Sacchetti Cristina:
è nata a Biccari (FG) il 22 dicembre 1947 ma ha lasciato le montagne del paese e i suoi profumi, le sue maggesi circa cinquant'anni or sono per una Terra ospite: il Piemonte, ma il legame che ha con la terra d'origine (dove torna non appena gli impegni familiari lo consentono e dove attinge a piene mani materiale per i suoi componimenti) a tutt'oggi è più saldo che mai. |
Per i lettori di Carta e Penna ha scelto:
L'ULTIMO CANTO |
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Il vento ruggente
trasporta le foglie
in un vorticar
di danze Berbere.
Pagliuzze dorate
come aghi affilati
penetrano la mia pelle
esposta al sole infuocato
di un'estate Africana.
Balenìo di memoria
e vengo proiettata
alle estati dei miei
verdi anni
quando gonne danzanti
e lunghi capelli
vorticavano al volere
dello stesso vento
e come zingara d'Oriente di passione accesa intonavo
il mio canto d'amore
su note struggenti
che in un batter d'ali
s'infrangeva sui rovi
come l'ultimo canto
della dolce capinera.
Goccia dopo gocciaMi disseterò alla fonte
bevendo rugiada
dalle tue labbra.
Goccia dopo goccia
assaporerò il nettare
dei tuoi sentimenti
e non mi fermerò
affinché non avrò
prosciugato la sorgente.
Goccia dopo goccia
berrò...l'Amore!
Raccoglierò amore?Luna velata
di dolore vestita
le tue lacrime dal cielo
scendono a fecondare i semi
che ho messo a dimora
tra i solchi tracciati
dal vomero argentato.
Lascerò che la neve
adagiandosi lieve
celi ogni bruttura.
Col disgelo a primavera
comprenderò se
al posto dell'odio
raccoglierò amore!
LETTERA DAL PASSATOQuando parla della sua terra natia, la Puglia, alla mia amica Matilde si illuminano gli occhi. Dice di aver vissuto solo una manciata di anni in un paesino arroccato e nascosto agli sguardi distratti, nei pressi del monte Sidone, ma ciò è bastato affinché il suo ricordo rimanesse impresso nella sua memoria.
Non è trascorso un solo giorno della sua lunga vita, (vissuta sotto un altro cielo) senza pensare a "quel" cielo!
Ma andiamo per gradi.
Mi chiamo Paola e abito in una cittadina vicino a Torino.
Da alcuni anni conosco la signora Matilde, che, pur essendo maggiore di me di alcuni anni, siamo diventate amiche e tutte le volte in cui vado a farle visita, o lei viene da me, non tralascia l'occasione di parlarmi del suo adorato paesello, degli amici, del clima ecc. ecc. Sono tanti, troppi di aneddoti da lei raccontatimi, che neanche li ricordo, ma la storia di oggi vale la pena narrarla.
Matilde racconta che quando aveva tredici anni e abitava ancora nel suo paese, in provincia di Foggia, le donne non portavano i pantaloni, ma lei che dopo la scuola frequentava un laboratorio di sartoria e conosceva un po' la moda, scalpitava per poterli indossare. Non ne poteva più di quelle ridicole gonne a pieghe che la facevano sembrare una sciocca collegiale.
Tutte le sere tormentava suo papà con la stessa richiesta: voleva i pantaloni con lo spacchetto alla Capri.
Ma il suo severo papà acconsentì solo al che indossasse le gonne a godet, era pur sempre una vittoria!
Ottenuto quel permesso però, gliene venne in mente un altro.
Voleva tagliarsi i capelli alla garçonne, e quando il papà tornava dalla campagna gli dava il tormento finché ottenne ciò che desiderava. Adorava anche i tacchetti la mia (allora giovane) amica.
Tutto ottenne tranne che di indossare i pantaloni.
Correva l'anno millenovecentosessanta, Nostradamus aveva preannunciato la fine del mondo e che diamine non poteva morire senza aver indossato almeno una volta l'indumento che le toglieva il sonno e la pace.
Cercò comunque d'accontentarsi con tutti quei permessi ottenuti, poteva ritenersi fortunata. Con la gonna a ruota, i tacchi e il nuovo taglio di capelli, avrebbe cambiato la sua immagine di bambinetta in una splendida fanciulla.
