. Come sottolineavo più addietro, si vedono in giro sempre più sessioni d’esame, che – a dir poco – sanno appunto solo di sesso, e alla grande; delle sessioni, insomma. Ti si presentano di frequente femmine procaci, con tutto lì di fuori, a vista e al portatore nel contempo, desiderose d’essere valutate forse più per quel che appare o t’hanno apparecchiato, in luogo di quel che dovrebbe maturare un po’ più dentro. Dal canto loro, i ragazzi frequentano la scuola e studiano per quel poco che serve a far-la Franca, magari anche l’Antonietta e pure la Marisa. Che cosa interessa d’altro a loro? La Botanica? Di certo no: non garbano loro di certo le radici quadrate, ma - detto tra parentesi - cose ben più tonde! Per questo motivo, hanno una tale confusione in testa, che ti fan bollire l’acqua a 90 gradi, permutandola con la temperatura dell’angolo retto, dimostrando questi d’essere più retto di loro, e pure rotto. Sti giovani insomma, poco sanno pure di geometria: “Se per un punto passano infinite rette, figuratevi quante ne passano per due!”. Eh, già, perlomeno il doppio; questioni di punti di vista forse poco lineari. E che ti fanno poi durante l’ora di matematica e fisica? Sgranocchiano cornetti algebra; dimostrano l’assurdo nelle teorie; fanno la prova del 69; affermano che Keplero sia lo scopritore delle leggi inerenti la gravidanza universale dei pianeti, e per ottenere i venti, non fanno certo calcoli d’astronomia. Proprio no! Se mai, semplicemente moltiplicano i cinque per i quattro, calcolatrice alla mano ovviamente, in contemporanea ruminando pop-corna e bevendo - allegra-mente - fresche spermute di limone! (che, detto tra noi, non è una grossa lima). Di questo passo, dove andremo a finire? O meglio, dove finiremo di andare, e dove andranno loro a parare? Un tempo, almeno, i genitori si accanivano coi figli, qualora questi non s’applicassero a dovere. Che succede oggi, invece? Li difendono sempre a spada estratta: non si sa mai, dovessero rimanere assai sturbati per il resto dei loro giorni, poverini… A meglio spiegarmi, eccovi un episodio che chiarisce... Ho convocato giorni fa la mamma d’un allievo svogliato che non c’è male, il quale, durante i compiti in classe, lascia che altri elaborino le loro conclusioni, pensando bene di appropriarsene, ritrascrivendone i contenuti, in altre parole, copiando nel modo più spudorato che non si dica. Arriva dunque questa gran dama di classe, ricca anche troppo d’insano orgoglio per un figlio che – almeno a scuola – mostra di certo inclassificabili doti. “Signora – le dico -: lei sa che suo figlio copia sempre i compiti dal vicino?”. Non faccio in tempo a pronunciar verbo, che mi replica stizzita: “Oh, no! È impossibile: noi abitiamo in una villa molto isolata!”. “Non intendevo, signora, il vicino di casa, ma ben altro… Anzi, visto che ci siamo, so anche che il suo pargoletto ha avuto persino l’ardire di comunicare in famiglia d’aver quasi preso dieci l’altro giorno! E sa, perché? Solo perché l’ha preso il suo vicino di banco, quello da cui – appunto – puntualmente lui copia, o meglio, ricopia i compiti”. “Se permette, anche questo - da parte di mio figlio - non è possibile: mai e poi mai farebbe cose del genere! Noi l’abbiamo educato a princìpi eleganti e sani…”. “… diciamo piuttosto che l’avete tirato su come un principino di corte, e pure di corte vedute”, ed è qui che, senza tanta corte, veniamo ai ferri corti. E alterato come un diesis su uno spartito assai stonato, do inizio alla mia requisitoria: “Se lei non ci crede, signora, - e s’ignora se lo vorrà mai capire, glielo posso facilmente dimostrare. Dunque, alla domanda: ‘Quando è nato Giuseppe Verdi?’, il vicino di banco ha erroneamente scritto. ‘ Nel 1815’, e suo figlio – che solitamente consegna il foglio in bianco, ritrascrive: ‘Nel 1815’. “Ma, professore, - ribatte la fanciulla un po’smarrita -: questo fatto non dimostra proprio nulla. Potrebbe essere stato l’altro ad aver copiato da lui; non le sempre plausibile?”