Luzzio Francesca: è nata a Montemaggiore Belsito e vive a Palermo . |
Per i lettori di Carta e Penna ha scelto:
RECENSIONE DELLA SILLOGE - POESIE COME DIALOGHI - |
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Alla poetessa Francesca Luzzio, con stima e riconoscenza, un commento sulla silloge POESIE COME DIALOGHI, ed. Thule, Palermo (2008)
La silloge Poesie come dialoghi, si discosta dalla lirica del XIX secolo e, naturalmente, da quella del XX secolo. In altre parole, è una anticipazione sistemica. Anche se la versificazione per secoli è stata asservita alla narrazione/descrizione soprattutto di introspezioni, non si tratta di un’esagerazione. Quando Omero narrò di Ulisse che s’imbatté in un essere gigantesco con unico occhio al centro della fronte, nessuno disse che il suo poema faceva parte del genere fantasy.
Dopo la prima guerra mondiale, i componimenti poetici con fini narrativi quasi scompaiono dalla scena letteraria per essere sostituiti dal testo poetico enunciativo di contenuti intimistici: il canto è lirico, la trama si concentra soprattutto sullo stato d’animo, le descrizioni esaltano la bellezza della natura. Il poeta post bellico, reagisce alle costrizioni istituzionali che hanno imbrigliato la creatività e risponde individualmente alle pulsioni di libertà. Egli vuole scongiurare i pericoli della routine ed enfatizza la sfera semantico-emotiva: riscopre i sentimenti, adora la bellezza della natura, descrive le sensazioni, canta le emozioni di un mondo libero, quello suo. Frattanto, inventa artifici metrici e lessicali capaci di inuzzolire l’apprendimento e l’acquisizione di affettività. Il cambiamento di tendenza è su scala mondiale, l’inconscio collettivo è stato modificato dalle sofferenze planetarie e i poeti magnificano il transfert sensazionalista. Dal poeta al lettore, i versi chiariscono la solidarietà fra gli uomini e l’utopia possibile. Il lettore, dunque, legge e interpreta, scioglie i vincoli dell’interpretazione condizionata poeta-narratore, e condivide l’opera sottoforma di significato appreso, di transfert, appunto. Tutto il XIX secolo trascorre elaborando canoni idonei a rappresentare lo stato d’animo e le percezioni emozionali del poeta: vita, morte, libertà, amore, natura, religione, politica e immaginario collettivo, scoprono la dimensione orale della poesia e la restituzione della forza espressiva alla parola che rischiò l’impoverimento semantico dovuto all’analfabetismo, al ricorso quotidiano della violenza e, naturalmente, alla censura. Tuttavia, un rischio che oggi si ripropone allarmante per le nuove forme di comunicazione tecnologica distruttive della sintassi, socialmente perniciose, culturalmente antiletterarie e, soprattutto, nichiliste, cioè antitetiche ai processi empatici che inducono all’amicizia, all’innamoramento e all’autostima: attenzione verso l’altro, sollecitudine solidale, impegno creativo e fiduciario, responsabilità della scelta. Dunque, una affabulazione piuttosto che una narrazione. Al massimo furono ballate e limericks, dove gli autori inscenarono sia la voce narrante che gli interlocutori. Sebbene la prosa non fosse sconosciuta, dopo la prima guerra mondiale si moltiplicarono gli esempi di trasformazione del canone poetico che abbandonò la narrazione per la lirica. I poeti francesi del dopoguerra, sono stati i primi a esprimere in versi l’individualismo dei sentimenti, l’idealità della pace, il piacere della vita, le visioni della rappresentazione edenica, l’introspezione emozionale. Essi fuggono dalla tradizione classica italiana che fece da caposcuola con Dante, Pulci, Folengo, Ariosto e Tasso. I (nuovi) poeti dell’intimo e dell’intenso, tuttavia, non rinnegano Omero, primo tra i primi a narrare in versi. Essi non dichiarano guerra ai poemi, non affermano apostasie, né sono ostili alla onnipotenza della prosa. Invece, si dirigono verso direzioni altre, più intimistiche, capaci di suggerire emozioni e di provocarle; emozioni che l’empatia del lettore, indirettamente, eleva a criteri dell’umanesimo. Infatti, la poesia propaganda le cose dell’uomo. Jacques Prévert vende un milione di copie. La lirica che sottintende alla gnome freme di soggettività e parla quasi sempre in prima persona durante l’elaborazione metrica e lo svelamento dei meccanismi percettivi. Dice il critico Tommaso Pincio, fine diegeta catafratto dietro alle supposizioni della filosofia e la chiarezza di una piazza romana: «la lirica dell’immediato dopoguerra e poi quella successiva alla metà del secolo, ha imposto il suo distacco dalle parole di senso comune, si è elevata a carisma dell’interiezione disconoscendo il ruolo della prosa che per secoli ha incarnato il primato di narrare in versi le cose del mondo all’intera umanità.» Con il termine lirica, s’intende l’introspezione interiore e intimistica, l’interpretazione personale della realtà in chiave emotiva, la capacità personale di esprimere poeticamente l’eccellenza dei sentimenti anche altrui. Quindi, della descrizione lirica, non fa parte nessuna rappresentazione dogmatica della realtà, né un punto di vista generalizzato oltre la prima persona dell’autore e poeta. Il prof. Mario Inglese, così definisce la tendenza letteraria: «la capacità di appropriarsi delle sinestesie altrui, riconoscendosi in esse perché riconquistate tramite la lettura e ricondotte alla personale esperienza del lettore.» Con queste premesse, è facile accorgersi dell’originalità dell’opera di Francesca Luzzio. Commentare Poesie come dialoghi significa voltarsi indietro, operare un feedback storico che consenta di interpretare le liriche e i dialoghi nella chiave moderna di una sperimentazione dianoetica deputata alla trasferibilità delle condizioni di immedesimazione e di riconoscibilità del testo. Poesie come dialoghi esonda oltre la comprensione letterale e, va segnalato, la silloge è un esempio di sperimentazione neovitalista; nel senso che la poetessa utilizza una struttura ellittica che alterna sistematicamente la lirica all’interlocutore dialogante, un’entità analoga a un oracolo che elonga la trama fino all’apogeo, prima tappa della staffetta con l’interlocutore - ente - che, ciclicamente quante sono le stanze, sta di fronte alla protagonista come una sentinella proprietaria di un archivio di memorie, massime e ricordi. La messe di argomentazioni è numerosa, e l’alternanza degli interlocutori arricchisce il testo di indizi cosmogonici inerenti alla vita di Francesca Luzzio. Altresì, utilizza un modulo frammentato che completa la simmetria della composizione in senso stretto, alternando alla lirica, nel senso già detto, le stanze della narrazione in versi. Invero, una alterità oltre la personalità della poetessa, che aggrega il contesto poetico tramite l’inserimento di dialoghi scritti in neretto. Si tratta di un contributo creativo che influenza la struttura dei singoli componimenti verso nuove riflessioni, fino a raggiungere orizzonti “altri” e nuove conclusioni più autoritarie o sagge, di quanto l’individualismo di Francesca Luzzio possa affermare con la fabulazione svincolata dal presidio morale e profetico scritto in neretto. Dunque, il dialogo condiziona il contesto come in Indipendenza, dove l’immanentismo del plot è influenzato dall’interlocutore. Tuttavia, la scelta di poetare utilizzando questo tipo di struttura alternata non costituisce un primato. La struttura di Poesie come dialoghi è definita tematizzazione in forma marcata. In altre parole, l’alternanza quasi aritmetica tema enunciato/ tema predicato che ammette l’esistenza contemporanea di fatti noti o dati per tali, ai quali si fanno corrispondere o si affratellano o si oppongono retoricamente, locuzioni nuove afferenti l’enunciato-tema. E Francesca Luzzio in questo universo di enunciati disinvolti e di predicati risolutivi, si muove con estrema disinvoltura usando il discorso diretto (prima persona), il diretto libero indiretto (l’alterità e voce narrante esterna) e l’ indiretto libero (voce narrante esterna-interna). Il dialogo costruisce sottotrame che assolvono, precisano, condividono, consigliano o condannano la poetessa nella fase autoreferente. Al dianoetismo, tutto è possibile. A volte, l’intromissione è incisiva e insidiosa, interrompe la fluidità del processo creativo autoreferente che non può ignorare il dialogo e si arresta; circostanza che Francesca Luzzio esterna con i puntini di sospensione. In senso lato, il confronto avviene secondo un ciclico ripensamento che si dipana a blocchi, svelando contraddizioni capaci di dare alla lirica un sensibile tono esoterico che rivela tutta la fragilità di Francesca, la poetessa. I dialoghi sono contributi impersonali e onniscienti enunciati da un punto di vista alto, ma esterno. Che essendo alto, super-vede, controlla e monitorizza aree geografiche e volumi esistenziali enormemente più grandi di quanto sarebbe consentito allo sguardo orizzontale sulla geometria piana o pitagorica. Alla fine, il risultato