L'occasione giunse a breve: la processione della Madonna di Costantinopoli.
Il giorno della suddetta festa s'acconciò come da copione e chiesto in prestito un rossetto a Carmelina, un'amica più grande, si recò in piazza a fare lo "sdruscio".
Naturalmente tutta questa messinscena era finalizzata al che un ragazzo molto più grande di lei la notasse, così fu.
Mentre passeggiava nella piazza lo vide avvicinarsi ma si atteggiò a donna vissuta e di proposito lo ignorò: notando la metamorfosi, il giovanotto le si avvicinò chiedendole se fosse veramente lei, la piccola Matilde, la figlia di "compare" Donato.
Lei rispose un po' sostenuta, ma in realtà le tremavano le gambe e quando lui le propose di accompagnarla all'uscita della processione, lei accettò in preda all'emozione.
Durante il tragitto, tra un discorso e l'altro lui le disse: - Peccato che tu sia solo una bambina rispetto a me, altrimenti ti avrei chiesto se volevi diventare la mia fidanzata.
A quelle parole il cuoricino di Matilde iniziò a galoppare e a perdere colpi, ce l'aveva fatta, M. era innamorato di lei. Altrimenti perché quei discorsi?
Giunti davanti al sagrato della chiesa, lui la salutò con un buffetto sulla guancia, di quelli che si danno ai bambini dell'asilo, poi le disse. - Non cercare di crescere in fretta "peccerè", hai solo tredici anni| -
È superfluo aggiungere che Matilde non andò più alla processione, ma tornò in lacrime a casa e per tutto il giorno si chiuse in un mutismo ostinato.
- Ma chi credeva d'essere quel presuntuoso di M. ? -.
Decise che la domenica successiva avrebbe indossato i pantaloni, a dispetto del papà e che avrebbe imbottito il reggiseno comprato al mercato dei "panni americani" con dell'ovatta per sembrare più donna, allora sì che M. non l'avrebbe ignorata!
Giunse la domenica e vestitasi di tutto punto, comprese, che, alla sua "toilette" mancava qualcosa: una borsa, ci voleva una borsa! Le venne in mente che nel baule della biancheria che sua mamma conservava per lei aveva visto tempo addietro una borsetta tutta ricamata. La mamma l'aveva ricevuta in dono da uno zio che viveva da anni in America e che inviava loro pacchi con abiti smessi, con scarpe e qualche dollaro. Corse ad aprire il vecchio baule, vi frugò dentro finché trovò cosa cercava, era fatta.
- A noi due M. ! -
Mentre da casa si recava in piazza si specchiava nelle vetrine per vedere l'effetto, stese il rossetto preso in prestito da Carmelina e annusava compiaciuta il profumo che emanava dal suo corpo che aveva cosparso di borotalco.
Lo vide da lontano, e lui vide lei! Scendeva dalla strada della torre M. e rimase a bocca aperta.
Era proprio bella Matilde, ma lui era un uomo serio con oltre dodici anni più di lei, conosceva bene i suoi genitori, in quanto una specie di parentela li accomunava.
Le si avvicinò e dopo averle fatto qualche complimento si offrì di accompagnarla a messa, lei si affiancò e traballando sui tacchi delle scarpe bianche (anche quelle regalo dello zio americano e di due numeri più grandi del suo piede) si avviò verso la chiesa con il ragazzo dei suoi sogni. Ma il risveglio giunse ovattato da una frase che M. le stava dicendo: l'aveva accompagnata perché aveva paura che, bella com'era, qualcuno la potesse importunare.
Non capiva Matilde, o non voleva capire. L'amava o non l'amava? Non l'amava, M. non l'amava!
Lo comprese dal solito buffetto sulla guancia di bimba e dalla strafottenza con cui lui si allontanò fischiettando, con le mani in tasca. Un fiotto di lacrime si affacciò prepotente agli occhi, non poteva certo entrare in chiesa col viso stravolto dalle copiose lacrime e il rossetto ormai sbavato. Aprì la borsetta e vi frugò dentro alla ricerca di un fazzoletto, non poteva rischiare che qualche passante la vedesse in quello stato, in un batter d'occhio l'avrebbe saputo la mamma, nel cercare il fazzolettino le sue dita si imbatterono in una busta ingiallita dal tempo.