. “Sì, potrebbe anche darsi, ma suo figlio di norma consegna in ritardo; allunga il collo come una giraffa durante le ore di stesura, quando poi non si stende direttamente lui con la testa sul banco per fare un pisolino”. E son costretto a proseguire: “Guardi che anche al secondo quesito è capitata la stessa cosa: ‘ Quale fatto rilevante si annota nella Storia della Musica nel 1817?’ …e a me, la risposta del compagno è risuonata alquanto singolare quando ho letto: ‘Nel 1817, Giuseppe Verdi compiva due anni’. E– puntualmente – suo figlio ritrascrive: ‘Nel 1817, Giuseppe Verdi compiva due anni’! Vede? Stessa dicitura, stessa configurazione di frase, medesima punteggiatura, e analogo errore ovviamente, perché – come lei ben sa, o più probabilmente non sa – Verdi ha visto la luce nel ’13 e non nel ’15! Non per nulla, ha goduto di una vita fortunata (?!), come si suol dire…”. “D’accordo, professore, ma siamo alle solite: potrebbe sempre essere stato quest’altro alunno - che, se lo vedo gli ritrascrivo io i connotati - ad aver copiato dal mio Cicci!”. “Sì, ma guardi che il suo Cicci, come lei lo chiama, anche durante le interrogazioni non sp(ic)iccica verbo! E poi, senta qua: mi sa spiegare allora come mai, alla richiesta ‘In che anno è morto Giuseppe Verdi?’, il nostro amico ha scritto: ‘Non lo so’, e suo figlio: ‘Neanch’io?!”. Oh, quanto è difficile il rapporto con certi genitori, che ritengono i loro pargoli geni incompresi! La mia mamma, donna di tutt’altra tempra, dall’alto della sua ignoranza, ma forte della sua insostituibile esperienza, di fronte a tali rimostranze, al minimo m’avrebbe rifilato uno scappellotto da farmi girare la testa fino ad età avanzata; m’avrebbe – come si dice ai bambini in gergo – fatto totò, (pur sapendo che a me Pozzetto piaceva di più), e non certo tolto tanto di cappello davanti ad una sua creatura, adorata sì, ma svogliata e incosciente. C’è di più! Se volessi rincarar la dose, potrei rammentare che sono proprio i genitori d’oggi a spingere i figli, già dalla tenera età, a scelte forzate, che risultano a loro crude e poco congeniali. Che dire, ad esempio, di quel ragazzo (affidato pure a me) che all’Università studiava Diritto, e - contemporaneamente – Flauto traverso in Conservatorio? Ma, potrà mai un giovane simile acquisire un minimo di coerenza nella vita, avere mai una visione lineare delle cose? Ho scoperto, proprio dall’interessato, che poi tanto interessato non era, che la prima scelta era di suo padre, di sua madre l’altra, e i pantaloni che indossava di suo cugino! Come avrebbe potuto acquisire una sua identità, al di là della carta che portava in tasca? Agli esami universitari di diritto gli andò tutto per traverso! Il Conversatorio l’ha irradiato dall’albo agli speciali esami di conferma, confermando quanto ho sopra esposto. Basti pensare che la sua esecuzione delle pagine in programma assomigliava, più che ad un’interpretazione, ad una vera esecuzione capitale degli autori stessi, che qui non cito per doverosa privacy; e vi garantisco che la Commissione si è affrettata ad avvertire i familiari delle illustri vittime “Come sono andato?”, chiese. “Devi attendere che escano i quadri e poi vedrai!”, gli rispose il Commissario più coraggioso. “E quando escono questi quadri?”. “La data precisa non la sappiamo, ma senz’altro appena saranno pronte anche le cornici”! “Grazie, professore!”, annuì, ed è inutile riportare che non riuscì ad afferrare nemmeno questa di battuta, che era forse la più musicale di tutte le altre sentite poco prima. Le conseguenze di tutto ciò? È presto detto: costui, d’altri povera vittima, non è riuscito a diventare Dotto, nemmeno quanto il nano di Biancaneve, e so che gira il mondo un po’ smarrito, a costruire quadrati sui cateteri e sulle ipotenuse, a raccontare grassi strafalcioni che non fanno per niente ridere né altri e tantomeno lui, per la magra soddisfazione di non so chi… L’unica certezza di cui dispone, l’ha appresa a memoria: l’uomo discende dalla scimmia! Ma, se provate a chiedergli da dove mai discenda allora quest’ultima, nient’altro vi risponderà che “… se l’uomo discende dalla scimmia, la scimmia a sua volta non può che discendere dagli alberi”. Dal canto mio, spero solo che - col tempo – si faccia almeno esperto in qualche ramo. E non chiedetemi: “… in che senso?!”. |
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