di un simile e impari confronto con la linearità, cioè la gnome della trama semantica, risolve in un prodotto più maturo permeato di infallibilità. Questa alterità oggettiva dentro la lirica di Poesie come dialoghi, risalta immediata nella differenza dei punti di vista: soggettivo - intimistico il primo, enunciativo - risolutivo il secondo, in un [letteralmente] alternarsi di enunciati e conferme che sono causa di esaudimenti dalla prima parte della silloge Io e…, alla seconda …Il mondo. Inoltre, i dialoghi segnano il tempo, frammentano le esperienze e contemporaneamente sommano le varie età anagrafiche in un susseguirsi di metalepsi dichiarate o intuite. Per esempio, da Trama di vita (bambina) a Felicità ritrovata; e ancora, da Valle del torto (adolescenza), a mano a mano passando per Rivelazione, Accoglienza (la maggiore età e oltre) sino a Aridità (la menopausa) oppure a Consolazione (la completa maturità personale e professionale). Anche se Dialogando con un’amica, è - mi pare - una poesia criptica, la silloge Poesie come dialoghi non soffre le perplessità di certa poesia contemporanea che non riesce ad attualizzare l’io del poeta e, quindi, diluirlo, differirlo all’interpretazione del lettore. Ogni polemica sarebbe una dichiarazione di ingiustizia. Con Poesie come dialoghi, Francesca Luzzio esordisce, giusto lo stigma dell’interposizione dialogata, solo stilisticamente. Infatti, è una operatrice di cultura in piena attività creativa e professionale, è organo di commissioni giudicanti e merita il plauso di grandi critici letterari, da Marcello Scurria a Tommaso Romano da Giorgio Bàrberi Squarotti ad Antonio Martorana. La silloge riavvolge il tempo per esprimere, insieme all’intimismo, una trama di sottofondo che pregna tutta l’opera con l’intervento di una voce onnisciente. Un narratore esterno e impersonale che si esprime in neretto fra le stanze dei componimenti per essere intenzionalmente uno sguardo su tutto, sulle parusie, sulle sinestesie, sulle riflessioni che navigano tra la certezza del personale e il generale di un oracolo, quasi un osservatore sociale, etico e morale, con il compito di normalizzare voli pindarici, amori tentati, interiezioni, prospettive familiari e di lavoro. Anche se normalizza, il punto di vista esterno è un intervento pragmatico, qualche volta paradigmatico, altre ancora è sinonimo di (insindacabile) giudizio tracotante di saggezza. Insomma, tra la poesia in corsivo e la narrazione in neretto, la poetessa riesce a materializzare un edenico nuncio, un cupido, un lare, parlanti ciascuno una limpida lingua profetica (es. La Storia). La raccolta considerata nella sua globalità, rivela Francesca Luzzio una donna fragile perché sensibile, ma dalle idee chiare. Poesie come dialoghi non è soltanto una raccolta estetica, è soprattutto una raccolta etica. Non solo il ruolo assolto nel quotidiano, ma anche la sua idea di mondo. Un mondo che, come introduce la lirica Agognando la pace, purtroppo va in rovina; una distruzione voluta - non è né casuale né inconsapevole - dalla perniciosità della presenza antropica che svilisce ogni equilibrio naturale (Bagliori come lamenti), grottesca e disumana come la guerra che ammazza i bambini (Macerie di guerra), e precaria e dissoluta come l’informazione di cronaca nera (Telegiornale). In Poesie come dialoghi, la disamina della lirica conduce senza soluzione di continuità al malessere personale, mentre il punto di vista altro si rivolge, per la maggior parte dei casi, alla società. Quelle della poetessa sono esortazioni calcolate; nessun obbligo. Non c’è alcun rischio nell’istruzione (Amalgama). Poesie come dialoghi, è sinonimo di liriche inerenti al prima e durante di Francesca Luzzio, anche se i dialoghi spostano il centro dell’attenzione sul dopo, rivelando la natura pedagogica della raccolta. Una natura in-sé, ciononostante non dichiarata, che colora di chiaroscuri per induzione: il lettore partecipa all’osmosi dentro-fuori, cooptato nel gradiente che avvolge come una membrana tutta l’opera, coerente con l’entusiasmo e l’impegno professionale di svariati decenni d’insegnamento dedicati alla salute del prossimo agognata con sincero altruismo (Voglia di continuare). In altre parole, il lettore interpreta olisticamente i segreti della rivelazione perché i versi affastellano memoria, esperienze e ricordi in un variare di ambientazioni - scuola, famiglia, bosco, chiesa - che non relegano l’esperienza della poetessa a fenomeni irripetibili o esclusivi. Da qui la pedagogia del componimento dove approda il lettore che negozia i messaggi di ciascuna e solipsistica poesia rielaborata dalla sua immaginazione oltre i confini di Poesie come dialoghi, e la classificazione dei giudizi di valore potrebbe subire importanti variazioni, sia in difetto che in eccesso. Per esempio, il momento picaresco di Fessure, è una allegoria quasi bucolica che si presta ad una mole di interpretazioni affettive e cognitive davvero variegate: tutte quelle che il lettore può autonomamente configurare nell’atto (cito liberamente) di spalancare gli occhi per intravedere la luce dei misteri che filtra dalle fessure. Ripeto, ho fatto un esempio. Ma credo che la poesia con le sue emozioni, sensazioni e esteriorità, abita l’universo nell’accezione platonica di una libertà intellettuale che, senza dissacrare il ragionamento, può avere tante chiavi di lettura quanti sono gli effettivi lettori. La silloge Poesie come dialoghi si divide in due parti: dalla immediatezza ludica, amichevole, disinvoltamente emica e dai sapori famigliari di Io e… alla seconda parte dal titolo …Il mondo, dove la poesia si spoglia della, per cosi dire, spensieratezza dell’ Io per sorprenderci con una poesia più crepuscolare, più matura ma anche melanconica per i tradimenti e le delusioni. Stando così le cose, non si capisce perché la poesia Aridità [pag.37], come si evince dall’indice, non fa parte della seconda parte del libro, quello della maggiore età e della maturità. Ciononostante, un qui pro quo esclusivamente materiale, perché Aridità tratta d’una questione tipicamente femminile e, quindi, di Francesca Luzzio che scrive del suo Io sopraffatto dalle regole biologiche della specie umana senza per questo rinunciare ai, sempre possibili, momenti di felicità: «Ed io, senza chiedere di capire/ ritornerò a fiorire.» La seconda parte, …Il mondo, si spinge addentro nella società contemporanea, misura il polso delle contraddizioni e la disperazione dei sogni infranti. Si addentra, inoltre, nelle cose della professione senza abbandonare del tutto tematiche di tipo familiare che, come si legge in Guardando la tivù [pag.47], coinvolgono la coppia stigmatizzata in un interno di famiglia (nella specificità dell’occasione) decadente. …Il mondo, è una sezione colma di rabbia; di sana rabbia. E’ un grido di furore, perché, e non ho dubbi, la buona fede riversata nell’impegno sociale e sinceramente altruista profuso nel corso di una vita d’educatrice, non ha completato, per dirla con Jean Paul Sartre, l’in sé di Francesca Luzzio. In altre parole, uno slancio della volontà di potenza benefico e propositivo che, purtroppo, si è diluito nel tempo e scolora gli entusiasmi fino a esistere come fenomeno della memoria e morfologia della disillusione. Francesca Luzzio insegna (adesso è in pensione) materie letterarie negli istituti superiori di secondo grado e la durissima lotta contro il nichilismo ha perso frattanto il carisma dell’impegno e il fascino dell’umanesimo. Una vita professionale e didattica deputata a insegnare – in senso lato - l’amore, è un vivere nobile che non ha bisogno di conferme nobilitanti. Ma la durissima lotta contro ogni truismo contemporaneo, è la battaglia che l’attuale società decadente che mente a sé stessa, che rinuncia alla qualità e menoma la formazione a tal punto da non interagire con l’intelligenza personale degli allievi, ha già perso. Da qui, dal pensiero debole alla assenza di soddisfazioni, dalla incapacità di impegnarsi alla fregola di esigere tutto e subito, il futuro si veste di mostruosità. E pensarlo irreversibile, fa paura [Sensazioni di normalità, pag.48]. Anche la tecnologia, è responsabile di tanta banalità esistenziale [I faggi, pag.45]. Il peso del monito si sente, pulsa fra le tempie e si veste di terrore. Ciononostante, la ricerca della verità nell’empito teso a congiungere l’in-sé con il per-sé da condividere con il resto del mondo, abbellisce la lirica di una umiltà costante e semplice impreziosita dalla leggerezza del monito in neretto (i dialoghi) che non aggredisce ma condivide, non condanna ma consola, non oppone incantesimi al fato ma suggerisce alternative alle occasioni mancate o disperse lungo il corso dell’esperienza. Dice J.P.Sartre: «Per individuare l’oggetto dell’osservazione bisogna ritagliarlo dal contesto e posizionarlo al centro di uno sfondo.» Ecco. Sullo sfondo della silloge Poesie come dialoghi c’è una poetessa che fa i conti con