Nel frattempo, le sue prime lacrime d'amore le aveva asciugate il vento, e i suoi occhi ormai limpidi catturarono le prime frasi di quella missiva di quella borsetta americana.
Per la seconda domenica non andò a messa e, sedutasi su un gradino un po' celato agli sguardi dei passanti si accinse a leggere quella lunga lettera che si rivelò una lettera d'amore straziante e che poi seppe appartenere a una prozia americana quasi centenaria ancora vivente.
Matilde la conserva (a distanza di oltre mezzo secolo) come una reliquia e alzandosi dal tavolo dove stiamo sorseggiando un caffè, si reca in camera da letto e tirata fuori da un piccolo e antico scrigno la famosa lettera me la porge invitandomi alla lettura.
Premetto che la mia amica mi aveva in passato accennato alla storia d'amore che aveva legato la protagonista della lettera a un ragazzo del suo paese. Riporto fedelmente il testo della lettera con qualche correzione, in quanto scritta in un italiano approssimativo e infarcita di parole dialettali oltre che sbavate di lacrime, suppongo, della protagonista.
Caro amore, vita mia, "sciate mije ",
dopo la mia partenza per la Merica la mia vita finì. L'addio che ci demmo nel nostro posto segreto fu uno strazio per entrambi, ho ancora davanti agli occhi (come fosse ieri) la scena nel boschetto, questi occhi che hanno pianto e dopo tanti anni piangono ancora per te, vita mia.
Oggi è l'anniversario della tua morte e come ogni anno ti scrivo una lettera che, so già, rimarrà nel cassetto coi'ne tutte le altre che ti ho scritto a ogni anniversario.
Durante il nostro fidanzamento durato, tra alti e bassi, quattro anni, avevamo fatto tanti progetti per il nostro futuro e benché la nostra relazione fosse contrastata dalla tua famiglia noi sognavamo di sposarci e avere dei bambini. Avevamo scelto anche i nomi per i nostri futuri figli, Elios se fosse stato un maschietto, Selene se femminuccia.
Tu eri un giovane studente e appartenevi a una delle famiglie più in vista del nostro paese, io una semplice sartina, ma ciò a te non importava, dicevi che mi avresti insegnato tante cose.
L'amore tra noi era immenso come il cielo trapuntato di stelle nelle sere in cui di nascosto ci amavamo nel nostro posto segreto tra i larici del boschetto. Credevamo che il nostro amore non avrebbe mai conosciuto la fine, invece tutto ha un inizio e tutto ha una fine. La fine della nostra felicità giunse come un fulmine a ciel sereno un giorno che il postino consegnò a mio padre una busta contenente l'atto di richiamo per la Merica.
Mio papà che non aspettava altro, fece in un battibaleno tutti i documenti necessari per l'espatrio e nel giro di poche settimane partimmo. La sera dell'addio mi promettesti che dopo la laurea in fisica ci saremmo sposati per procura e mi avresti raggiunta per stare con me per sempre.
All'epoca, il raggiungimento della maggiore età era fissata al compimento dei ventun'anni e mai mi sarei sognata di ribellarmi al volere dei miei genitori per rimanere con te, nonostante il mio amore immenso.
Ricordo che il sole si oscurò e le tue lacrime unite alle mie fecero straripare il "vallone" in secca.
Ci giurammo amore eterno e ci amammo con la forza della disperazione , non riuscivamo a staccarci, avrei voluto morire lì tra le tue braccia ma il postale aspettava in piazza con i miei familiari per condurci all'imbarco a Napoli.
L'attraversata fu un lungo incubo, stavo male e vomitavo, come il resto dei passeggeri, per cui non ebbi il sentore che in me stesse nascendo una nuova vita. Lo compresi solo tempo dopo il nostro arrivo. In casa fu la tragedia! I miei genitori mi mandarono in un convento di suore, poi ti scrissero per indurti al dovere, laurea o non laurea dovevamo sposarci prima che il bambino nascesse. Intanto che il mio ventre si arrotondava piangevo e pregavo, pregavo e piangevo, ero diventata l'ombra di me stessa.
Lo so, amore mio, che ti attivasti per espletare tutte le pratiche necessarie per l'espatrio, ma un'ombra minacciosa si stava stagliando all'orizzonte, l'ombra della guerra: fosti spedito al fronte! Dopo le prime lettere che scrivesti, dove mi rinnovavi il tuo grande amore e dove mi raccomandavi di aver cura del nascituro il silenzio regnò.