l’irreversibilità del tempo perduto a seminare bene senza ritorni appaganti e con la memoria che fa sanguinare vecchi entusiasmi e i motivi di autostima. Tuttavia, si avverte che la rinuncia agli ideali è immersa nell’amarezza di quelle decisioni che seguono alle delusioni e ai fallimenti. Delusioni e fallimenti di cui non è responsabile, perché la poetessa è in buona fede, non si auto-dissimula, bensì è vittima di cause di forza maggiore più grandi di lei. Perciò, la poesia di Francesca Luzzio è anche un grido di rabbioso furore. La lirica, se da una parte allarga il suo campo d’azione fino a coinvolgere l’esterno, dall’altra raziona i motivi pedagogici, lasciando all’alter ego il compito di narrare una possibile spiegazione. La prosa in versi muta di forza e grandezza. Quando è incisiva, cambia la tensione linguistica che influenza di punto in bianco il costrutto dell’intera poesia (Condanna a morte; L’offesa dell’innocenza), che si fa vocativo. Lo svelamento non conosce frontiere. Dalla terra al cielo, parla monologhi da primus super partes specializzato in enunciazioni, altre volte in ammonimenti, qualche volta sentenzia conclusioni. Componimenti come Pasqua e Attesa vana sembrano sospendere il processo di ricerca della verità lungo l’abbrivio delle ultime e molto belle, poesie. Insomma, i dialoghi sono il pleroma che unisce la terrestrità al divino, come la raggiunta saggezza della poetessa ha chiuso con i dubbi. Tornando ellitticamente indietro, quasi che il commento volesse seguire le orme della struttura della silloge fino all’apogeo, tappa di una nuova riflessione, «Guarda il dolore innocente dell’altra umanità», scrive Francesca Luzzio in Amalgama [pag.14]. In questa poesia che fa l’eco della recente sorte del popolo palestinese, la coscienza è tesa verso il superamento dell’individualismo, è una necessità speculare dell’in-sé sospeso tra il quotidiano per-sé e la saggezza della libertà dell’essere in cerca del completamento, della realizzazione. Ergo: a leggerla, la composizione non è così irritante. Tutt’altro. La coscienza, dice Sartre, non è visibile. Quindi, è necessario un processo di identificazione che consenta di astrarla dal nulla affinché si elevi a oggetto di confronto. Essendo la coscienza di Francesca Luzzio l’in-sé astratto e invisibile, il confronto sarà reso possibile dalla trasformazione della poetessa in soggetto passivo. In altre parole, l’in-sé, solo nel momento in cui è osservato diviene oggetto dell’osservazione “altra” che lo rende visibile e riconoscibile, fuori dal sé. Come dice Sartre, si tratta di un relazionarsi che trascende l’essere in-sé, dato che il soggetto osservato esiste nel mondo reale in virtù dell’osservazione-evento che ha ripercussioni sulla realtà fenomenica. Possiamo applicare questo criterio d’identificazione, alla ricerca delle verità implicite in Poesie come dialoghi, sostituendo a piè pari l’in-sé della poetessa, con la sua poesia. La metabola in corso (metabola: variazione, trasferimento. Passaggio di un concetto a un altro per mezzo di un’immagine retorica) permette di materializzare il trascendente semantico in realtà fenomenica. Infatti, solo nel momento in cui viene letta, la poesia è scoperta, si fa oggetto dell’osservazione “altra” che l’identifica e opera il salto di qualità che riesce a rendere olistica la poesia fino a farsi commento, interpretazione, comprendonio dell’osservatore (lettore) con le dita nelle piaghe dell’umanità. A questo punto anche la verità è, a pieno titolo, un evento della realtà fenomenica. Ovviamente, questo criterio traspositivo può essere applicato ai diversi punti di vista di Poesie come dialoghi: l’Entità esterna, che sia Dio, il padre, la madre, la memoria, la primavera, un attante televisivo o, come nelle ultimissime poesie, la consapevole saggezza (di Francesca Luzzio) che si fa voce narrante, è una presenza esoterica e atemporale rispetto il durante della lirica che attende di divenire oggetto di una osservazione-rivelazione. Il prima, il durante e il dopo, si concentrano nell’atto unico del componimento, ma è il lettore, l’ “altro” che s’addentra nella raccolta, che opera la metempsicosi della verità e posiziona l’evento nella nicchia spazio temporale della/di una realtà. Il transfert, dunque, non incide sul libero arbitrio del lettore. Infatti, Jan Paul Sartre spiega acutamente che «l’uomo agisce nell’ambito delle possibilità e non del necessario.» Tuttavia dobbiamo porci una domanda: perché Francesca Luzzio ha scritto una siffatta raccolta di poesie? Ovvero, lo scopo morale e gnome della silloge Poesie come dialoghi, è quello di fare decidere su quali virtù scommettere e fare buon uso della dottrina, dei moniti, degli avvertimenti? Bisogna ammettere che il progetto di Francesca Luzzio è illuminante. In Poesie come dialoghi non c’è né odio, né sadismo, né masochismo. E l’altruismo? Non tocca a me dirlo. Una precisazione necessaria, dato che i criteri sartriani sulla realizzazione personale presumono la fusione dell’in-sé con il per-sé. Quest’ultimo, detto molto in breve, è un pietoso velo steso sull’anima, una dissimulazione materialistica dell’in-sé che si mostra al mondo esterno sottoforma di per-sé. La maschera indossata dall’essere umano è un me che soddisfa il per-sé; ma io non so decidermi se questo è il significante di Poesie come dialoghi. Il me che cerco di ingannare fa parte del mio io che inganna? O io sono semplicemente ingannato? Insomma, un artificio socialmente rilevante, che maschera la coscienza e scarifica la realizzazione dell’essere perché reificato da un sistema teatralmente propagandistico. Ovverosia, un meccanismo perverso e anche socialmente lesivo. E’ così che Sartre interpreta, per intenderci in tre parole, il “compromesso economico-sociale”. Una forza maggiore alla quale l’essere non può sfuggire, un Leviatano, compresso e incomprimibile com’è, fino alla sofferenza e al sacrificio dell’in-sé. Una questione di vitale importanza che i grandi uomini hanno risolto indicando principi salvativi. Come Emerigo Amari disse che «L’arte rinnova i popoli e rivela la vita,vano delle scene il diletto ove non miri a preparar l’avvenire», anche J.P.Sartre sembra avere dato una soluzione al dilemma della realizzazione nel ruolo: «L’arte è la sola che riesce a realizzare, ancorché a livello puramente immaginario, una congiunzione piena e perfetta fra l’in-sé e il per- sé, quindi, fra il soggetto e il mondo.» L’educatrice Francesca Luzzio, come molti altri professore con la vocazione dell’insegnamento, crede nell’istruzione che forma il buon carattere. La cultura è una scommessa rivolta al mondo perché, qualcuno ha detto, lo «scopo della cultura è, la perfezione; scopo dell’educazione è il carattere; scopo del pensiero è la libertà; scopo della conoscenza è l’amore.» Quindi, la giusta istruzione non prescinde dalla saggezza, dalla dottrina, dalla enciclopedia personale che motiva l’esercizio della professione e fornisce la motivazione per fare attivamente cultura. Non solo erudizione, ma soprattutto iniziativa, azione, spirito d’impresa umanistico. In tal senso, la motivazione di scrivere poesie, quindi di essere poetessa o poeta o scrittore, non coincide con i motivi della professione. Se «l’agire libero non consegue propriamente ad alcuna causa motivante, ma al contrario è esso a scegliere le proprie cause alla luce dei propri fini e progetti», allora la motivazione è afferente all’in-sé interattivo con il per-sé, elemento non più estraneo e mascheratore dell’essere, ma evento dell’individualismo e della rappresentazione estetica dell’in-sé immediatamente fenomenico. Questo discorso è molto importante, dato che Poesie come dialoghi è una silloge che esterna le tensioni inerenti alla realizzazione dell’io e, ciononostante, sottoforma di raccolta di poesie o silloge, la poetessa confessa di non esserci riuscita. Non è colpa sua, ma è contenta di fare tutto ciò che ha fatto e rifarebbe esattamente le stesse cose,sebbene il Leviatnao sia un ostacolo insormontabile. (Non fatemi dire altro perché non voglio morire prematuramente). Ma i risultati della sua scelta professionale non corrispondono alle aspettative e, come può leggersi nella prefazione di Franca Alaimo, «il presente stende le sue ali bituminose su tutto il tempo a venire, chiude il mondo sotto un coperchio pesante, come nella famosa poesia Spleen di Baudelaire.» C’è qualcosa di inevitabile che incombe, e il lettore che scorre la silloge, rivelandola, ne ha coscienza. Marcello Scurria |
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TUTTO REGOLARE |
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Una palla cade e rimbomba,
lassù,
nel piano sovrastante della mente
ed emette un suono,
quale cadenza ritmica di tamburo
che si accorda appieno
all'esecuzione musicale
di quell'unico violino,
vento che s'infiltra e sibila
da quella porta senza cardini e freno,
in perenne disarmonia con il piano...forte
dell'orologio murale.
Improvvisa suona una sirena:
torna tutto regolare
per necessità.
NON VOGLIONon voglio far niente
per asciugare gli occhi,
non voglio far niente
per dissipare la nebbia,
fantasmi di memorie
non rimosse
che corrono veloci
senza controllo nella strada
priva di frontiere.
In questa condizione
di stabilito niente
sento nell'alba oscure
minacce
di tiepido sole.
Al piccolo StefanoSei come una virgola
che ti muovi sul foglio
del tuo lungo domani
e crei pause tra frasi e pensieri
che non riesci neanche a dire.
Gattoni,farfugli parole e suoni,
ma soprattutto sorridi
e il tuo sorriso cancella
noie e pensieri,
spalanca porte dorate
di felicità.
CioccolataA mio marito
Su non andare,
i tuoi piedi sollevano a fatica
l’ansioso domani,
né tu sei gabbiano in grado di volare.
Anche qui, tra le pareti di casa
c’è tanto cielo che alimenta rosati pensieri,
anche qui troverai gocce di cioccolata
che ti daranno dolcezza mai gustata.
Espansione sentimentaleA Marina, che esprime le sue emozioni
Velocità, corsa
ebbrezza di volo in autostrada
fuori la mano non si arrende
rompe e prende il caldo vento
Ghost,
musica malinconica, sensuale, struggente
anima nascosta d'infranto amore…
Ti lasci andare,scivolare a piedi nudi
sul parabrezza frontale,
fumo etereo di sigaretta
vaporizza vecchi- nuovi, eterni pensieri.
La tragica bellezza dura ancora
ascolti la stessa musica
rivivi amori, tangibili sensazioni,
Fumo denso in lontananza
esala: non è incendio,sono fantasmi
di pensieri, di espansioni sentimentali
evaporanti verso metafisiche essenze
pregne di calde verità.
DOLCEZZASu non andare,
i tuoi piedi sollevano a fatica
l'ansioso domani,
né tu sei gabbiano in grado di volare .
Anche qui, tra le pareti di casa
c'è tanto cielo che alimenta rosati pensieri,
anche qui troverai gocce di cioccolata
che ti daranno dolcezza mai gustata.
IL RAGAZZO FAGOTTOOtto luglio 2005, ore sei e trenta.
Suona la sveglia, Marco si affretta a spegnerla e si crogiola ancora qualche minuto nel letto, distendendo piacevolmente le gambe.
“Finalmente oggi finisco, fatti gli orali, addio maturità! Sarò un uomo libero”
Ma è un pensiero che dura solo un momento e subito l’ansia per gli esami gli secca la gola. L’immediata esigenza di bere lo induce ad alzarsi e a recarsi in cucina, dove trova la madre intenta a preparare la colazione.
Apre il frigorifero e lei con l’indifferenza abituale che manifesta nei confronti del figlio, gli dice:
- Mi raccomando, Giulio, cerca di fare bene, altrimenti è meglio che non torni a casa; d’altra parte da domani saranno affari tuoi. -
Marco non le risponde neppure :era abituato a queste minacciose effusioni.
“Sì, da domani sarebbero stati affari miei, finalmente, grazie ai miei diciotto anni, andrò a vivere da solo! Non ne posso più di essere spedito come un pacco postale, da una casa all’altra, tra l’indifferenza più netta di mio padre e di mia madre, della compagna dell’una e del compagno dell’altro.”
Questi pensieri tornano ad alleggerirgli l’ansia degli esami, così quasi con gioia va in bagno a
sbarbarsi e nel guardarsi allo specchio, egli che non si è mai piaciuto, si vede anche più bello: i suoi riccioli rossicci, i suoi occhi azzurri, la sua carnagione bianca che gli danno nell’insieme un tocco femmineo, gli appaiono seducenti, insomma si piace.
Così compiaciuto torna nella sua stanza per vestirsi, quando gli risuonano alla mente le parole della professoressa d’italiano,”mi raccomando, quando ci saranno gli esami, venite vestiti in modo decente perché, se è pur vero che l’abito non fa il monaco, l’abbigliamento adeguato è un modo per mostrare rispetto nei confronti della commissione esaminatrice”.
Così sceglie un jeans non bucato, una maglietta bianca, insomma un abbigliamento sportivo, ma serio.
“Una donna preparata, in gamba, in grado di essere anche maestra di vita e forse, se non fosse stato per lei….non so, non so, se ce l’avrei fatto a continuare!”
Vestitosi, non torna neppure a salutare sua madre che si trova ancora in cucina: non ne vale la pena. Esce di casa e mentre percorre il tragitto che lo separa da scuola, si sente in quel particolare stato d’animo che potrebbe dirsi sospeso, tipico delle anime penitenti del Purgatorio dantesco, diviso com’è tra la preoccupazione per gli esami, la gioia per la nuova, futura vita che lo attende e il passato che già ha vissuto, ma mentre il futuro è per lui una pagina bianca da riempire, gli anni trascorsi della sua esistenza gli passano davanti agli occhi come diapositive che scorrono veloci in cui liti convulse tra mamma e papà, vocii confusi, imprecazioni che trovavano il loro culmine in quel termine ba-star-do, che veniva sillabato quasi a caricarne il significato, quasi a dare a quella parola tutto il peso che meritava, mentre occhiate feroci scendevano su di lui, fragile e indifeso, che con grande senso di colpa, anche se ignaro di quale, nell’incomprensibile significato di quella parola, si nascondeva dietro le porte,sotto il tavolo, insomma dove poteva , desideroso in quei momenti solo di annullarsi, di scomparire o magari di trasformarsi nel suo orsacchiotto che tranquillo se ne stava lì, sull’angolo del divano .
Gli sembra d’impazzire perché adesso come allora sente rompersi i timpani a quei rumori, a quelle grida, ma poi al frastuono succedeva il silenzio, restava solo quel incomprensibile senso di colpa,
pesante come un macigno reso ancora più pesante dall’indifferenza e forse anche dal disprezzo in cui entrambi lo abbandonavano.
“Certo, io sono frutto di una violenza, di uno stupro subito da mia madre, di un tradimento, di un terribile qualcosa che mi rende inviso ad entrambi; non so e forse non lo saprò mai! Eppure, adesso che andrò ad abitare da solo, adesso che non sarò più sgradito pacco postale, ma uomo autonomo, libero in tutti i sensi, anche economicamente, grazie alla rendita che insieme alla casa mi ha lasciato sempre quella buon’anima di mia nonna, cercherò il mio vero padre, voglio capire perché mi circonda questo disprezzo. Un cane di solito è trattato meglio di me”.
Mentre è immerso in tali pensieri, gli viene da piangere e ridere contemporaneamente continuando a ricordare come dopo il divorzio dei suoi genitori,ogni mese, fatto fagotto ed egli stesso fagotto, ha cambiato casa.
Che indifferenza! Lo accompagnavano e lo scaricavano, sollevandosi da un peso fastidioso; talvolta restava anche dietro la porta chiusa perché nessuno era in casa ad aspettarlo e poi lo attendevano altre parole infastidite, mentre gli si additava l’angolo della stanza o lo sgabuzzino in cui si sarebbe dovuto sistemare. Tuttavia cresceva, ma cresceva male perché capiva di essere un peso, una cosa più che una persona, che sarebbe stato meglio che non ci fosse mai stata.
Spesso somatizzava la solitudine e l’indifferenza che lo circondava e si ammalava con facilità: influenze, mal di pancia, terribili mal di testa lo affliggevano frequentemente, creando ulteriore fastidio a chi l’ospitava; in quei periodi non andava neppure a scuola, inficiando ulteriormente il suo mediocre profitto e soprattutto continuava a non interagire con i suoi compagni, già continuava, perché di fatto neanche quando andava a scuola parlava con loro.
Chiuso com’era nelle sue angosce e nei suoi problemi,anche durante la ricreazione restava solo, rannicchiato sulla sua sedia, escluso da qualsiasi rapporto umano; d’altra parte perché uscire se non aveva neanche i soldi per comprare la colazione?
L’apparire in lontananza della scuola, riporta alla sua immaginazione la figura della sua insegnante d’italiano e un sorriso sfiora le sue labbra ,mentre affettuosi pensieri gli attraversano la mente.