Non mi davo pace, la lontananza acuiva il dolore e i pensieri più neri dipingevano le mie inutili giornate. I miei genitori, che ogni qualvolta venivano a farmi visita e mi rinfacciavano il mio stato di ragazza madre all'improvviso divennero meno aggressivi e più teneri nei miei confronti.
Compresi il motivo nei giorni successivi; avevano aperto una lettera diretta a me filettata di nero in segno di lutto, proveniva dalla tua famiglia che affranta annunciava la tua scomparsa in un'imboscata al fronte. Nella stessa mi esortavano a tornare in Italia non appena il bimbo fosse stato in grado di viaggiare.
Ora che avevano perso l'unico adorato figlio avrebbero riversato sul nipote il loro amore. Era anche mio desidero tornare al paese dove avevo conosciuto l'amore e dove avrei potuto portare un fiore sulla tua tomba, ricordo che amavi le ginestre della nostra montagna, ti avrei inondato di quei fiori nel periodo della fioritura.
Ma ancora una volta il destino decise per me.
All'infausta notizia, la disperazione si impossessò di me, tiravo pugni al mio ventre appena accennato e mi strappavo i capelli, non volevo più vivere, che senso aveva senza te?
Le suore mi furono di grande aiuto, dissero che se volevo restare da loro e dare una mano nel laboratorio di cucito, potevo rimanere e crescere il bimbo in un ambiente sereno. Anche i miei genitori mossi a compassione mi invitarono a tornare a casa, avrebbero detto a tutti che mio "marito" era perito in guerra e ciò sarebbe bastato a salvare la faccia.
Il nostro bambino nacque con parto prematuro per via del mio fisico prostrato soprattutto psicologicamente, dissero i medici. Visse sette giorni, solamente una settimana; le suore lo battezzarono con il nome scelto da noi, Elios.
Il giorno che volò in cielo era nella culla accanto al mio letto; ricordo confusamente una figura d'uomo con le tue sembianze che lo accolse tra le braccia e lo cullò dolcemente intonando una vecchia canzone che conoscevo bene perché era la stessa che cantavi quando mi portavi le serenate in Italia. Poi vi allontanaste avvolti in una luce abbagliante come la neve dei ghiacciai, e di ghiaccio divenne il mio cuore!
Caro amore; "sciate miie", la mia vita é trascorsa così, senza amore, intrisa di dolore e così sarà in futuro, continuerò a scriverti una lettera all'anno finché vivrò.
Non ho più amato nessuno, come avrei potuto dopo aver amato te?
So che quando verrà la mia "ora" non avrò timore perché ci sarete voi (il nostro piccolino e tu) a tendermi la mano e formeremo così una vera famiglia.
So che avrò le rughe e capelli candidi, ma so anche che non li noterai perché mi guarderai con gli occhi dell'amore.
Tua Mariù (come mi chiamavi tu) Terminata la lettura mi accorgo di avere gli occhi velati di lacrime. Non vorrei essere così sensibile, in fin dei conti non conosco i protagonisti di questa logora ingiallita missiva, allora perché queste stupide lacrime?
Vado alla ricerca di un Kleenex e mentre termino di bere il caffè ormai freddo un sospiro mi gonfia il petto. Penso a Mariù e mi chiedo se quel genere d'amore esista ancora. Un amore privo di barriere, al di là del tempo e dello spazio, al di là della vita stessa, voglio illudermi che sì, esista ancora!
Intanto Matilde che si è accorta del mio turbamento, con una risata per sdrammatizzare, racconta di come soppiantò in una settimana quel ragazzo "troppo vecchio" per sostituirlo con uno della sua età dagli occhi color dell'ambra che le regalava violette intrecciate a bastoncini di legno, ma questa è tutta un'altra storia.
Racconta per l'ennesima volta che anche lei migrò qui nel Nord-Italia oltre cinquant'anni or sono e quest'anno ha invitato anche me a soggiornare nel suo paese tra i monti in quella terra baciata dal sole, amata da lei e da Maria e un po' anche da me che, a forza di sentirne parlare, è come se la conoscessi da sempre! |