”Cara prof, sei qui, ti vedo! I tuoi capelli brizzolati, i tuoi occhi buoni, il tuo sorriso che si trasformava in invito, ogni qualvolta alle undici ti trovavi in classe:- Su, Marco, ti posso offrire un caffé?-
Immerso in tale gradevole pensiero, Marco giunge a scuola e, strano a dirsi, non pensa più agli esami, alla prossima libertà che lo attende, in fondo c’è qualcuno che vuole bene anche a lui e questo gli basta per sentirsi uomo.
Alessandro LO IACONO “TRA ILLUSIONE E REALTA’” (silloge inedita)La raccolta poetica “TRA ILLUSIONI E REALTA’ “ DI ALESSANDRO LO IACONO possiamo definirla un romanzo d’amore, infatti come Catullo nel suo Liber o Petrarca nel suo Canzoniere, per menzionare solo due classici tra i tanti della letteratura latina ed italiana, narra in versi il suo amore per Luce, novella Laura più che Lesbia ,visto che non si concede al poeta, non solo perché “sta con un altro” ma soprattutto perché egli non manifesta mai espressamente il suo amore, sicchè protagonista di questa storia non è l’oggetto dell’amore, ma il soggetto che ama, sospira e scrive e che ,come Petrarca , indaga a fondo il suo animo, i suoi tormenti, le sue fugaci speranze. Né di Luce, così come di Laura nel Canzoniere, vediamo un ritratto compiuto: ad emergere sono solo il suo sorriso, i suoi occhi e nulla più.
A sporadici momenti d’illusione, succedono lunghi periodi di tormenti, di profonde e disperate solitudini in cui tutto perde significato e consistenza. Spesso la natura vive in sintonia con il dolore del poeta, di conseguenza spesso il cielo è grigio, umbratile e piovoso( la tempesta cancella il sereno|il cielo si tinge di grigio……,in Da lontano ti guardo),gli alberi sono spogli, e il soffio freddo del vento si identifica con il suo gelido cuore(Un vento glaciale investe il mio cuore|e addormenta il fuoco che brucia per te…..,in Freddo), talvolta appare anche indifferente, come la restante umanità, che frenetica continua a muoversi nella sua banale quotidianità(Questa grande entità estranea |che è il mondo|ha come sottofondo|un continuo brusio|un martellante tum tum….., in In questo tempo), talaltra invece, essa, nel suo splendore primaverile accompagna le illusioni e i sogni del poeta, o lo sporadico apparire di Luce (Soffice bambagia si posa sui monti|e le foglie bagnate riacquistano colore|………ed abbraccio te| piccolo dolce essere umano, in Io, te e l’universo).
Comunque il tono prevalente della raccolta tende ad essere malinconico se non pessimista, perchè di fronte alla non “corrispondenza d’amorosi sensi”(Foscolo , I Sepolcri),il poeta cade in una profonda crisi esistenziale che solo a momenti riesce ad attutirsi attraverso la sublimazione dell’amore, consista questa in un ritorno a Dio, o nella semplice malinconica rimembranza che talvolta, proiettandosi in una dimensione futura, osa uscire dal passato e proporsi come speranza.
I Lirici greci, i Neoteroi e gli Elegiaci latini, le letterature di tutti i tempi e di tutti i luoghi ci hanno lasciato bellissime raccolte e, in genere, poesie d’amore , ma limitandoci all’ambito della letteratura italiana, in questo contesto non possiamo non ricordare , oltre il già citato Petrarca, alcuni dei più significativi poeti italiani che hanno fatto delle donne da loro amate, oggetto d’ispirazione e di altissima poesia: da Jacopo da Lentini, a Dante, a Guido Cavalcanti e passando dalle origini della letteratura italiana al Novecento e ai contemporanei, solo per citare qualche nome, Gozzano,Pavese, Saba, Montale, Laurano e le citazioni potrebbero continuare a lungo, sino, per citare almeno un nome femminile a Franca Alaimo, ebbene Alessamdro Lo Iacono con” la sua parola innamorata”per riprendere il titolo di una nota antologia contemporanea, presenta in erba requisiti per domani, coniugando, secondo il precetto oraziano,”ingenium et ars, essere annoverato,tra così nobile schiera, quasi “sesto tra cotanto senno” (Div. Commedia, Inferno, c.IV), infatti le sue
poesie d’amore si caratterizzano per semplicità compositiva e per freschezza sentimentale quasi adolescenziale, sia che sogni e si illuda, sia che si tormenti. Se tale semplicità e freschezza rendono i versi coinvolgenti, un’attenta indagine intertestuale li rende anche culturalmente accattivanti.
Leggasi, ad esempio, la lirica introduttiva” Al quaderno della passione” in cui il poeta si rivolge direttamente al quaderno, perché custodisca nel suo interno le sue parole”intrise di passione e di sentimento” , qui chiaramente si evince l’influsso di G.Cavalcanti ed in particolare della sua nota poesia”Noi sian le triste penne isbigotite”, anche se lo stilnovista personifica gli oggetti della scrittura e li rende parlanti come altro da sé, ma entrambi alla fine si rivolgono al lettore affinché tenga in considerazione i loro versi; oppure si legga la poesia “Da lontano ti guardo”, dove il verso ”vedendo la morte attraverso i tuoi occhi”, senz’altro ricorda famosissimi versi di C.Pavese.
La silloge si può considerare un prosimetro, poiché l’aprono e la chiudono alcune pagine in prosa, in cui il poeta quasi bisognoso di un marchio a fuoco,che al di là dell’espandersi lirico, ulteriormente chiarifichi a se stesso e ai lettori il suo sentire, descrive la sua storia d’amore: la sua follia, il suo tormento, la sua rassegnata accettazione nella speranza che un’altra donna possa colmare il vuoto esistenziale che la non corrispondenza di Luce gli ha creato, inoltre Lo Iacono spera che ,come Dante ha dato immortalità a Beatrice attraverso la Vita nova e soprattutto la Divina Commedia, anche i suoi versi diano eternità a Luce. Ambizione? No, semplicemente consapevolezza del potere eternatore della parola, tipico di chi considera la scrittura e,nello specifico la poesia, lo strumento più efficace di espressione d’identità .
LA MADRE DI G. UNGARETTI, ALLA MADRE DI G. MONTALE: CONFRONTOLA FIGURA MATERNA TRA CIELO E TERRA
La figura materna è un topos della letteratura di ogni tempo e di ogni luogo, ma la costanza è solo tematica, perché le modalità propositive sia a livello tematico che stilistico, mutano non solo in base al contesto storico-culturale in cui gli artisti hanno vissuto ed operato, ma anche in base alla loro specifica individualità culturale e caratteriale.
Come altri poeti del Novecento, anche Ungaretti e Montale hanno proposto la figura della madre nella loro poesia e, per le ragioni suddette, ce ne danno una rappresentazione e ci descrivono un rapporto con lei e con la morte completamente antitetico. Nello specifico a rendere così diverse le poesie dei due autori dedicate alle rispettive madri è principalmente la religione : Ungaretti, dopo il periodo di riflessione trascorso nel monastero di Subiaco, trovò nella religione cattolica lo strumento per uscire dal male di vivere,dalla condizione di uomo di pena, per passare dal tragico del contingente, alla sublimità dell’assoluto, Montale invece, se si prescinde da una giovanile influenza di tematiche religiose, resta estraneo ad una riflessione esistenziale e metafisica sul Cristianesimo, pertanto il ricordo materno resta legato alla memoria terrena, senza quell’apertura trascendentale che invece è presente in Ungaretti.
Ma è attraverso l’analisi comparativa dei testi che le suddette differenze emergono meglio .
Il lutto spinge Ungaretti a riflettere sulla propria stessa morte che gli permetterà, visto che crede nella vita ultraterrena, di ricongiungersi alla madre, alla condizione d’innocenza che lei rappresenta, ma che egli non possiede, pertanto bisogna che lei invochi il perdono divino affinché tale ricongiungimento possa realizzarsi. E’ un estremo gesto di amore , che, proprio perché volto all’intercessione divina, non ammette terrene manifestazioni di affetti, infatti leggiamo nel testo “ E solo quando m’avrà perdonato,| ti verrà desiderio di guardarmi “ .Per concludere il rapporto madre-figlio, come anche il tema della morte vengono vagliati in una prospettiva religiosa, che pone in sottotraccia la terrestrità. Anche il”ridarai la mano”,v.4 e “l’avrai negli occhi un rapido sospiro”,v.15 sono inseriti in una prospettiva religiosa che rimanda al dopo la dimensione umana della manifestazione affettiva e, non a caso, rende la madre “una statua davanti all’Eterno”, mantenendo la rigidità morale che la caratterizzava quando era in vita: “Come già ti vedevo |quando già eri in vita”, vv 6,7. Anche la morte punta verso l’aldilà e non verso gli affetti terreni:” Mio Dio eccomi”, v.11, dice infatti la madre sul punto di morire e non, ad esempio,”Figlio mio ti lascio”. Né è presente la dimensione dell’io sofferente per la morte della madre, poiché il poeta costruisce il componimento esclusivamente sull’ipotesi d’incontro con lei, che, in una sorta di triangolo amoroso, esercita la sua funzione mediatrice , quale condicio sine qua non per congiungersi affettivamente al figlio. Quanto detto, induce ,secondo R.Luperini, a tentare anche una interpretazione psicanalitica: Dio proprio perché detentore della legge morale, presenta in sè i caratteri del padre, e l’io solo attraverso il suo perdono può aspirare a un contatto con la madre, ad una relazione edipica con lei, anche se questa non è da intendersi nella sua concretezza sessuale, ma nella forma sublimata e metafisica con cui viene proposta nell’ultimo distico:
”Ricorderai d’avermi atteso tanto | e avrai negli occhi un rapido sospiro”. Invece la madre è considerata da Montale nella sua materialità unica e irrepetibile.
E lei resta viva nella memoria del figlio non certo per via della religione , nella quale pur credeva , quanto per il ricordo di precisi gesti che la caratterizzavano. La madre riteneva che il corpo fosse un’ombra, l’aspetto esteriore di una realtà metafisica e che la morte fosse la via che porta alla vita eterna: “----se tu cedi come un’ombra la spoglia|-----chi ti proteggerà? Vv.5,8. Ma la vita terrena non è per il poeta un’ombra, essa vale per se stessa e a livello memoriale è l’unica forma di sopravvivenza:“---due mani, un volto | quelle mani quel volto----|----|solo questo ti pone nell’eliso”,vv.9,10,12, ossia nel paradiso memoriale di chi le ha voluto bene;
anche nel secondo verso della poesia di Ungaretti, troviamo il termine” ombra”: E il cuore -------|avrà fatto cadere il muro d’ombra”, ma diversa è la valenza semantica che il poeta vi attribuisce: per Ungaretti è l’intero percorso della vita con i suoi possibili errori ad essere ombra che, come baluardo pietroso, impedisce l’ascesa a Dio. La sacralità nel testo di quest’ultimo si evince anche dall’iniziale maiuscola della parola Madre,v.3 e appare perciò anche per tale motivo lontana dalla realtà terrena, tutta proiettata nel ruolo di “Santa mediatrice”. Il Simbolismo ermetico in cui si inserisce il poeta determina anche la soggettività emotiva e sentimentale, quasi patetica con la quale viene rappresentata la madre morta: “mi darai la mano”,v.5; “Alzerai tremante le vecchie braccia”,v.9.
Montale, invece, come si è già detto, resta sostanzialmente estraneo al Cristianesimo e,
anche quando si avvicina a Dante, questi lo interessa non per la tematica religiosa della Divina commedia,quanto, attraverso la sollecitazione eliotiana, per la sua struttura allegorica, che gli consente di dare universalità oggettiva alla vicenda personale e di utilizzare stilemi, termini e concetti della religione cristiana in chiave completamente laica o, per meglio dire, per proporre una nuova religione : quella delle lettere ; di conseguenza per il poeta è impossibile allontanarsi dalla concretezza terrena e, in occasione del primo anniversario della morte della madre, ne propone non solo una considerazione nella sua fisicità memoriale, ma la circonda anche di particolari concreti,di animali (le coturnici, i clivi vendemmiati del Musco----), inoltre il momento emozionale soggettivo scompare del tutto e la morte della madre diventa correlativo oggettivo di valori che la guerra (la lirica è del 1942) , a cui si allude nei versi 4 e 5(---or che la lotta | dei viventi più infuria-----), nega: il valore dei morti coincide con il recupero dell’infanzia, connotata anche a livello topico con il riferimento alle Cinque terre , al Mesco, luoghi della fanciullezza appunto, che la rielaborazione del lutto ripropone alla memoria insieme alla madre con “quel volto, quelle mani”.
La religione delle lettere a cui si alludeva prima, induce anche ad attenzionare l’aspetto stilistico-formale di A MIA MADRE: la lirica fa parte di Finisterre, I sezione de LA BUFERA ED ALTRO
E, come le altre liriche di tale sezione, si caratterizza per il monolinguismo e il monostilismo, prima di ricorrere a uno stile più mediato e realistico, a quel pluristilismo, anche di derivazione dantesca, che il tragico contesto storico imponeva. Finisterre , come sostiene nell’intervista immaginaria del ’46, “rappresenta la sua esperienza petrarchesca” che si esplica in un classicismo moderno dato dagli endecasillabi con numerose rime libere ( ombra- sgombra,clivi-rivi,-----) ,dai versi 7-8 a scalino e insieme costituenti un endecasillabo, dal lessico aulico e sostenuto( coro, clivo, eliso), dalla sintassi lineare che si espande strutturalmente in due periodi: la proposizione interrogativa che pone la domanda e occupa la prima strofa e l’incipit della seconda ed una assertiva che occupa la parte restante del componimento.
Altrettanto inseribile nel classicismo moderno è la lirica LA MADRE di Ungaretti che fa parte della raccolta SENTIMENTO DEL TEMPO, silloge in cui l’autore, dopo la stagione più esclusivamente ermetica della raccolta L’Allegria, non solo mostra di avere ritrovato la dimensione dell’Eterno, ma anche la metrica e lo stile tradizionale, infatti la lirica è costituita da cinque strofe di endecasillabi e settenari e vi domina un linguaggio caratterizzato da ricercata semplicità evangelica; proprio per questo,esso diviene prezioso e sublime, caricandosi semanticamente attraverso un immediato analogismo, di significati metafisici (Madre, ombra,statua,--). Lo stesso vale per l’alternarsi dei tempi verbali, nell’ambito dei quali, il presente è rilegato nell’atto dello scrivere e il futuro(darai la mano, sarai una statua---) e il passato ( ti vedeva, spirasti), possono coesistere solo se quest’ultimo si espande in una prospettiva morale e ultraterrena la cui possibilità di essere è strettamente legata al perdono divino.
Insomma, siamo di fronte ad una libertà analogica che si impreziosisce anche per Ungaretti di tradizione petrarchesca.
A LUCINAE’ marzo inoltrato
ma non sembra primavera stamattina
e con pena mi rimetto nel solito cammino
Indosso il tuo cappotto buono, di qualità
e risento il tuo odore, la tua presenza
costante e schiva .
Il tuo cappotto non è la tua eternità
è solo consistenza di odori
in questa terrestrità.
Tu mi coccoli, mi metti il fiocco…
Memoria d’olfatto.
Appena toglierò il cappotto, sparirà?
Dove vai?
(a Giulia)
Testarda e vanesia, priva di domani sei andata.
Anima migrante, zingara di professione
cammini nella larga strada senza direzione,
in una incessante movida di illusioni, credulità, ingenue passioni.
Mi chiedo dove vai se non hai sicura meta.
Intensi fumi annebbiano la tua coscienza
e la tua bellezza li rende ancor più densi perché mente
a chi cerca con fatica di carpire e dare un senso al tuo avvenire.
Anche se ti mostri nuda non potrai invaghire:
nessuno può soddisfare il tuo assetato ardore di felicità.
Fermati, l’astrale contemplazione di stelle e costellazioni
ti farà sentire il canto dell’orca,
respiro della terra, alito animale, originario nutrimento,
a chi con singhiozzo affannoso chiede pietà.
BAGLIORIE' dolce la sera:
l'aria fresca lambisce la sua carezza
luci cadenti scivolano silenti
e il cielo brilla di bianchi bagliori.
Ricordo altre luci cadenti e sibilanti
altri bianchi bagliori roboanti.
Mi pare di sentire mille e mille Eco fuggenti
che diffondono di monte in monte lamenti.
Per questo io riprendo spesso la mia conchiglia
e nella diffusa luce della notte
vado a mostrare la perla nascosta.
Profeta isolato che parli d'amore!
Non è più tempo di valori:
tra i nidi distrutti
non incontri rondini, né uomo:
solo parvenze, fantasmi svuotati
manichini abbrutiti
da grandi ferite.
Credo che hai ragione:
il sole sorge, ma non riscalda
tutti in modo uguale.
Tacitiana memoria mi dice
che Roma uccide ancora
e chiama civilizzazione
l'arroganza, il potere e la presunzione.
I FAGGISola lungo il viale
guardavo i faggi,
diari aperti su cui leggere
le storie vere di tanti amanti.
“Laura ti amo”
e il cuore trafitto
sanguina ancora.
“Mariella sei bella”
e sensuali labbra
desiderano amore.
“Ti amerò per sempre”
due cuori si sfiorano
e comunicano vita
affetti e dolori.
Lettere brevi, ma intense
rivolte all’eterno
come il soffio lento del vento
che scuote sempre
le alte cime votate
al canto degli amanti.
Preludio sinfonico :
Adone intraprende
il suo viaggio attraverso i sensi.
La conoscenza tattile
è compimento
del progressivo afflato dei sensi.
Patetici ricordi
di un tempo che fu,
il regno di Venere non è più qui
vola nell’etere,
tra clonati messaggi
di infiniti display.
Anche Cupido ormai ha sostituito
freccia ed arco
con cifrati frasari
che poi fa volare
attraverso l’e-mail.
Il Principe di Nicolò Machiavelli: coesistenza di induzione e deduzioneIl Principe di Nicolò Machiavelli è un trattato politico, ma è anche un'opera d'arte e, in quanto tale, presuppone una scelta di modalità espressive, di stile.
La filosofia condivisa dal saggista non era quella neoplatonica di M. Ficino, fortemente diffusa a Firenze, ma quella averroistico-aristotelica e naturalista diffusa nell'ambiente padovano da P. Pomponazzi.Tale concezione pone a base di tutti gli organismi viventi e quindi anche dell'organismo sociale, l'esistenza di leggi comuni che li regolano; per Geymonat e ne condivido l'opinione, Machiavelli va anche oltre perché il suo pensiero non presuppone schemi aprioristici, ma si fonda direttamente sull'osservazione del comportamento dell'uomo del suo tempo e, considerato che in virtù della sua visione naturalistica, l'uomo è sempre uguale a se tesso,anche sulla conoscenza degli antichi: “La lunga esperienza delle cose moderne et….continua lezione delle antique”(Dedica del principe). Chabot e altri studiosi parlano anche loro di un Machiavelli induttivo, precursore nell'ambito socio-politico dello scientismo galileano.
Per M. Martelli, invece, le regole generali non sono ricavate dall'osservazione dei particolari, ma sono principi preesistenti alla luce dei quali l'autore classifica i singoli casi, di conseguenza è la filosofia neoplatonica dell'ambiente fiorentino a prevalere nella formazione di Machiavelli.
“Coloro e'quali e… per fortuna diventano, di privati, principi, con poca fatica diventano, ma con assai si mantengono; …
Io voglio all'uno e all'altro di questi modi detti,… addurre dua esempi…”
(Il Principe, cap. VII).
Secondo me, Machiavelli è induttivo e deduttivo, ma per giustificare tale asserzione apparentemente assurda, bisogna considerare il Principe non solo un trattato politico, ma anche, come si è detto prima,un'opera letteraria. Se vagliamo infatti Il Principe come trattato politico esso presenta senz'altro un procedimento induttivo, altrimenti non avrebbe avuto senso tenere in così grande considerazione l'osservazione dei comportamenti umani, fossero gli uomini del suo tempo o quelli del passato. Ma se consideriamo Machiavelli come autore anche di un'opera letteraria, a me pare che egli, al di là della razionalità induttiva attraverso la quale è pervenuto alle sue conclusioni, poi preferisca una modalità espositiva deduttiva: praticamente cela i processi osservativi dei particolari, attraverso i quali perviene alle regole generali e propone subito al lettore le conclusioni, i principi generali, ai quali seguono le esemplificazioni. Insomma Machiavelli è induttivo nel pensiero, deduttivo nella forma. Presumibilmente tale scelta è manifestazione di adeguazione, almeno estetico-formale e perciò esteriore, all'ambiente neoplatonico fiorentino, anche se poi tale modalità espositiva che sembra porre di fronte a principi assoluti e indiscutibili, direi assiomi aprioristici, appare in antitesi a quel procedere anche per dilemma attraverso opposizioni e disgiunzioni che coinvolgono il lettore con razionale passione (mi si consenta l'ossimoro) nella scelta che dall'interesse specifico dell'autore deriva.
Nostalgia del futuroMentre il sole fa capolino
tra nubi nere di primavera
foriere di pioggia che non feconderà,
mi coglie la nostalgia del futuro
che avrebbe potuto esserci
e non ci sarà.
Non tessere malinconici presagi
preludio di Nemesi
urlante atroci vendette.
Agisci, l'uomo si ravvederà.
Nuovo è lo spartito,
in divenire ancora la scrittura delle note
ma suona già nostalgia, irradia stasi di vitalità.
Pozzo sulfureo rapina respiro
partorisce disarmonia
grumi di vita, di morte
(nessuno lo sa) .
Hai ragione, è inutile coprire il dolore
queste sono le conseguenze generali:
nostalgia e speranza mutano
dimensione temporale e guardano pietose
incerte fiammelle che illuminano
il fragile percorso della sciocca umanità
DisincantoGrotta di ghiaccio
circonda la mia essenza:
si esprime in un grido
dispera pace e libertà!
Ma poi si espande
in melodia tra le stalattiti,
corde sonore per il canto alato
che, pur attonito e smarrito
vuole effondere sorrisi
in occhi atterriti
da malefici giochi d'artificio.
I tuoi canti sono filamenti inconsistenti
di intensa luce solare
riflessi dal muoversi calmo
di azzurro mare
preludio dei ritmi lenti, indifferenti
di cadenzata, sterile risacca.
AMALGAMAI Dialogante- Le azioni non dominano
più la materia del cuore.
Nell’ amalgama confuso di passioni,
non riesco a carpire quelle vere.
Fantasmi insofferenti danzano frementi
intolleranti di razionali interventi.
II DIAL.- Scodinzola il cane
è contento, ne sa la ragione.
Sale sulle tue gambe
e dorme con fiducioso amore.
I DIAL.- Anch’io poggio le mani
su salde rocce di significazione,
né manca l’idillio vero
che nasce d’amore.
L’amalgama confuso
non trova radici
nel tepore bianco delle lenzuola,
ma fuori, tra i semafori rossi
che bloccano la voglia di fare,
nella nebbia che offusca
l’oggi e il domani .
II DIAL.- Non badare agli egoismi
dei potenti indifferenti,
volgiti, guarda il dolore innocente
dell’altra umanità!
Per essi accendi il semaforo verde
della tua verità
AmarezzaI Dialogante- Nei giorni dell’amarezza più nera
il sonno annulla i tormenti
nella retta indistinta
dell’assenza.
II Dialogante- Operativa, fattiva, produttiva,
(sinonimi equivalenti che la new economy
propone nell’ammasso confuso di parole)
pronta a sfaldare le pietre più dure
adesso, neanche la voce del vento vuoi sentire.
I Dialogante- Il cielo è lattiginoso, non promette bene.
Neanche il soffio del vento
allargherà più le mie ali.
II Dialogante- Arrendersi è fatale!
Non è tempo di sostare, apri lo scrigno:
tanti anelli attendono le tue mani.
I Dialogante- Tu sei uno spray irrazionale
che emani effervescenti profumi
quando il rimbombo di infausti stivali
m’impedisce di ascoltare
anche l’odore sonoro del quotidiano banale.
II Dialogante- Oggi non mi resta altro da fare:
vaporizzare profumi
che connotano ronzii istantanei
di piacevoli sensazioni,
di normalità.
AMORE COME PECCATO: LA SUBLIMAZIONE DANTESCAL'amore è uno dei temi fondamentali della letteratura di tutti i tempi.
Anche nel Medioevo,quando presso la maggior parte delle società del tempo, regna incontrastata una religiosità severa e la donna viene considerata quasi un'espressione demoniaca, non mancano i cantori dell'amore, anzi la civiltà cortese-cavalleresca trova in tale tema la sua essenza, definendo esso una “weltanschauung” , ossia un determinato modo di intendere e praticare la vita .
Il teorico per eccellenza dell'amore cortese è Andrea Cappellano, autore del trattato DE AMORE, in cui vengono fissati le norme e i canoni di tale concezione. Nonostante la condanna della chiesa che lo induce a ritrattare nel terzo libro il contenuto dei due precedenti, l'opera ha un enorme successo, permeando profondamente la cultura aristocratica del Medioevo.
Se la caratteristica essenziale del cavaliere della chanson de geste è la prodezza, nota essenziale dell'ideale umanità dei cavalieri-poeti , detti trovatori (dal latino “tropare”: cercare e trovare versi e musica) è la giovinezza alacre e gioiosa,splendidamente liberale ,elegante e raffinata,amante della donna, dell'arte, della cultura; poi nel romanzo cortese queste due umanità vengono sapientemente fuse da Chrétien de Troyes.
La concezione dell'amore cortese si manifesta per la prima volta nel sud della Francia , in Provenza e la neonata lingua d'Oc è il suo strumento espressivo; da qui si diffonde nella tradizione lirica italiana ed europea..
Secondo tale concezione, la donna è un essere sublime e irraggiungibile e l'amante si pone nei suoi confronti in una condizione di inferiorità: egli è un umile servitore ”obediens”alsuo“midons” (obbediente al suo signore). Tali termini adoperati dall' iniziatore della lirica cortese, Guglielmo IX d'Aquitania, diverranno elementi fondamentali di un linguaggio che esprime una dottrina dell'amore intesa come vassallaggio alla donna, come servizio feudale, come omaggio.
Nella sua totale dedizione, l'amante non chiede nulla in cambio,il suo amore è destinato a restare perennemente inappagato(“desamantz”), ma tale insoddisfazione se da un lato genera sofferenza, dall'altro è anche gioia, una forma di pienezza vitale che ingentilisce l'animo, privandolo di ogni rozzezza e viltà. Amore si identifica con cortesia, e solo chi è cortese ama “finemente”, ma il”fin'amor”a sua volta rende ulteriormente cortesi e gentili(A. Cappellano, De Amore), sicchè si viene a istituire una concatenazione di causa-effetto che esclude ogni possibilità di appagamento fisico, poichè quest'ultimo determinerebbe un'interruzione del processo di ingentilimento; tuttavia non bisogna pensare che si tratti di un amore del tutto platonico, infatti l'inappagabilità non esclude né la sensualità,considerato che l'ultimo momento della manifestazione dell'amore consente ”l'esag”,ossia l'ammissione dell'amante nudo alla presenza della donna , ma senza congiungersi con lei, nè un formale adulterio, visto che il rapporto si realizza rigorosamente al di fuori del vincolo coniugale, nel cui ambito,d'altra parte, si ritiene che non possa esistere”fin'amor”. La spiegazione di tale convinzione trova le sue radici nel carattere contrattuale del matrimonio di quell'epoca in cui ragioni dinastiche ed economiche prevalgono sui sentimenti. L'amore adultero implica da un lato il segreto, per tutelare l'onore della donna ed evitare”i lauzengiers”,ossia i malparlieri”( da qui l'uso del”senhal”,ossia di uno pseudonimo anziché del vero nome per rivolgersi all'amata), dall'altro un conflitto tra amore e religione,tra culto della donna e culto di Dio. L'amore cortese è quindi peccato per la chiesa e i trovatori vivono sinceramente il senso di colpa, al punto che molti di loro negli ultimi anni di vita si ritirano in convento per espiare le loro colpe,ma se prescindiamo da tale leggenda, è significativo che il senso di colpa affiora anche nella produzione lirica provenzale e soprattutto italiana.
Dopo la crociata contro gli Albigesi,infatti molti trovatori trovano una nuova patria presso la corte di Federico II e la scuola poetica siciliana fa sua la concezione cortese dell'amore, per poi trasmetterla ai poeti di transizione,detti anche siculi-toscani e ,attraverso essi, al Dolce stil novo, ma nell'ambito di quest'ultima scuola ,grazie a Dante assistiamo alla sublimazione dell'amore e la donna diventerà tramite tra cielo e terra,angelo-guida verso la comprensione di valori metafisici.ed eterni. Adesso cercheremo di esemplificare,attraverso versi di autori particolarmente significativi sia tale conflitto tra amore e religione, sia il conseguente senso di colpa che ne deriva.
Guglielmo IX di Aquitania conclude il suo canzoniere proprio con una” canzone di pentimento”in cui dichiara che non sarà più “obbediente”, cioè servente d'amore, non più sarà fedele vassallo ligio alla donna :”No serai mais obediens/ En Peitau ni en Lemozi”e, colto da rimorso per le sue colpe, ormai stanco, si chiude nell'ansia del poi e invoca il perdono di Dio nella coscienza della fine imminente.
Spirito possente e tenebroso è Marcabruno; moralista feroce, egli giudica e condanna con parole tremende,come animato da spirito profetico, la società cortese e, in special modo, si erge a giudice del”fin'amors”.Marcabruno dice che”Amore è simile alla favilla che brucia sotto la cenere e brucia poi la trave e il tetto;….chi fa mercato con amore , fa patto con il diavolo….”. Parole altrettanto aspre dice contro le donne che “dolci in principio, poi diventano più amare e crudeli e cocenti dei serpi” ; e altrove aggiunge”Dio non mai perdoni a coloro che servono queste puttane ardenti, brucianti, peggiori ch'io non possa dire…che non guardano a ragione o a torto.
Adesso, se prendiamo in considerazione la produzione letteraria della Scuola poetica siciliana constatiamo il persistere del senso del peccato e del conseguente rimorso,sì da indurre i poeti a giustificare le loro parole e i loro comportamenti.
Iacopo da Lentini in un sonetto(forma metrica, molto probabilmente,da lui inventata) afferma:
“Io m'ag[g]io posto in core a Dio servire/com'io potesse gire in paradiso/………Sanza mia donna non vorrai gire,/……ché sanza lei non poteria gaudere/ estando da la mia donna diviso./ Ma non lo dico a tale intendimento,/perch'io pec[c]ato ci volesse fare;/se non veder lo suo bel portamento/…. chè lo mi terria in gran consolamento,/veg[g]endo la mia donna in ghioria stare.
I versi evidenziano una forte ambiguità tra amore terreno e amore celeste, anzi un vero conflitto: se in conformità all'ideologia cortese è normale dire che senza la propria donna non c'è gioia, affermare che la beatitudine paradisiaca è menomata senza la sua presenza è addirittura blasfemo.
Ciò induce il poeta a giustificarsi, pertanto precisa che non vuole la donna con sé in paradiso per commettere peccato, ma per trarne consolazione guardandola,visto che lei, considerata la sua bellezza, è degna di stare in “gloria”.Tuttavia tali giustificazioni non rinnegano il suo atteggiamento di fondo e nei versi conclusivi la contemplazione ipotetica della donna gloriosa finisce con il sostituirsi a quella di Dio.
Questo conflitto investirà anche i poeti del Dolce stil novo e, a dimostrare tale asserzione ,basta prendere in considerazione quella che viene considerata la canzone manifesto del Dolce stile:”Al cor gentil rempaira sempre amore “ di Guido Guinizzelli. Nell'ultima stanza che funge da congedo, il padre degli Stilnovisti, rivolgendosi all'amata, immagina un dialogo diretto con Dio per mezzo del quale non solo ripropone il motivo capitale della donna-angelo,già presente nella tradizione provenzale e siciliana , ma attua un'autocritica che rivela il solito conflitto amore-religione :
“Donna ,Deo mi dirà: «Che presomisti?» /siando l'alma mia a lui davanti./ «Lo ciel passasti e'nfin a Me venisti/e desti in vano amor Me per semblanti/»………….Dir Li porò: «Tenne d'angel sembianza/che fosse del tuo regno;/ non me fu fallo,s'in lei posi amanza».
Dio quindi, rimprovera il poeta per essersi presentato dinanzi a lui indegnamente, dopo avere attribuito sembianze e poteri divini ad un peccaminoso amore terreno(è quanto il poeta fa nella strofe precedente).Guinizzelli si giustifica elegantemente con una nuova lode alla donna: aveva l'aspetto di un angelo,perciò non era una colpa amarla. Tale conclusione viene considerata dal critico Contini,”uno spiritoso epigramma”; da Luperini “un' ironica autocritica che difende e riafferma il proprio errore”; da Baldi,”un'elusione del conflitto amore-religione attraverso un'iperbole squisitamente letteraria”,quale quella che identifica la donna con un angelo. La metafora della donna-angelo è destinata a molta fortuna presso gli Stilnovisti,ma è solo con Dante che essa esce dalla categoria degli attributi esornativi per acquisire una connotazione morale e metafisica.
La vicenda narrata nella Vita nova è possibile dividerla in tre parti: la prima tratta gli effetti che l'more produce sull'amante, la seconda propone le lodi di Beatrice, la terza la morte della donna.
La seconda parte è quella innovativa, perché il poeta, privato del saluto della gentilissima,
comprende che la felicità deve nascere non da un appagamento esterno, ma dentro di lui, dalle parole dette in lode della sua donna,senza averne nulla in cambio,così l'amore diviene fine a se stesso e l'appagamento consiste nel contemplare e lodare la sua Beatrice “cosa venuta/ da cielo in terra a miracolo mostrare” (Vita nova, Tanto gentile----), cioè angelo che manifesta in terra la potenza divina. Come afferma C.Singleton, questa concezione dell'amore ripropone quella dell'amore mistico elaborata dai teologi medioevali, infatti alla visione cortese che considera l'amore una passione terrena che, pur raffinata e sublimata attraverso la sua funzione, non elude mai del tutto il senso di colpa, si sostituisce una considerazione di tale sentimento quale aspetto dell'amore mistico, forza che muove l'universo e che innalza le creature sino a ricongiungersi a Dio. Insomma l'amore con Dante, afferma il Singleton, diviene un” itinerarium mentis in deum”. |
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